Chi negli ultimi venticinque anni si è trovato a occuparsi, a vario titolo, di immigrazione, non ha potuto fare a meno di trovarsi in moltissime occasioni davanti a situazioni drammatiche, spesso tragiche e – più di una volta – assolutamente grottesche.
D’altronde, tutto quanto il meccanismo della gestione dei flussi migratori, in Italia e in Europa, si fonda su normative e presupposti fuori da ogni logica oltre che da ogni senso di umanità. A dirla tutta, se chi concepisce e fa applicare le leggi non sa dove stia di casa l’umanità, basterebbe anche solo un briciolo di buon senso per migliorare regole tanto assurde quanto aberranti. Siamo però abbastanza consapevoli che dalle parti delle istituzioni, e di chi ci governa, il buon senso è davvero merce rara.
L’ultima storia di immigrazione, drammatica e kafkiana allo stesso tempo, ci porta dritti in Calabria ma inizia in Iran.
A seguito delle fortissime proteste della gioventù iraniana – e in particolare delle donne – che hanno infiammato il paese tra la fine del 2022 e il 2023, la risposta repressiva del regime di Teheran è stata durissima: migliaia di arresti, uccisioni, detenzioni arbitrarie, esecuzioni sommarie e condanne a morte.
Tra le migliaia di donne che sfidavano coraggiosamente le politiche oscurantiste e misogine della teocrazia iraniana c’era anche Maysoon Majidi, 28 anni, curda, regista e attrice molto impegnata nella difesa e nella promozione dei diritti umani, per la libertà e l’autodeterminazione delle donne. A un certo punto per Maysoon la vita in Iran era diventata impossibile e così, dopo essere stata licenziata dall’università in cui lavorava, decise di lasciare il paese. Una storia dannatamente simile a tantissime altre, che la porta – l’ultimo dell’anno del 2023 – a sbarcare sulla costa calabrese. L’idea è quella di chiedere protezione in virtù della sua condizione di perseguitata politica in patria, ma per lei la Repubblica italiana ha in serbo un trattamento ben diverso. Maysoon viene portata in carcere, a Castrovillari, dove vi rimane per sei mesi. L’accusa è quella di essere una scafista. Una persona, cioè, che opera attivamente per organizzare ed effettuare l’ingresso irregolare degli immigrati all’interno dei nostri confini. Ad accusarla sarebbero stati due compagni di traversata che, poco dopo, avrebbero ritrattato tutto spiegando all’avvocato di Maysoon di essere stati completamente fraintesi dalle autorità italiane che avevano raccolto le loro dichiarazioni, sostenendo che i loro verbali erano pieni di errori per colpa di una traduzione sbagliata.
Ora Maysoon Majidi si trova nel carcere di Reggio Calabria in cui è stata trasferita il 5 luglio. L’accusa con cui è detenuta è favoreggiamento dell’immigrazione irregolare ai sensi dell’art. 12 del Testo Unico sull’immigrazione. Un’accusa che sbarra la strada all’ottenimento della protezione umanitaria. Ma ci torneremo tra poco.
In una situazione analoga si trova un’altra donna iraniana, Marjan Jamali, giunta in Italia lo scorso anno a bordo di una barca a vela insieme a un centinaio di altre persone. Marjan era fuggita dall’Iran, insieme al figlio di sette anni, per scappare dalla repressione del governo e dalle botte del suo compagno. Anche per lei l’infamante accusa di essere una scafista, mossa da tre uomini – poi spariti – che erano sulla stessa imbarcazione e che, secondo quanto denunciato dalla stessa Marjan, avevano cercato di abusare di lei senza riuscirci. Inutile dire che non sono state prese in considerazione le testimonianze degli altri migranti che la scagionavano da ogni ruolo operativo nella traversata verso l’Italia. Se Marjan è ancora in attesa di processo ed è ospite, su disposizione del giudice, presso una struttura di accoglienza insieme al figlio, a Maysoon il tribunale di Crotone ha appena negato i domiciliari, in seconda udienza, dopo nove mesi di ingiusta carcerazione. Adesso pesa quaranta chili e le sue condizioni si fanno sempre più preoccupanti, anche sotto il profilo psicologico.
Le due storie, del tutto simili, sono accomunate da questa ipotesi di reato prevista dall’articolo 12 del Testo unico sull’immigrazione (ricordate la legge Turco-Napolitano del 1998?) nella quale viene punito chiunque «promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato».
La normativa italiana si discosta da quella internazionale su un elemento che, parlando di traffico di esseri umani, dovrebbe essere dirimente: il profitto.
Nel Protocollo delle Nazioni Unite adottato nel 2000 (e ratificato dall’Italia), il traffico di migranti viene definito all’articolo 3 come «il procurare – al fine di ricavare, direttamente o indirettamente, un vantaggio finanziario o materiale – l’ingresso irregolare di una persona in uno Stato di cui la persona non è cittadina o residente permanente». Questo concetto, del tutto lapalissiano, viene ribadito anche nell’articolo 6, e serve per l’appunto a tutelare non solo le vittime del traffico di esseri umani ma anche a distinguere chiaramente chi aiuta persone in difficoltà da chi, invece, organizza rotte e spostamenti ricavandone un profitto.
Di questa necessaria distinzione non c’è traccia nella legge italiana, ed ecco spiegata l’assurdità di queste come di molte altre storie.
L’accanimento repressivo che stanno subendo queste due donne iraniane è frutto non solo di una normativa profondamente ingiusta e sbagliata, ma anche del clima politico alimentato da questo governo impresentabile che all’indomani della strage di Cutro dichiarò guerra agli scafisti «lungo tutto il globo terracqueo». Questa promessa, carica di quella retorica macchiettistica della quale Giorgia Meloni è particolarmente capace, nascondeva la precisa volontà di scaricare sull’ultimo anello della catena tutte le responsabilità politiche che sono alla base dei drammi legati alle migrazioni, in Italia e non solo, e che vanno ricercate in ben altri contesti.
Come ribadito da anni e in tutte le salse dai movimenti antirazzisti “di tutto il globo terracqueo”, sono le frontiere e le leggi liberticide che ammazzano le persone non consentendogli di spostarsi liberamente attraverso canali sicuri e regolari, senza dover ricorrere a delinquenti, mafiosi, guardie di frontiera e scafisti.
Le leggi che vorrebbero “regolamentare” l’immigrazione sono volutamente assurde perché servono a creare “clandestini”, a costringerli a crepare nel tentativo di cambiare vita, a criminalizzarli in tutti i modi quando mettono piede qui.
La repressione dei migranti, che è un dato costitutivo delle politiche degli stati, ha un sapore ancora più odioso quando dà luogo a vicende incredibili come quelle che abbiamo raccontato. In un momento storico in cui, con enormi sacrifici, le questioni di genere cominciano a farsi largo in maniera sempre più efficace nel dibattito pubblico e politico internazionale, il trattamento che le autorità italiane stanno riservando alle iraniane Maysoon Majidi e Marjan Jalali è davvero indifendibile e svela, ancora una volta, la natura violenta e reazionaria di questo governo.
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