La mappatura rivelata sul nemico (giocando con le parole: “m’appare” il nemico), atto propedeutico di intimidazione/comunicazione pubblica, finalizzato a indicare/suggerire un bersaglio, è un dispositivo antico, largamente sperimentato dagli apparati di potere nel secolo delle masse, affinato nell’attuale era della società artificiale. Si tratta di apparati di potere che afferiscono, è bene precisare, non solo ai regimi totalitari novecenteschi, ma che riguardano ora l’intero sistema globale, il mondo di valori generato dal fordismo e dal post-fordismo, le cosiddette democrazie occidentali mature. Le parole d’ordine, dalle marcate finalità identitarie, sono quelle di sempre: raffigurare il nemico oggettivo, autore di delitti possibili; costruire/denominare i margini, anche con il linguaggio, criminalizzando a prescindere categorie invise di persone; creare l’atmosfera mentale adatta allo stigma diffuso e condiviso, alla mobilitazione totale contro un “capro espiatorio”. Queste mappature fuoriescono così dai faldoni polverosi di polizia per farsi strumento di propaganda.
Il presente intervento prende spunto da un articolo occasionalmente letto sulle pagine milanesi del quotidiano di destra “Libero” (12 novembre 2024, p. 34 con richiamo in prima), a firma Massimo Sanvito, titolato: “Assalti alla polizia, Gaza e affari. I covi rossi che la sinistra tollera”. Nell’occhiello è riassunta l’intera summa delle fobie e delle fisime della destra post-missina: «Dal vecchio Leonka ai violenti del Cantiere e del T28, sono 11 le sigle antagoniste attenzionate. Serate, scontri di piazza ed eventi con ex brigatisti, tra incassi in nero e proseliti negli atenei». Già qui c’è materia per lo psicologo, dalla comica accusa di evasione fiscale alla recondita frustrazione per le proprie, scarse e improduttive, frequentazioni universitarie. Il tutto corredato da una “Mappa dei centri sociali abusivi”, davvero ben fatta e arricchita da un accurato indirizzario.
Il funzionamento del dispositivo di mappatura è semplice e intuitivo, a portata di energumeno. Io ti faccio nomi e cognomi, scrivo anche gli indirizzi di casa, poi, nel caso tu non capisca, faccio perfino un bel disegnino. Esplicito l’incoraggiamento a «recidere il filo rosso che unisce vecchi e giovani compagni». Ora, siccome nell’incipit dell’articolo si cita come fonte un dossier del ministero dell’interno ancora in bozza, è evidente che l’esortazione ad agire sia rivolta altrove. Siamo alla legittimazione mediatica del neofascismo post-missino, di lotta e di governo, siamo allo sdoganamento culturale del cameratismo combattente forgiatosi negli anni Settanta.
È una storia già vista questa, che olezza di fasci da lontano. Nel 1923 “Il Popolo d’Italia”, organo mussoliniano che portava orgogliosamente sotto la testata il nome del suo fondatore, come era prassi in questi casi, pubblicava (n. 37 del 13 febbraio), all’ultima pagina un breve trafiletto intitolato “Ferrovieri rossi esonerati”, datato: Roma 12 notte. Si trattava, in sostanza, di un’informazione puntuale e precisa, pervenuta direttamente dalla direzione generale delle Ferrovie, dove si era da poco insediato un Alto Commissario, preposto a svolgere una «energica epurazione del personale dipendente». Si annunciava così un’azione spietata contro «i più sfrenati estremisti, comunisti, massimalisti ed anarchici, responsabili dello stato in cui era stata ridotta la classe dei ferrovieri dalla mania scioperaiola dei dirigenti il Sindacato rosso». E si rendevano pericolosamente pubblici, senza remore, i nomi e cognomi dei primi 56 esonerati. Erano i destinatari di una vera e propria, inflessibile, vendetta politica. Dal primo dopoguerra fino alle leggi fascistissime, ivi compreso il delitto Matteotti, il percorso fu marcato dalla violenza squadrista collusa con lo Stato e con gli organi d’informazione. E le squadracce trovavano il loro programma di lavoro bell’e pronto, anticipato sulle pagine de “Il Popolo d’Italia”.
All’origine di tutto però c’è una classificazione soggettiva, pseudoscientifica, sommaria e arbitraria. Sommaria e arbitraria un po’ come lo sono tutte le classificazioni che vorrebbero incasellare in un unico contenitore umani differenti, accomunati unicamente dall’essere fatti oggetto – appunto “oggetto” – di superiori misure preventive, della visuale ossessiva, paranoica, che discende dall’idea del classificare le persone. Così alle riservatissime schedature poliziesche di ottocentesca memoria si affiancava, nel tempo, un utilizzo sempre più disinvolto e mirato della comunicazione mediatica. Il repertorio di queste classificazioni, lemmi che dalla koinè burocratica passavano rapidamente all’uso comune e al gergo politico, è ampio. Talvolta gli esiti sono stati proprio sorprendenti, come nel caso di “sovversivi” e soprattutto di “antifascisti”, etichette che i destinatari hanno fatto propri con orgoglio, ribaltandone i significati originari di stigma. Negli altri casi, come in quello citato, si rimane nel quadro gestionale, ordinario, di squadrismo mediatico finalizzato, di collaborazione fattiva, integrata e sinergica, tra quarto potere e organi di polizia.
Qualche anno fa, compulsando uno dei tanti rapporti riservati di polizia relativo ai movimenti extraparlamentari di sinistra degli anni Settanta, documenti per i quali avevo fatto una lunga trafila di autorizzazioni presso l’Archivio centrale dello stato e al Ministero dell’interno, ebbi, con mia grande sorpresa, la stupefacente sensazione del già letto. Davvero strano, perché io lo stavo consultando per la prima volta… Pensa e ripensa, scoprii l’arcano. In realtà quelle pagine erano state una velina per la stampa coeva e io, in sostanza, avevo fatto fatica per niente. Nelle fonti giornalistiche, già reperite, avevo già potuto leggere gran parte di quei contenuti.
È una storia declinata al presente quella che incombe sul nostro quotidiano, ispirata ai principi sinergici di controllo, comunicazione e consenso, connotata da connivenze e complicità tra i vari attori presenti sul proscenio, caratterizzata dall’utilizzo pragmatico di modalità squadristiche, se ritenute necessarie. Tradizionalmente si trattava di collaborazione diretta fra Stato amministrativo e mass media, più di recente fra mondo militare e hacker. Niente di nuovo sotto il sole, il rapporto fra comunicazione ed evoluzione del controllo sociale rimanda a una questione di lungo periodo.
Giorgio Sacchetti