La Riflessione del “Gruppo sulla Moneta”
Il dibattito sull’euro, la finanziarizzazione dell’economia, l’esplosione del debito pubblico sono temi di attualità. Tutti questi temi riportano, in un modo o nell’altro, alla questione della moneta e del denaro, questioni affrontate dalla scuola della composizione di classe od operaista, soprattutto italiana. Le interviste a Stefano Lucarelli e Lapo Berti richiamano l’attenzione sul dibattito attorno alla moneta svoltosi sulle pagine della rivista Primo Maggio all’inizio degli anni ’70 del secolo scorso.
L’intervista rilasciata da Stefano Lucarelli a Commonware nel 2014, dal titolo “Moneta e finanziarizzazione”, passa in rassegna la storia del gruppo sulla moneta costituitosi all’interno della rivista Primo Maggio.[1]
La fine della convertibilità del dollaro in oro, decisa dal presidente degli USA Nixon nel 1971, è il punto di partenza di questa storia. L’intervista di Lucarelli inizia con il lavoro di Sergio Bologna “Moneta e crisi. Marx corrispondente della New York Daily Tribune”;[2] con questo lavoro vengono introdotti concetti come “comando monetario”, “composizione di classe” e “rivoluzione dall’alto”. Prendendo spunto dalle misure adottate da Napoleone III in Francia attorno alla metà del XIX secolo, Bologna definisce queste misure come tentativo di controllo della classe operaia attraverso l’offerta di moneta e la costruzione o la riforma di strutture apposite; comincia a far capolino l’idea che è possibile estrarre plusvalore dalla forza lavoro non solo all’interno del processo di produzione, ma anche attraverso le politiche creditizie e monetarie; sul piano politico i comportamenti rivoluzionari vengono domati sia attraverso la ristrutturazione nei luoghi di lavoro, sia tramite misure che impattano sulla società nel suo insieme.
Il gruppo operaista che collaborò nella rivista “Primo Maggio” usa il termine cooptazione nel senso di comando monetario sulla composizione di classe. Per Lucarelli si tratta di uno schema teorico, inedito rispetto al dibattito teorico in campo marxista degli anni ’70 in Italia, utile per analizzare la dichiarazione di non convertibilità del dollaro in oro del 1971, considerata una rivoluzione dall’alto. È il trionfo della moneta segno, cioè di una moneta dal valore intrinseco pressoché nullo, il cui valore è stabilito dalla istituzione che la emette. Questo trionfo, per il gruppo sulla moneta, fornisce una conferma della crisi della legge del valore, anticipata da Toni Negri nell’agosto del 1971. Lucarelli afferma che il concetto di valore del lavoro, ancorato al tempo di lavoro, viene di fatto messo in discussione dal modo in cui il denaro viene indirizzato verso la struttura produttiva. Più avanti, si sostiene che, man mano che il processo di finanziarizzazione avanza, sono i mercati finanziari che acquisiscono un ruolo predominante nel comando monetario; in altre parole, i mercati finanziari trasmettono determinati input alle politiche monetarie delle banche centrali, input dei quali queste ultime devono tener conto: la liquidità del sistema viene tarata in base alle aspettative di redditività fissate dai mercati finanziari.
Lapo Berti è scomparso nel 2017. L’intervista, dal titolo “Marx, moneta e capitale nel dibattito della sinistra marxista italiana e francese ai tempi dell’Anti-Edipo”, inserita nel volume “Moneta, rivoluzione e filosofia dell’avvenire”, è stata rilasciata a Paolo Davoli e Patrizia Rustichelli nel 2016.[3]
Berti ricostruisce il clima ed il dibattito da cui si sviluppò l’esperienza di “Primo Maggio”: un gruppo di militanti che non si accontentavano delle forzature organizzative e volontaristiche, che intendevano mantenere uno spazio in cui costruire una elaborazione autonoma, ai quali stava stretta l’ortodossia marxista e che ritenevano fondamentale confrontarsi con le analisi ed i punti di vista elaborati dagli avversari. Importante fu lo stimolo di Sergio Bologna per ripensare i rapporti fra moneta e crisi capitalistica, cui Berti aderisce con entusiasmo: era convinto infatti che la chiave di tutto fosse un’analisi più realistica del funzionamento del sistema monetario e del suo ruolo nella gestione del comando capitalistico.
Lapo Berti, all’interno di “Primo Maggio”, ha coordinato il “gruppo sulla moneta”, che delineò una nuova rappresentazione della crisi capitalistica. I partecipanti al gruppo erano convinti di trovarsi di fronte ad un profondo mutamento nella funzione della moneta, con la fine del sistema monetario internazionale basato sui cambi fissi, e che si fosse enormemente ampliata la possibilità di manipolare la moneta con finalità più o meno politiche. La moneta, ormai svincolata dal legame con il valore dell’oro, era diventata una variabile manovrabile; la politica monetaria diventava uno dei principali strumenti di governo dell’economia capitalistica ed interveniva pesantemente nei rapporti fra le classi. Obiettivo del gruppo era studiare la politica monetaria come strumento di controllo della distribuzione del reddito a favore dei profitti.
L’obiettivo ambizioso di una nuova teoria del capitalismo rimase in fasce, nonostante alcuni interessanti contributi; era stato comunque colto un punto importante: la moneta era definita come un’istituzione che fa parte dell’apparato in cui si articola il governo della società e questo, per Lapo Berti, è un contributo originale.
Il lavoro sulla politica monetaria ha portato i protagonisti del dibattito a ritenere che il mantenimento della teoria del valore-lavoro impedisse di comprendere l’essenza e la funzione della moneta nel capitalismo attuale. L’intervista a Lapo Berti continua descrivendo l’attuale situazione che vede una concentrazione di potere nell’ambito del sistema economico, in particolare in quello finanziario e bancario, una vera e propria ipertrofia.
In sintesi, queste due interviste ci propongono alcuni temi fondamentali: innanzi tutto la rottura epocale rappresentata dal superamento del sistema dei cambi fissi, con la revoca della convertibilità in oro del dollaro; inoltre la politica monetaria come strumento di controllo dell’accumulazione capitalistica e soprattutto come strumento di controllo fra le classi; infine l’insufficienza della teoria del denaro di Marx, inadeguata ad interpretare i nuovi fenomeni.
Il Gold Standard e la sua Fine
A ben vedere, però, le affermazioni di Lucarelli e Berti hanno più di un punto debole. La frattura operata da Nixon è meno dirompente di quanto si vuol far credere.
Sul piano delle teorie ufficiali sulla moneta, la fine della convertibilità aurea rappresenta un punto a favore delle tesi di Keynes, che già alla fine della Prima Guerra Mondiale aveva giudicato negativamente il ritorno al gold standard. Ad esempio Francesco Forte, paragonando Keynes ed Einaudi, afferma che il primo considerava il legame della moneta con l’oro un relitto barbarico, mentre il secondo voleva il ritorno al gold standard.
Gli accordi di Bretton Woods furono una sconfitta per Keynes, che avrebbe voluto che nessuna moneta primeggiasse sulle altre e sosteneva l’abbandono del gold standard; invece questi accordi videro primeggiare il dollaro, come unica moneta convertibile, e le altre monete ancorate al dollaro da un sistema di cambi fissi. La decisione di Nixon può quindi essere considerata una vittoria postuma di Keynes, morto nel 1946, sullo Stato che più di tutti aveva ostacolato il suo progetto.
Sul piano concreto, bisogna tener conto della realtà del mondo negli anni ’70 del secolo scorso, con la divisione tra blocchi contrapposti, quello cosiddetto occidentale e quello cosiddetto sovietico, e un’area di paesi non allineati. Esisteva un mercato mondiale, un mercato dove la moneta del blocco occidentale, diversamente da oggi, non era considerata l’unica moneta. Negli scambi fra i blocchi si ricorreva al baratto o all’oro, per cui i prezzi delle merci, espressi in dollari all’interno del blocco occidentale, dovevano poi trasformarsi in oro sul mercato mondiale. Lo sganciamento del dollaro dall’oro aveva quindi solo un valore all’interno della sfera di influenza USA ma, soprattutto nei grandi movimenti di capitali, il riferimento all’oro di fatto rimaneva.
Più significativa l’adozione dei cambi flessibili; anche in questo campo ci troviamo di fronte ad un’applicazione dei concetti keynesiani: Keynes rifuggiva dalle regole rigide ed affidava alla Banca Centrale il compito di gestire la politica monetaria in funzione della crescita economica (accumulazione capitalistica) e della piena occupazione, come garanzia della domanda. È solo a partire dalla fine degli anni ’70 che cominciano ad affermarsi teorie monetarie che separano crescita economica e piena occupazione, le politiche dell’offerta, supply side economics, portate avanti dai “ragazzi di Chicago”, che dominano ancora il panorama accademico e politico.
La politica monetaria come strumento di governo dell’economia rientra quindi nell’orizzonte teorico di Keynes, anzi, proprio la sua teoria generale vuole fornire gli strumenti per un’azione dall’alto sull’economia, in contrasto con le tradizionali teorie del laissez-faire. In particolare, per quanto riguarda il prezzo della forza-lavoro, Paul Mattick sostiene che Keynes era ben cosciente della necessità di ridurre i salari per garantire l’accumulazione capitalistica ma, anziché aspettare che i salari nominali si abbassassero per effetto della crisi economica e della disoccupazione, attraverso un’inflazione regolata, pensava che fosse più opportuno ridurre i salari reali senza toccare quelli nominali. Queste parole, che anticipano quelle degli operaisti italiani, furono pubblicate da Mattick negli Stati Uniti nel 1969.
La Crisi del Marxismo e lo Stato
Per quanto riguarda l’aggiornamento del marxismo, c’è da dire che già pochi anni dopo la pubblicazione del III Libro del “Capitale” (1894), Hilferding, con l’opera “Il capitale finanziario” (1910), successivamente Rosa Luxemburg con “L’accumulazione del capitale” (1913) e Lenin con “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” (1916) integrano la recente opera di Marx. Il dibattito nel movimento marxista internazionale, fra aggiornamenti, integrazioni e modifiche, è vasto e la conquista del potere da parte dei bolscevichi in Russia aggrava la situazione, perché il marxismo accademico, in Unione Sovietica, è piegato alle esigenze di governo interne e internazionali del gruppo al potere. Secondo vari teorici marxisti tra cui Ernest Mandel, economista belga e dirigente della Quarta Internazionale, il capitalismo ha subito un cambiamento strutturale dopo la crisi del 1929.
La critica della corrente operaista, quindi, è solo una delle tante ipotesi di aggiornamento del marxismo che però, come le precedenti, non riesce a cogliere il punto debole della critica di Marx. Ad un primo esame, i testi che abbiamo citato sono accomunati dall’affrontare il tema del rapporto tra accumulazione capitalistica e Stato e nell’individuare in questo rapporto le necessità di aggiornamento e integrazione dell’insegnamento di Marx. Nessuno dei modernizzatori del marxismo è riuscito a formulare una teoria rivoluzionaria del rapporto fra Stato ed economia: sia Berti sia Lucarelli stemperano molto il ruolo dello Stato e le politiche monetarie rimangono prive del soggetto, che viene a volte individuato nelle istituzioni finanziarie, a volte nei mercati. Questo atteggiamento è tanto più curioso in quanto le dottrine economiche accademiche, sia nella classica versione keynesiana, sia nella versione che ne danno i “ragazzi di Chicago”, attribuiscono molta importanza all’azione dello Stato e dei governi. La critica della moneta, quindi, perde così molto della sua capacità interpretativa e della sua potenzialità rivoluzionaria.
Il dibattito aperto sulla moneta dalla corrente operaista italiana, quindi, al di là della giovanile baldanza dei suoi protagonisti, rimane segnato da un forte provincialismo e da una subordinazione al modello autoritario di soluzione della questione sociale.
Tiziano Antonelli
NOTE
[1] Vedi per una sintesi https://www.sinistrainrete.info/finanza/3541-stefano-lucarelli-moneta-e-finanziarizzazione.html
[2] https://www.autistici.org/operaismo/PrimoMaggio/La%20rivista/Primo%20Maggio%20%231.pdf