L’università italiana si regge sul lavoro volontario dei ricercatori a tempo indeterminato ma il governo li considera categoria “in estinzione” e, sbandierando “2,500 miliardi per la ricerca”, non stanzia una lira per immettere nel ruolo docente migliaia di abilitati vincitori dei concorsi 2012 e 2013.
Se il pubblico impiego, i cui scatti stipendiali sono bloccati dal 2010, e la pubblica istruzione, il cui fondo ordinario è stato letteralmente falciato e rapinato da Tremonti in poi, sono tra i settori più vessati dai governi degli ultimi decenni, il comparto universitario è l’unico a non aver ottenuto dall’attuale governo neanche quelle briciole di ‘risarcimento’ che tutti gli altri settori del pubblico impiego, con un minimo di agitazione, hanno rimediato. Effetto quest’ultimo che va imputato, meglio chiarirlo subito, non meno che alle politiche del governo, alle complicità del ceto docente e dirigente delle Università, e alla quasi totale apatia, inerzia, incapacità di autotutela sindacale anche minima dei ricercatori a tempo indeterminato, che pure stanno subendo dalle politiche governative in corso lo schiaffo più duro e inaccettabile.
Dopo essersi sobbarcati, per decenni, a titolo volontario, un carico didattico che non rientrava tra le loro mansioni, incentivato economicamente solo quando supera un certo monte ore, compiendo uno sforzo collettivo senza il quale l’università italiana sarebbe letteralmente crollata, nel senso che nessun ateneo avrebbe potuto garantire il regolare svolgimento dei corsi, oggi, non diversamente dai pensionati lasciati nel limbo dalla legge Fornero, circa 17.000 ricercatori a tempo indeterminato si vedono, infatti, negata, attraverso la mancata copertura economica, ogni possibile progressione di carriera, persino nelle migliaia di casi in cui l’hanno già legalmente ottenuta, tramite i concorsi del 2012 e del 2013, e aspettano solo i finanziamenti che consentano la loro effettiva immissione nel ruolo docente. A questo danno, si aggiunge la beffa che tali abilitazioni hanno una scadenza e, dunque, se non immessi in ruolo entro le date previste da quest’ultima, coloro che le hanno ottenute si troveranno nuovamente al punto zero, con un pugno di mosche in mano.
Le politiche governative annunciate in materia in questi giorni appaiono orientate, come da manuale, al “Divide et impera”, ovvero, ad alimentare contrapposizioni tra i ricercatori a “tempo indeterminato” (RTI), e quelli a “tempo determinato” (RTD), nuove figure professionali introdotte dall’articolo 24 della legge n. 240/10 del 30 dicembre 2010, che a differenza dei primi hanno anche obblighi didattici. Le università, secondo la legge Gelmini che li introdusse, possono assumere tali tipi di ricercatori per un triennio (RDT di tipo A), rinnovabile una volta sola (RDT di tipo B), con l’obbligo, però, dopo tale periodo, di immetterli, se valutati positivamente dai preposti organi di ateneo e in possesso di abilitazione scientifica nazionale, direttamente, nel ruolo docente con la qualifica di professori associati, ‘scavalcando’ le diverse migliaia di ricercatori a tempo indeterminato già in possesso di tale abilitazione, che da anni attendono l’effettiva immissione nel ruolo docente (con relativo aumento di stipendio). Non a caso, mentre per questi ultimi non è stato esplicitamente annunciato alcun finanziamento, per l’assunzione degli RDT è stata invece garantita e sbandierata un’ampia quota nel pacchetto di 2 miliardi e mezzo di euro stanziato dal governo “per la ricerca”.
A fronte di questa situazione, dopo decenni di calma piatta, brevemente interrotti all’epoca della Gelmini da una contestazione che infine non resse alle pressioni dei quadri dirigenti, ostili al blocco delle lezioni (unico vero strumento di lotta che i ricercatori a tempo indeterminato avevano e, ancora per non molto tempo avranno in pugno), e rientrò senza aver nulla o quasi ottenuto, negli ultimi mesi, ricercatori e docenti di un centinaio, circa, di sedi universitarie hanno avviato iniziative di protesta e avanzato rivendicazioni di carattere salariale e professionale che tentano di rispondere, in maniera non divisiva, all’attacco in corso.
Una parte di queste agitazioni ha trovato convergenza nella piattaforma proposta dal “Movimento per la Dignità della Docenza Universitaria,” i cui documenti, reperibili in rete, segnalavano a fine aprile 23.500 aderenti afferenti ad 82 diverse sedi universitarie. Essa prevede, in termini di vertenze a breve termine, i seguenti punti:
“1) subito per la Docenza il riconoscimento pieno del periodo 2011-2015, che la riallinei a tutto il pubblico impiego dal 1° gennaio 2015, ripristinando la dignità offesa;
2) subito la riapertura della contrattazione per il personale tecnico, amministrativo e bibliotecario;
3) nella prossima legge di stabilità di fine 2016 il finanziamento di:
a. 6.000 posti da Professore Associato; infatti, non è logico mantenere nel limbo di un ruolo ad esaurimento 17000 Ricercatori a tempo indeterminato […] ma occorre dare a chi è nel vecchio ruolo la possibilità di assumere le funzioni dei nuovi ruoli previsti;
b. 3.000 posti da Professore Ordinario (abbiamo 20.000 Professori Associati a cui occorre dare le
possibilità di progredire);
c. 3.000 nuovi posti da Ricercatore di tipo B (l’Università ha bisogno di nuove leve aggiuntive).
4) nella legge di stabilità del 2017 un piano di assunzioni identico a quello del 2016 (quindi ulteriori 6.000 + 3.000 + 3.000 nuovi posti)
5) sempre nella legge di stabilità del 2017 uno stanziamento di 400 milioni di euro da destinare
prevalentemente alla ricerca di base.”
Se stavolta la protesta dei ricercatori universitari, al momento ancora troppo timida e circoscritta, dovesse trovare reale sviluppo e convergenza in una piattaforma, pur minimale, come quella sopra riportata, affiancata da una ferma decisione ad usare fino in fondo, e senza cedere ai ricatti degli organi direttivi ed economici, lo strumento del rifiuto degli incarichi didattici, se tale protesta (punto non meno importante) riuscisse a saldarsi, sia con le esigenze di tutti gli altri lavoratori del comparto universitario, sia con quelle degli studenti, stimolandone una consapevole e autonoma mobilitazione, si potrebbe, probabilmente, ottenere risultati, di carattere non solo settoriale, briciole di risveglio sociale e culturale, sanbe forme di conflitto che, nell’università italiana, da decenni in perenne riforma e inarrestato decadimento, non si registrano da tempo. Chi scrive, tuttavia, pur disposto come in passato a dare il suo contributo e provarci fino in fondo, ma ben memore del “fuggi fuggi” quasi generale che l’adesione del corpo docente e dei ricercatori al movimento universitario contro la riforma Gelmini subì, non appena la CRUI (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), i presidi di Facoltà (figura ora fortunatamente estinta), i direttori di Dipartimento, dopo qualche mese di adesione formale, dettero, a stragrande maggioranza, l’alt alle agitazioni, non ci crederà finché non lo vedrà.
Marco Celentano