C’eravamo tutti. Quelli che ci sono sempre stati ed i giovani arrivati sull’onda delle lotte di chi c’era prima. C’erano gli anziani che con lacrimogeni e idranti faticano a respirare ed i bimbetti per i quali non è ancora tempo di barricate. Una marcia necessaria a dimostrare che l’opposizione al Tav e alle grandi opere è radicata in Valle, a Torino ed in ogni dove. C’erano delegazioni delle tante lotte che in questi anni si sono intrecciate e sostenute in una dinamica di mutuo appoggio che si è consolidata con il passare del tempo.
C’era anche una delegazione di amministratori, tra i quali, ancora una volta, non mancano ambiguità sul tema del Tav. Purtroppo c’è chi continua a ritenere che rappresentino un sostegno e non un intralcio. Ma, in fondo, il loro gruppetto era inessenziale rispetto ad una manifestazione che pulsava delle lotte scritte nei cartelli e sugli striscioni. Quando è prevalsa la delega, quando si è permesso che la parola passasse alle istituzioni, il movimento si è contratto, smarrito, perso in un’illusione pericolosa. Ora anche l’ultima sbornia è passata. Fermare il treno ed il mondo che rappresenta, un mondo dove la logica del profitto è più importante delle nostre vite, dipende dal popolo No Tav. Un popolo che non è, come in ogni follia nazionalista, comunità organica ed escludente, ma comunità di lotta, che si costituisce sul terreno dove si condividono saperi e si costruisce, sin da ora, il mondo che vorremmo.
Lo spezzone anarchico aperto dallo striscione “Azione diretta autogestione. No Tav” ha portato in piazza le ragioni di chi rifiuta ogni delega istituzionale, perché terreno di lotta sono le strade, i sentieri le piazze attraversate da chi, in barba alla durissima repressione, sa che il movimento ha più volte bloccato il Tav con le barricate, con la partecipazione diretta, con le grandi esperienze di autogestione delle libere repubbliche di Venaus e della Maddalena, nei presidi resistenti e nella condivisione di pasti a due passi delle recinzioni dove l’esercito e la polizia difendono cantieri trasformati in fortini militarizzati.
All’arrivo a San Didero era stridente il contrasto tra i No Tav che in allegria invadevano il piazzale dove sorge il nuovo presidio, e i jersey di cemento e ferro, sovrastati da filo spinato a lamelle, dietro cui erano assiepate le truppe dello Stato. Le battiture alle recinzioni sono andate avanti per oltre un’ora.
Da un lato la violenza e il militarismo, dall’altro la forza e la pacata tranquillità di sa che fermare la devastazione, inceppare la logica dello sfruttamento e del dominio è possibile. Dipende da ciascuno di noi.
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tratto da Anarresinfo