Nelle ultime due settimane sono occorsi, in Medioriente, almeno tre eventi di grande importanza che sono stati quasi completamente ignorati dai mezzi di informazione mainstream.
Innanzi tutto in Arabia Saudita vi è stato quello che possiamo definire tranquillamente come un colpo di stato. Il principe reggente Mohammed bin Salman, figlio del re Salman, ha imbastito un’operazione che, in nome della lotta alla corruzione, ha portato all’arresto di undici dirigenti d’alto livello di imprese, ministri e principi. Inoltre sono stati dimissionati il Miteb bin Abdullah, capo della Guardia Nazionale, la struttura militare parallela all’esercito di cui è dotato il Regno, e figlio del precedente Re – quindi cugino di Mohammed dato che l’Arabia Saudita ha avuto fino ad ora un peculiare sistema di successione su linea fraterna e non filiale – e possibile contendente al trono, e del capo della Marina Militare, Abdullah bin Sultan. In questo modo Mohammed bin Salman ha concentrato su di sé tutto il potere militare: è già ministro della difesa, ora ha avocato anche il comando della Guardia Nazionale ed ha estromesso del tutto la famiglia del vecchio re. Tra gli altri arrestati si annoverano anche Alwaleed bin Talal, finanziere che ha partecipazioni anche in grosse imprese occidentali, sopratutto nel campo dei media (News Corporation e Twitter) e della tecnologia (Apple).
Il regno saudita ha una struttura di potere caratterizzata da una famiglia reale di dimensioni esorbitanti – oltre cinquemila membri – che ricalca la struttura tribale esistente prima della nascita dello stato moderno e questa peculiarità ha portato alla creazione di un complesso sistema di bilanciamento tra poteri e camere di compensazione che garantissero una rappresentanza a tutti i membri del’élite al potere con il re nel ruolo di primus inter pari. Il regno, che possiamo definire tranquillamente come una delle strutture statali più autoritarie al mondo, è guidato quindi non tanto in modo autocratico da un singolo ma da una formula di concertazione tra le diverse componenti della classe dominante. In un articolo apparso su formiche.net ed in un altro pezzo apparso online su l’Internazionale si ipotizza che la mossa di Mohammed bin Salman sia legata sopratutto a uno scontro interno alla classe dirigente saudita tra chi, gli arrestati e i loro clientes, sono legati al vecchio modello ed il Principe e la sua cordata che invece vogliono rilanciare in senso dinamico l’economia Saudita con anche aperture in senso riformista che aiutino anche l’immagine del paese. Come si faceva notare nell’articolo apparso su formiche.net in questo periodo l’Arabia Saudita ha deciso di vendere sul mercato azionario delle quote di Saudi Aramco, l’azienda petrolifera di stato, per liberalizzare l’economia ed incamerare dei fondi per lanciare i propri progetti mastodontici, che prevedono la creazione di gigantesche smart city da costruire ex novo. Proprio in questi giorni, per altro, sono in corso le trattative per scegliere la piazza finanziaria su cui condurre un’operazione da centinaia di miliardi di USD. Se venisse scelta Wall Street questo potrebbe significare un rilancio della partenership tra USA e Arabia Saudita: non più basata sull’acquisto da parte statunitense del greggio saudita ma su robuste transazioni finanziarie.
La mossa del principe reggente, tesa a concentrare in modo rapido il potere nelle proprie mani, è un fatto pregno di conseguenze a livello internazionale. Il principe che viene definito dai media occidentali come “progressista” – forse avendo in mente il “medioprogressismo” di un noto Megadirettore – sta spingendo per un’accelerazione del processo di disgregazione dell’ordine mediorientale per affermare l’egemonia saudita sull’intera regione e non solo sul Golfo.
Negli ultimi dieci anni l’Arabia Saudita è stata assorbita nel tentativo di contenere l’espansione della sfera egemonica iraniana, ma fino ad ora non le è andata troppo bene. In Iraq l’influenza di Tehran è più forte che mai, con l’assenso statunitense. Gli USA, storici alleati della dinastia dei Saud, hanno firmato l’accordo sul nucleare con Tehran e i sauditi, insieme agli israeliani, han fatto di tutto per farlo saltare.
Durante le elezioni presidenziali americane hanno puntato su Hillary Clinton, veementemente antirussa, artefice dell’interventismo in Siraq e finanziata dai petroldollari del Golfo, ma questa non avrebbe potuto sconfessare apertamente quello che viene presentato come il capolavoro diplomatico dell’amministrazione Obama, amministrazione della quale ha fatto parte come Segretario di Stato.
Hanno poi sperato in Trump, che l’accordo con gli Ayatollah ha sempre contrastato, ma questi in un anno non è andato oltre alle roboanti dichiarazioni. Per di più ha un ambiguo rapporto con la Russia: se l’accordo USA-Russia è strategicamente impossibile sul lungo termine – troppi i contrasti a livello globale – l’amministrazione Trump sembra più che volenterosa di volere proseguire con gli accordi sulla Siria fatti fino a ora con Mosca, accordi che accettano di fatto il ruolo di Hezbollah e dei clientes iraniani in tutto il Siraq e che passano anche dall’accordo sul nucleare iraniano.
Il tentativo saudita di riportare alla subordinazione il Qatar, petromonarchia del Golfo sì, ma con una forte politica autonomista che sigla accordi bilaterali con gli Iraniani e gioca una politica tutta sua tramite la Fratellanza Musulmana, non ha sortito risultati.
L’intervento in Yemen, il vicino meridionale e negletto dei Saud, si è impantanato nonostante gli sforzi militari in una guerriglia lungo i confini del Regno e una crisi umanitaria catastrofica.
Nemmeno il tentativo di guerra economica alla Russia mediante l’artificioso ribasso del prezzo del greggio è andato a buon fine, l’economia russa è riuscita a contenerlo pur con qualche dissesto, dimostrando una resilienza che molti osservatori non si aspettavano. Nel mentre la cosa ha causato non pochi malumori anche negli altri paesi produttori di greggio, sopratutto negli USA che dell’autonomia nella produzione energetica hanno fatto uno scopo strategico e che da un troppo basso prezzo del petrolio sono colpiti.
In Siria Assad è riuscito, con le risorse proprie e il fondamentale appoggio iraniano e russo, a rimanere al potere nonostante cinque lunghi anni di guerra civile.
I due fronti in cui i Saud possono vantare una significativa vittoria sono quello in Egitto e quello in Bahrain: l’esercito egiziano è riuscito a riprendere in toto il controllo del paese dopo avere estromesso Morsi. Le spese del tutto l’han fatta, ovviamente, i proletari egiziani, forza trainante della rivoluzione che depose Mubarak ma subito repressi sia dalla Fratellanza Musulmana di Morsi che dal ritorno dell’esercito al potere.
Ma non ci si può certo illudere che l’Egitto, potenza regionale pari all’Arabia Saudita e paese pienamente inserito nella struttura di potere globale, sia un burattino nelle mani di Riad. Il regime egiziano si considera, ed è, un alleato alla pari e la cricca dei generali che governa il paese pur ringraziando i Saud per averli aiutati nel momento del bisogno ha la sua piena autonomia e le proprie prospettive strategiche peculiari.
In Bahrain la rivolta della popolazione sciita, subordinata a una dinastia sunnita ed esclusa dall’accesso a livelli reddituali decenti è stata schiacciata con violenza anche con il diretto intervento di Riad. La partita vera per il governo saudita si gioca nel ripristinare il pieno controllo sullo Yemen e ricondurre a una posizione subordinata il Qatar. Per fare questo però è necessario attaccare di petto Tehran – e il modo che pare essere stato trovato dal principe reggente è quello di aprire una crisi in Libano.
Il secondo fatto, di portata enorme, di cui si è taciuto sulla stampa in questi giorni è infatti che il primo ministro libanese, Hariri, sunnita ma a capo di un governo di unità nazionale che include anche Hezoballah, si è recato in Arabia Saudita per annunciare con un comunicato le proprie dimissioni dal ruolo di primo ministro e poi scomparire. Al momento in cui scrivo solo dopo una settimana l’ex primo ministro libanese ha fatto una dichiarazione pubblica in cui ha affermato che gode di “completa libertà in Arabia Saudita”, che le dimissioni sono giustificate dagli sviluppi della situazione regionale e che tornerà in Libano quanto prima per presentare le dimissioni “seguendo il percorso costituzionale” (lancio ANSA delle 22.20 del 1/11/017).
Anche chi si fa grasse risate davanti al concetto di “diritto internazionale” rimane piuttosto basito da un evento di tale portata: il primo ministro di uno stato sovrano si dimette – obtorto collo? – mentre si trova in visita in un paese estero dalle mire egemoniche e poi scompare. In tutto questo non si genera nessuno scandalo internazionale, l’ONU tace e tutti fanno pubblicamente finta di nulla di fronte all’elefante nella stanza. Penso che una migliore dimostrazione di quanto il concetto di “sovranità nazionale” altro non sia che un fantasma mentale davanti alla materialità dei rapporti di forza e della ferrea logica della politica di potenza non si possa trovare.
Mentre accadeva tutto questo Riad non ha trovato di meglio, e siamo al terzo evento grandemente taciuto, che tentare pubblicamente di creare una coalizione contro Hezbollah. Tentativo che si è scontrato con diversi ostacoli che paiono insormontabili: intanto Israele al momento non sembra interessato a intervenire in modo pesante in Libano ed è ben contento che le truppe di Hezbollah se ne stiano ben impegnate a supportare Assad lontano dai propri confini. Certo, ogni tanto bombarda qualche convoglio del movimento sciita o ne ammazza un qualche dirigente, per altro con il placet russo, quando questi paiono trasportare armamenti pesanti verso i confini israeliani. Inoltre qualsiasi tentativo di intervenire sul campo nel Libano meridionale porterebbe a uno scontro diplomatico con mezzo mondo: la missione delle Nazioni Unite UNFIL, che vede per altro la presenza di un contingente di un migliaio di truppe italiane – e di quasi milletrecento truppe indonesiane, ovvero di uno dei paesi musulmani sunniti più grandi al mondo – si ritroverebbe tra l’incudine e il martello e vi sarebbero immediate pressioni da parte di tutti i partecipanti alla missione ONU per porre fine al conflitto.
Per altro in questo periodo non è che l’Arabia Saudita goda di altissimo credito presso le cancellerie europee, considerando che i vari attentatori che hanno agito sul suolo europeo negli ultimi anni si erano per lo più radicalizzati in moschee e ambienti religiosi direttamente legate a Riad. Per non parlare, poi, degli irrisolti nodi nei Balcani che vedono un sempre maggiore interventismo sia saudita sia turco nel finanziare centri religiosi per espandere la propria influenza in una regione in cui altri stati europei hanno da sempre interessi strategici, Germania in primis.
Gli stati europei non avrebbero niente da guadagnare da un’aumentata tensione con l’Iran, anzi, ne avrebbero solo da perdere considerando che il ritiro delle sanzioni internazionali contro Tehran ha significato la riapertura di un mercato estremamente remunerativo per l’industria e per la finanza europea. I cinesi certamente si opporrebbero e la stessa cosa farebbero i russi.
Gli Stati Uniti potrebbero appoggiare un intervento contro Hezobollah ma non è detto che siano desiderosi di aprire l’ennesimo fronte in medioriente, sopratutto considerando che la prospettiva strategica americana degli ultimi anni è stata quella del disimpegno dal Medioriente per concentrarsi sul teatro del Pacifico. Molto probabilmente l’impegno statunitense si ridurrebbe al fornire intelligence e supporto diplomatico. Il placet israeliano a un’operazione simile è neLorconcessario ma al momento non è affatto scontato. Idem per quanto riguarda la Giordania.
Proviamo a tirare le somme della questione: appare evidente come il ruolo dell’ISIS in questi anni è stato quello di stato – in fieri ma pur sempre stato – cuscinetto tra le frizioni interimperialistiche. Ha attirato per tre anni su di se le attenzioni e gli sforzi bellici di diversi attori, normalmente in contrasto tra di loro, ma le sconfitte militari su più fronti hanno lo hanno usurato. Così come un cuscinetto a sfera usurato perde la capacità di svolgere le proprie funzioni, l’ISIS con i territori ridotti e la rete di accordi tribali in Siraq destrutturata non riesce a svolgere più il proprio ruolo. La Turchia di Erdogan si è trovata bloccata nel suo tentativo di proiezione a Sud a causa della sconfitta sul campo da parte della Confederazione a guida PYD in Rojava del proprio proxy – l’ISIS stessa – e ha dovuto rinunciare anche a defenestrate Assad. Se la classe dirigente dell’AKP ha imparato la lezione proverà a giocare non più la carta di un aggressivo disegno neo ottomano ma quella del divenire punto di equilibrio tra l’Arabia Saudita e l’Iran.
L’Arabia Saudita è riuscita a contenere il tentativo qatarinoLorcon di assumere la guida del sunnismo politico mediante la Fratellanza Musulmana – tentativo agito, per altro, in concerto con la Turchia anche mediante l’ISIS stessa e tramite la propria rete jihadista – ma non è riuscita certamente a piegare il Qatar come avrebbe voluto, anzi, si è ridicolizzata nel provarci palesemente e nel fallirci altrettanto palesemente. Il confine meridionale dell’Arabia Saudita è un fronte di guerra e le milizie sciite yemenite sono riuscite a lanciare un missile, molto probabilmente gentilmente fornito dall’Iran, che ha colpito i dintorni di Riad stessa.
La mossa del principe reggente tesa ad accentrare su di sé il controllo del regno è probabilmente figlia della biforcazione sistemica che si profila nel sempre più vicino orizzonte: accettare una qualche forma di accordo con il rivale persiano e rideterminare l’assetto egemonico della regione in modo pacifico o andare allo scontro frontale e alla guerra sul campo. La classe dirigente saudita è in lotta al suo interno e bisogna vedere se il tentativo del principe riuscirà ad andare fino a fondo o se verrà rintuzzato nel prossimo periodo e che significato avrà questo a livello internazionale.
Questo articolo è stato scritto domenica 12 novembre e data l’accelerazione degli eventi non mi stupirei che quando esso giungerà a distributori e abbonati possa essere stato superato da nuovi fatti.
Lorcon