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Federalismo predatorio e coloniale

Federalismo predatorio e coloniale

Nel momento in cui mi accingo a scrivere queste righe è il 15 gennaio 2019, il termine che il governo lega-pentastellato ha ricevuto per definire l’istruttoria dei preaccordi conclusi il 28 febbraio 2018 dal governo Gentiloni con le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna in merito a ciò che, come vedremo, con un notevole eufemismo viene definito “federalismo fiscale” o, talvolta, “federalismo differenziato”. Quest’ultima definizione, pur restando eufemistica, rende forse meglio l’idea di ciò che sta nei desideri del governo – ma andiamo per ordine.

Innanzitutto occorre dire che intorno agli accordi specifici resta – a dire dei parlamentari di opposizione e persino di alcuni parlamentari pentastellati potenzialmente critici – un vero e proprio velo di segretezza: in ogni caso i termini generali della cosa sono abbastanza chiari e sufficientemente preoccupanti per chiunque abbia a cuore un minimo di principio di equità sociale.

La faccenda nasce con una serie di referendum regionali,[1] il cui svolgimento è stato possibile grazie alla legge delega n. 133 del 1999, il successivo decreto delegato n. 56 del 2000 (governo D’Alema) ed infine con la legge costituzionale n. 3 del 2001, in cui le suddette regioni hanno richiesto l’applicazione ad esse del “federalismo fiscale”. Si tratta di tre regioni che, da sole, generano il 40% del PIL nazionale ed hanno richiesto l’autonomia su tutti e ventitré i possibili capitoli di spesa.[2] Nel frattempo, abbastanza di recente, Piemonte, Liguria e Marche-Umbria hanno avviato in varia forma più o meno il medesimo processo e queste, insieme alle precedenti, porterebbero il totale del calcolo precedente ad oltre il 70% del PIL nazionale.


Accennavamo prima che il governo lega-pentastellato ha trovato in merito la strada spianata da quello precedente, il quale aveva firmato con ciascuna delle tre Regioni una sostanzialmente simile preintesa su politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente, rapporti internazionali e con l’Unione Europea i cui punti da sottolineare sono i seguenti: 1. Gli accordi sono di durata decennale e potranno essere modificati solo di comune accordo tra Stato e Regione. 2. Le risorse da destinare andranno “determinate da un’apposita commissione paritetica Stato Regione” che opererà in base a “fabbisogni standard, che dovranno essere determinati entro un anno dall’approvazione dell’Intesa e che progressivamente, entro cinque anni dovranno diventare, in un’ottica di superamento della spesa storica, il termine di riferimento, in relazione alla popolazione residente ed al gettito dei tributi maturato nel territorio regionale in rapporto ai rispettivi valori nazionali, fatti salvi gli attuali livelli di erogazione dei servizi.” 3. “Stato e Regione, al fine di consentire una programmazione certa dello sviluppo degli investimenti, potranno determinare congiuntamente modalità per assegnare, anche mediante forme di crediti d’imposta, risorse da attingersi da fondi finalizzati allo sviluppo infrastrutturale del paese”.

Il primo punto, evidentemente, è volto a rendere impossibile la modifica dell’accordo – se un domani un nuovo governo, diversamente orientato, volesse rimettere in discussione il “federalismo fiscale” lo potrebbe fare solo con l’accordo della regione avvantaggiata che dovrebbe, con un atto di buon cuore, rinunciare ai suoi privilegi. Insomma i classici termini degli accordi capestro, evidentemente ben conosciuti dal governo lega-pentastellato: non dimentichiamoci, infatti, che l’ineffabile viceministro Roberto Maroni aveva votato con tutti suoi sodali a favore dell’altrettanto accordo capestro con Autostrade per l’Italia, di cui poi lo stesso governo si è lamentato in occasione del conflitto con la suddetta società in occasione del crollo del Ponte Morandi a Genova. Oddio, all’epoca avevano giurato e stragiurato che il “governo del cambiamento” mai e poi mai avrebbe fatto cose simili…

Il secondo punto va innanzitutto decodificato. Quello che è in gioco è la presa in carico diretto del cosiddetto “residuo fiscale” attuale: il “residuo fiscale”, in altri termini , è la differenza tra le tasse che vengono pagate all’interno di una regione e quanto viene investito dallo Stato nazionale in essa – per queste tre regioni (e per le altre che hanno dato recentemente segno di volersi aggiungere) questo saldo è attualmente negativo.

Sulla questione del “residuo fiscale” vanno però specificate alcune cose. Innanzitutto, la stessa faccenda di parlarne in termini regionali è fuorviante, in quanto il reddito della stragrande maggioranza dei cittadini delle varie regioni d’Italia (lavoratori dipendenti pubblici e privati, parasubordinati, piccoli commercianti, ecc.) non è molto diverso: la differenza è fatta dai redditi della minoranza di ricchi e super-ricchi – per capirci, Berlusconi vive ad Arcore e non a Bitonto. Il saldo negativo deriva dal fatto che lo Stato centrale unitario compie – sia pure in minima parte e con notevoli punti critici – un qualche processo di “perequazione”, in altri termini tende ad offrire in termini di politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente, ecc. più o meno gli stessi servizi a tutti i cittadini, servizi di cui usufruiscono poi sostanzialmente i succitati lavoratori dipendenti pubblici e privati, parasubordinati, piccoli commercianti, ecc. Ora eliminare questo saldo negativo comporterebbe, nella migliore delle ipotesi, una netta diminuzione della qualità dei suddetti servizi al resto d’Italia ed un miglioramento netto degli stessi nelle regioni “autonomizzate” fiscalmente.

In che senso nella migliore delle ipotesi? Per capirlo dobbiamo giungere al terzo punto, che tradotto in soldoni, significa che questo aumentato gettito fiscale potrà essere utilizzato per le “grandi opere”, insomma ridato agli imprenditori di vario genere il cui alto reddito crea il “residuo fiscale” attuale. In questi ultimi anni, la crisi ha colpito certamente in misura maggiore i cittadini italiani del centro-sud della penisola ma, di sicuro, quelli del centro-nord ne hanno ugualmente sentito il fiato sul collo, in termini di perdita di reddito e di servizi. Di fronte ad una caduta generalizzata di quella che un tempo si diceva “coscienza di classe” ed alla martellante propaganda razzista antimeridionale della Lega (e non solo), gli imprenditori di cui sopra hanno avuto buon gioco a far votare in massa per il “federalismo fiscale” masse di cittadini che avranno in cuor loro fatto il seguente ragionamento: che ce ne frega di quei sudici fancazzisti, tanto tutto quello che gli diamo è sprecato, riprendiamocelo noi per i nostri bisogni… Insomma, hanno fatto da “utili idioti” per l’ulteriore arricchimento di ricchi e straricchi delle loro parti, che di loro non gliene frega un accidente, senza probabilmente riceverne pressoché nulla in cambio.

Tornando al titolo, qualcuno potrebbe pensare: “Va bene, ora ho capito in che senso questo federalismo differenziato è predatorio, ma perché sarebbe anche coloniale?” La risposta è semplice: questo meccanismo di ulteriore predazione della ricchezza sociale – noi anarchici non dimentichiamo mai la fonte delle grandi fortune – comporta di fatto una situazione del genere del rapporto tra madrepatria e colonie. Già ora le regioni del centro-sud fungono di fatto da mercato protetto, nonché da riserva di manodopera semplice e qualificata per le regioni del centro-nord della nazione, ma l’aspetto di repubblica unitaria, come dicevamo, almeno su politiche del lavoro, istruzione, salute, tutela dell’ambiente, ecc. un minimo di perequazione la garantisce. Se passerà il cosiddetto “federalismo fiscale” non ci sarà nemmeno più questo aspetto a differenziare nei fatti i rapporti tra le due parti d’Italia che, di là degli orpelli giuridici, diverrà assai simile ad un’interdipendenza “a geometria variabile” – espressione cara al governo pentastellato – del tutto squilibrato e senza vantaggi di sorta per i poveri cristi di nessuna delle due.

Enrico Voccia

NOTE

[1] La Regione Veneto aveva addirittura richiesto di pronunciarsi sulla volontà popolare di una vera e propria secessione dalla Repubblica Italiana, cosa negata dalla Corte Costituzionale. A differenza dell’analogo caso catalano, la Regione non ha forzato la situazione.

[2] Solo l’Emilia Romagna si è inizialmente limitata a nove capitoli, aumentandoli in una fase successiva.

[3] Citato in VIESTI, Gianfrranco, Verso la Secessione dei Ricchi? Autonomie Regionali ed Unità Nazionale, Bari, Laterza, ebook.

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