Claudio Albertani, Fabiana Medina, “In che momento si è fottuto il Messico?”, quaderni di Collegamenti per l’Organizzazione Diretta di Classe, luglio 2021.
Messico, paese in cui la violenza omicida padronale, statale e patriarcale raggiunge livelli inauditi ma, anche, paese fecondo di utopie e di movimenti di ribellione. In questo saggio, agile ma esauriente, Claudio Albertani e Fabiana Medina ci permettono di fare il punto della situazione. Il titolo ricalca volutamente la domanda “In che momento si era fottuto il Perù” che Vargas Llosa mette in bocca al protagonista del suo romanzo “Conversazione nella Cattedrale”.
In che momento, allora, si è fottuto il Messico? Gli anni ’70 costituiscono uno spartiacque: l’alto costo del petrolio offre un’occasione di sviluppo rapidamente sprecata dal malgoverno delle oligarchie. Il paese si avvita in una crisi senza fine che apre la strada all’applicazione delle ricette neoliberali: smantellamento dei diritti dei lavoratori, svendita a prezzo di saldo delle aziende statali ai soliti amici, “la salute, la casa e le pensioni si trasformarono da diritti conquistati in servizi pagati mentre l’educazione diventava una merce”.
Il risultato sono stati gravi devastazioni ambientali e disastri nelle infrastrutture, mentre le condizioni economiche di buona parte della popolazione sono nettamente peggiorate (oggi circa il 40% ha un reddito inferiore al minimo vitale). Paradossalmente è stato proprio l’impianto statalista e corporativo affinato negli anni ’30 dal presidente Lázaro Cárdenas, con un presidente onnipotente, un partito e un sindacato di fatto unici, a favorire la transizione senza scosse al modello neoliberale.
Gli anni ’70 sono anche gli anni sanguinosi della “guerra sucia”, la guerra sporca contro le organizzazioni della guerriglia. Una lotta senza quartiere che nel corso del decennio successivo sradica la lotta armata a prezzo “di quasi 1500 morti, 15000 detenzioni illegali, 1421 casi di tortura documentati. Altre 1650 persone furono recluse in prigioni clandestine, 100 delle quali furono giustiziate in esecuzioni extragiudiziali e 797 scomparvero”. Sconfitta (ma non del tutto) la guerriglia, l’apparato repressivo statale, anziché smobilitare, trova nuovi sbocchi nel narcotraffico, grazie anche alla triangolazione Iran-Contras voluta da Reagan. Nasce così una impressionante collusione tra narcotraffico, apparati statali e aziende private che permea la società messicana fino ai massimi livelli.
La triste serie di femminicidi che (quasi sempre impuniti) insanguinano il Messico è l’atroce sintomo di questo degrado. Alla tradizionale mentalità patriarcale si aggiungono gli effetti nefasti del neoliberalismo. Non è un caso che a partire dagli anni ’90 alcuni dei crimini più efferati siano avvenuti proprio a Ciudad Juárez, città di frontiera con gli USA dove si raccoglie una nutrita manodopera femminile proveniente dalle campagne, sfruttata nelle “maquiladoras” (imprese che, nell’ambito del NAFTA, importano materie prime dagli USA per riesportarvi il prodotto finito senza pagare imposte), “così che in un ambiente sociale caratterizzato da una profonda cultura maschilista, operaie povere tra i 15 e i 30 anni, che circolavano in orari e percorsi prevedibili in zone incolte carenti di infrastrutture di base e di sicurezza furono le principali vittime degli omicidi”.
Il Messico, osservano Albertani e Medina, è però “anche un laboratorio di resistenze, un luogo speciale dove si danno appuntamento le più diverse utopie che, ogni tanto, provocano esplosioni e sconvolgimenti sociali”, un quadro complesso in cui si intersecano movimenti insurrezionali, lotte di piazza, mobilitazione legale per il suffragio effettivo e il rispetto del voto.
Su quest’ultimo punto viene analizzata la politica, ampiamente deludente, dell’attuale presidente “di sinistra” Andrés Manuel López Obrador (AMLO) e del suo partito Morena. AMLO, che giunto alla presidenza nel 2018 sostenuto da una valanga di voti, ha disatteso buona parte delle promesse: non ha modificato le politiche neoliberali, ha legalizzato la presenza dell’esercito nelle strade (che invece si era impegnato a limitare), non ha saputo porre un argine alla corruzione, alle devastazioni ambientali e agli eccidi di oppositori ed ecologisti. Rifugiati politici sono stati scandalosamente riconsegnati ai paesi vicini, mentre AMLO ha preteso dagli USA il rilascio del generale Cienfuegos, condannato in quel paese per narcotraffico e poi prosciolto da ogni accusa al rientro in Messico.
Sul tema della violenza di genere López Obrador “ha oscillato tra minimizzazione, negazione e paranoia” e si è dimostrato incapace di interloquire col movimento femminista, tanto è vero che ha compiuto una “ferrea difesa […] del candidato a governatore di Guerrero, Félix Salgado Macedonio, su cui pesano denunce per stupro.”
Ampio spazio viene dedicato all’esperienza dell’Ejército Zapatista de Liberación Nacional e all’influenza che ha esercitato a livello mondiale nello sviluppo dei movimenti, senza però nasconderne i problemi e le contraddizioni interne. In particolare il carattere verticistico che ne fa “una autonomia autoritaria dove alcuni comandano e altri obbediscono” (secondo le parole dell’anarchico Javi Herrac, reduce da una esperienza decennale nel Chiapas).
Albertani e Medina concludono la loro analisi mettendo in luce il ribollire di iniziative e di movimenti che animano la scena messicana: oltre all’EZLN e alle mobilitazioni ambientaliste, la rete dei collettivi femministi e anarcofemministi, le mobilitazioni nelle regioni indigene in difesa delle “escuelas normales rurales”, la forte organizzazione degli insegnanti (che nel 2006 “attraverso l’Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca (…) è stata protagonista della rivolta urbana più importante degli ultimi decenni in America Latina”) e un “nuovo” anarchismo in pieno sviluppo in un fiorire di collettivi.
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Mauro De Agostini