Come per certo saprete se frequentate queste zone, i Crass erano un collettivo di punks inglesi attivi tra la fine degli anni settanta e il 1984. Anarchici e pacifisti, non hanno avuto vita facile; anzi sin dall’inizio hanno dovuto lottare con unghie denti chitarre e gola per non soccombere al silenzio. Ve la faccio breve. Il loro disco d’esordio venne pubblicato nell’ottobre del 1978 con tre minuti di silenzio al posto della prima canzone del lato a, “Asylum” (un’invettiva femminista contro l’oppressione religiosa) – i gestori dello stabilimento di stampaggio del vinile l’avevano ritenuta decisamente troppo irriverente e sconveniente e si erano rifiutati di metterlo in lavorazione. L’anno dopo fondarono un’etichetta discografica omonima – indipendente ed autogestita – e riuscirono a stampare l’album secondo il progetto originale, per ritrovarsi presto i funzionari di Scotland Yard in casa, allertati da una serie di denunce per blasfemia.
I poliziotti li avvisarono che così facendo sarebbero andati in cerca di rogne ma il gruppo non si fece intimidire e decise di andare avanti comunque: da lì in poi i dischi dei Crass furono sistematicamente oggetto di censura e boicottaggio, per non dire dell’accoglienza a base di sprangate ai concerti – stavano sul cazzo proprio a tutto l’arco costituzionale e pure agli estremisti, dal National Front a Class War ai Red Brigades. I negozi che esponevano i loro dischi in vetrina ricevevano le visite discrete della polizia: dapprima invitavano i gestori a toglierli dagli scaffali e a renderli al distributore, poi si passava a controlli pretestuosi, perquisizioni, minacce, denunce. Alcuni negozianti ribelli sono stati denunciati, processati e condannati per aver esposto in vetrina e venduto “materiale osceno” a minori.
Facendo due conti, i Crass vendettero diverse centinaia di migliaia di copie dei loro dischi ma inspiegabilmente non finirono mai in classifica. Al tempo della guerra delle Falklands stamparono all’estero dei dischi esplicitamente pacifisti e li importarono e diffusero clandestinamente in patria, attirando le attenzioni del governo Tory e del primo ministro Margaret Thatcher in persona – che osarono sbeffeggiare in diretta radiofonica alla BBC e misero in qualche seria difficoltà. Nel gennaio 1985 un giudice considerò i Crass “un’associazione che opera ai margini della legalità” e definì i loro dischi “grossolani e volgari, fatti per buona parte di spazzatura ingiuriosa”, nonché “roba che nessuno vorrebbe tenersi in casa”. In particolare, il loro terzo album “Penis envy” venne giudicato “contrario alla pubblica decenza” da quello stesso tribunale, condanna confermata in appello, e da allora diffuso in una confezione di plastica opaca sigillata – come le riviste porno. Meno male che erano inglesi: fosse successo qui da noi gli avrebbero cercato l’anima a forza di botte per poi farli scomparire dentro qualche pilone dell’autostrada.
A quarant’anni di distanza i Crass sono roba vecchia, sono pressoché scomparsi dai giri rendendosi inservibili per farne una festa di compleanno del punk e, infatti, sono rimasti tagliati fuori dal circo delle celebrazioni che si è dimostrato in grado di saper riciclare e rendere commestibile ed addirittura gustoso persino il letame – è bastato metterci sopra qualche zuccherino e qualche candelina a forma di bonus track.
Scritto da Penny Rimbaud che dei Crass è stato fra i fondatori e la testa pensante dietro i tamburi della batteria, “L’ultimo degli hippy” racconta la storia del movimento pacifista britannico dalle radici che affondano nella cultura beat dei tardi anni ‘50, passando attraverso la stagione hippy per giungere alla “punk explosion” londinese del 1977. A questa si intreccia la storia di Wally Hope, un anarco/mistico visionario la cui morte prematura, risultato della permanenza forzata in un ospedale psichiatrico e del trattamento sanitario obbligatorio cui venne sottoposto, diviene il simbolo della trasformazione della filosofia hippy del “pace e amore” nella rabbia grezza del punk.
Originariamente scritto nel 1982, questo testo era compreso nella raccolta “A series of shock slogans and mindless token tantrums” (“Una sfilza di slogan scioccanti e stupide filastrocche rabbiose”). In esso i Crass dipingevano un ritratto dell’ideologia punk piuttosto ricco e complesso, assai distante da quello offerto dai mass media del tempo secondo cui lo stereotipo punk era menefreghista, superficiale e violento. Il testo ebbe una diffusione assai scarsa nel nostro paese, forse qui si era in tutt’altre faccende affaccendati.
Occupato a dare testimonianza scritta delle proprie esperienze e vicissitudini (vedi la copiosa produzione a suo nome in questi ultimi vent’anni) nel 2008 Penny decise di separare il suo contributo scritto a “Shock slogans” dal resto, l’ha modificato ed ha aggiunto una prefazione; questa nuova versione è stata quindi pubblicata in Inghilterra e negli Stati Uniti come “The last of the hippies – an hysterical romance”. Ebbene sì, quella dell’ultimo degli hippy raccontata da Penny Rimbaud è davvero una storia d’amore esagerata: eccola finalmente tradotta in italiano e diffusa in collaborazione fra Candilita, Silentes, stella*nera ed altri piccoli editori indipendenti.
Marco Pandin
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