Nipoti di Rameau

Dacché è esistito, il multiforme movimento dei Lumi ha trovato le proprie raisons d’être nella critica serrata dell’autorità e degli schemi di pensiero consolidati – d’Alembert parlava di esprit systématique – e nella concretezza della lotta politica. Eppure, nel tardo capitalismo contemporaneo ne viene spesso offerta una versione annacquata, se non capovolta: non un Illuminismo plurale intrinsecamente progressivo e militante nella società, ma un Illuminismo cocciutamente trincerato nella difesa dello status quo; un Illuminismo astorico, essenzializzato e liberale per tutelare l’ordine dominante (anch’esso liberale, ça va sans dire). Per un assurdo paradosso, i Mably, i Paine, i Filangieri, una volta depurati dalla carica sovversiva e in ogni caso trasformativa qui e là percepita, hanno subito una metamorfosi che li ha identificati organicamente con l’egemonia e con i rapporti di forza esistenti, quasi fossero degli Isaiah Berlin o dei Ralf Dahrendorf ante litteram. Su questa linea banalizzante, appena tre anni fa lo psicologo cognitivo Steven Pinker, nel suo Enlightenment Now, si è appellato alle lumières per dimostrare attraverso dati e informazioni in quantità che, sic et simpliciter, il nostro è il migliore dei mondi possibili leibniziano poiché il benessere dell’umanità avrebbe raggiunto nel XXI secolo vette storicamente ineguagliate. Tutto è bene, dunque: il motto naif e dogmatico dello sventurato maestro di Candide, Pangloss, non è più il marchio degli avversari di Voltaire ma quello dei suoi sedicenti discepoli.

Un epilogo francamente mortificante per la vivacissima ed irrequieta esperienza storica dei Lumi. Soprattutto dal punto di vista di anarchici e socialisti libertari, i quali in effetti devono così tanto alle feroci battaglie dei philosophes contro la miseria, contro l’ignoranza, contro il fanatismo, contro il potere smisurato dell’uomo sull’uomo. Non occorre certo ricordare qui quanto profondamente la prassi ed il pensiero illuministi e rivoluzionari abbiano inciso sugli sviluppi dell’anarchismo ottocentesco, per esempio nell’idea di progresso: potrei citare, a questo proposito, dei camusiani hommes révoltés come il curato Jean Meslier, il marchese di Sade, Gracchus Babeuf, Jean Varlet e, naturalmente, William Godwin, forse il primo teorico sistematico dell’anarchia.

Vorrei però richiamare l’attenzione su un altro punto, assai più rilevante. La sfaccettata e complessa tradizione politica e intellettuale delle lumières, almeno in alcune sue estrinsecazioni storiche, può offrire infatti numerosi riferimenti concettuali e culturali ai libertari, oggi più che mai. Questo non in un’ottica di sterile e arbitrario asservimento distorsivo del passato alle logiche attuali, bensì in quella di dialogo fecondo dell’analisi filosofico-politica con la storiografia, al fine di trarre dalla seconda categorie interpretative ancora valide e impulsi potenzialmente mobilitanti per il tempo presente, anzi presente storico. Di Lumi, insomma, abbiamo bisogno per nuotare controcorrente: cioè contro l’impoverimento ideologico e intellettuale; contro la staticità apparente della tirannica macchina capitalistica; contro la riproduzione incontrastata di biopoteri su scala micro e macro; contro la statolatria dominante; contro l’autoritarismo oppressivo e persistente; contro le gerarchie economiche ed il lavoro salariato; contro l’imperativo consumistico, depoliticizzante ed irrazionalistico; contro il paternalismo dei potenti; contro il fatalismo rassegnato e grigio dei fiacchi. E questo, s’intende, per l’utopia concreta di una società costruita su basi autenticamente libere ed egualitarie, la società proudhoniana delle federazioni, delle comunità democratiche e dell’autogestione economico-politica (e, aggiungerei, esistenziale).

Ebbene, un buon punto di partenza per instaurare una relazione più intensa e profonda con certe frange dell’Illuminismo “radicale” (J. Israel) è rappresentato a mio avviso dall’eredità di Denis Diderot (1713-1784), curatore dell’Encyclopédie, collaboratore dell’abbé Raynal nella stesura dell’Histoire des deux Indes, versatile autore di trattati e di romanzi celebri e philosophe tra i più arditi e originali. Ma questo non perché Diderot sia stato davvero un precursore dell’anarchismo, come invece pretendeva il sociologo Irving Louis Horowitz (The Anarchists, 1964): tanto mutevole e fluido fu il suo pensiero che sarebbe azzardato ipostatizzarlo ricorrendo a rigide etichette. Semmai, a doverci interessare di maître Denis dovrebbero essere soprattutto due delle sue modernissime “affermazioni di ideali”, come le chiamò Franco Venturi, autore nel 1939 del classico La jeunesse de Diderot.

In primo luogo, la sua concezione di ragione. Alle interpretazioni meccanicistiche e sensistiche di Condillac e di Helvétius, assertori della subordinazione delle facoltà razionali umane agli stimoli passivamente recepiti per mezzo dell’esperienza sensoriale, Diderot contrappose una visione vitalistica, non deterministica, energica del “penser”, qualità innata nell’uomo tanto quanto il “sentir”. Partendo da un’impostazione essenzialmente scettica, evidente ad esempio nella Lettre sur les aveugles del 1749 o nel De l’interprétation de la nature del 1753, il filosofo di Langres sosteneva che alla radice della ragione umana, istinto ineliminabile, stava l’entusiasmo, l’energia mentale e morale propria dell’individuo e della società nel complesso. Questa forza critica e in perenne stato di agitazione, intrinsecamente attiva e operante, permise a Diderot di prendere le distanze dai fautori di un determinismo statico applicato all’agire sociale e politico dell’uomo, giacché la raison dipendeva non tanto dagli impulsi esterni filtrati mediante i sensi quanto piuttosto da un attributo caratteristico della mente umana. La ragione, dunque, come motore dinamico di trasformazione dell’esistente e come riflesso dell’immaginazione e della volontà creatrice.
D’altra parte, secondo Diderot una razionalità così vitale e vigorosa non poteva venire ingabbiata in categorie prefissate o in schematismi aridi e astratti: al contrario, doveva rimanere liquida e cangiante almeno quanto liquida e cangiante era la natura in eterno divenire. “Bisogna lasciar libera l’esperienza”, esortava Denis, senza consentire che idee troppo strutturate o griglie interpretative scolastiche ci precludano il libero esercizio dell’intelletto. Di qui il motto scandaloso: “Mes pensées, ce sont mes catins” (“I miei pensieri sono le mie puttane”).
Che non ci troviamo nel campo dell’astrattismo filosofico dovrebbe risultare evidente: l’invito duplice di Diderot, certo familiare per un anarchico, è infatti, da un lato, quello di diffidare delle teorie incentrate su determinismi asfittici valorizzando invece la vitalità performativa e tenace della ragione e, dall’altro, quello di conferire alla critica razionale un carattere sperimentale, spregiudicato, inquieto, inafferrabile, sempre avulso da dogmatismi e da dottrinarismi. Lezioni preziose da tenere a mente per la lotta.

Meritano un cenno ulteriore, in secondo luogo, l’antiautoritarismo e l’anticonvenzionalismo di Diderot, apprezzati a più di un secolo di distanza anche da Kropotkin. Significativamente, leggendo il manoscritto del Vrai Système del benedettino Dom Deschamps nell’estate del 1769, Denis ebbe a commentare: “Io sono convinto che la specie umana può essere felice solo in uno stato sociale nel quale non vi siano né re, né magistrati, né preti, né leggi, né tuo, né mio, né proprietà mobiliare, né proprietà fondiaria, né vizi, né virtù”. È altrettanto nota, al riguardo, l’emblematica coppia di versi del poemetto del 1772 Les Eleutéromanes: “La natura non ha fatto né servitori né padroni; / io non voglio né dare né ricevere leggi”. Professioni di insofferenza al potere dispotico e addirittura allo stato, queste appena ricordate, che furono poi riprese nel Supplément au voyage de Bougainville, utopia trasposta nell’esotica e irraggiungibile Tahiti di una società non ancora corrotta dalla civiltà europea, dall’egoismo proprietario e dalle catene dell’insensata morale sessuale. Si scorgevano in queste audaci esternazioni alcuni dei fattori ideologici all’origine del definitivo ripudio da parte di Diderot dell’assolutismo illuminato in seguito al soggiorno nella San Pietroburgo di Caterina II tra il 1773 e il 1774. Soprattutto però traspariva l’ormai irreversibile radicalizzazione della vena antiautoritaria diderottiana.
I toni si fecero perfino più espliciti e più incisivi con Le neveu de Rameau (“Il nipote di Rameau”), dialogo immaginario tra l’autore e il geniale ma sregolato Jean-François Rameau, appunto nipote del celebre musicista Jean-Philippe Rameau. L’espediente letterario serviva ora a sviscerare le trasformazioni economiche e culturali in atto nella società francese. Jean-François, simbolo di un ambiente corrotto e decadente e di una rottura con la morale corrente in un senso comunque progressivo, è l’emarginato lucido e disincantato che reca in sé i segni di un sovvertimento socio-politico imminente. “Da un polo all’altro”, sentenzia, “vedo solo tiranni e schiavi”. C’è chi arraffa e c’è chi mendica; chi vive di lussi e chi di vili astuzie; chi comanda e chi ubbidisce. Ma il ribaltamento è dietro l’angolo: “Niente è così piatto quanto una sequela di accordi perfetti. Ci vuole qualcosa che punga, che scinda il fascio e ne sparga i raggi”. Ci vuole, si potrebbe proseguire, un riformismo rivoluzionario che cambi la “musica” spianando la strada alla liberazione integrale dell’uomo nella sua dimensione individuale e sociale senza più compromessi. Da questo punto di vista, dovremmo forse iniziare a considerarci nipoti di Rameau. O, ancora meglio, figli di Diderot.

Giulio Talini

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