Ogni anno l’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche) edita un rapporto relativo alla partecipazione maschile e femminile al mercato del lavoro. Smaltita la sbornia istituzionale, prodotta dalla narrazione mainstream che l’otto marzo decide di ricordarsi dello squilibrio di potere tra maschi e femmine sul terreno salariale (pudicamente ribattezzato gender wage gap), è utile provare a far parlare i dati nudi e crudi allo scopo di scoprire una realtà in cui le disuguaglianze di genere, non solo non si stanno riducendo, ma anzi si radicalizzano.
Per svolgere un’analisi degna di questo nome, bisogna intanto controllare quale sia il metodo con il quale conteggiamo la profondità e la radicalità di questo gap. L’indicatore gender wage gap a prima vista non appare molto alto in Italia; questo dipende non dal fatto che i salari femminili siano adeguati nel nostro paese, ma dal fatto che i salari in generale siano molto bassi, per cui in Italia non abbiamo buoni stipendi femminili ma pessimi stipendi anche maschili. E nella miseria le disuguaglianze non si colgono subito, anche se ci sono e sono radicali.
In Italia, infatti, il 32% delle e dei lavoratori e lavoratrici versa in condizione di povertà.
Se andiamo però ad analizzare meglio questo dato, scopriamo che le lavoratrici povere sono il 41,4% del totale delle donne occupate, mentre i lavoratori poveri sono il 24,9% degli uomini occupati. Questo dato può essere immediatamente compreso se teniamo conto che le donne sono maggiormente sottoccupate degli uomini: anche in settori dove il part time involontario è particolarmente diffuso, a farne le spese sono soprattutto le donne che lavorano meno di quanto vorrebbero fare; in secondo luogo le donne sono maggiormente occupate in settori caratterizzati da bassi salari. Per fare un esempio ci sono significativamente più donne che uomini contrattualizzate con il CCNL Multiservizi, ma ci sono più uomini che donne con lo stesso contratto che lavorano a tempo pieno.
In secondo luogo il dato forse più interessante è quello che riguarda il tasso di attività femminile in Italia. Questo supera di poco il 50% delle donne in età lavorativa. Questo tasso non è da confondere con quello di occupazione di una certa popolazione; si tratta infatti di calcolare quante siano le donne che lavorano o cercano un’occupazione in riferimento al numero di donne tra i 15 ed i 64 anni presenti in un determinato paese in un anno preciso. Quindi questo dato ci dice che una donna su 2 in Italia non partecipa in alcun modo al mercato del lavoro ed è quindi dipendente da un’altra persona (tipicamente un uomo) per il proprio mantenimento.
Tutte e tutti sappiamo che questa è esattamente la condizione che permette il riprodursi di relazioni di genere improntate all’assoggettamento e alla violenza
In terzo luogo il rapporto ci permette di analizzare l’elefante nella stanza. Il lavoro di cura, non riconosciuto né retribuito, è tuttora un lavoro fondamentalmente femminile. Il rapporto INAPP ci conferma che nel 2022 il 20% delle donne è uscito dal mercato del lavoro dopo la nascita di una figlia o figlio. Non si tratta, come è evidente, di una libera scelta di privilegiare la maternità rispetto alla “carriera”, così come vorrebbe una narrazione sempre più diffusa da chi vorrebbe relegare le donne in casa, ma l’impossibilità di bilanciare i due lavori, quello di cura e quello “ufficiale”. Un’impossibilità che deriva dalle condizioni esterne in cui le donne lavoratrici sono immerse e sono non a caso simboleggiate dalla condizione dei congedi parentali. Il congedo di maternità obbligatorio è stabile a 5 mesi, quello di paternità arriva ad appena 10 giorni; a questo aggiungiamo che, per quanto riguarda i congedi parentali per bambine e bambini sotto i 3 anni, la madre è l’unico genitore a prenderli nell’87% dei casi.
L’ultimo dato analizzato ci porta all’aspetto centrale relativo alla disuguaglianza di genere nel paese e nell’occidente capitalistico in generale. A partire dal XVI secolo si è prodotta una rottura nelle relazioni di genere in Europa (e in quelle parti del mondo progressivamente occupate dagli europei); una rottura finalizzata a distruggere un modello di lavoro fondamentalmente domestico, dove il lavoro di riproduzione non era così radicalmente destinato a infliggersi sulle spalle delle donne. Attività come preparare i pasti, garantire la cura delle figlie e dei figli, nonché delle anziane e degli anziani di casa, organizzare gli spostamenti e gli impegni familiari, sono completamente gravanti ancora oggi sulla parte femminile della società. In Italia in particolare si continua a fare affidamento sul lavoro gratuito femminile per impedire la disgregazione della società e assicurare la cura necessaria alla riproduzione sociale. Nel 2018 venne calcolato il numero medio di ore al giorno che le donne e gli uomini dedicavano alle attività di cura non pagate. Il risultato è impressionante: le donne dedicano 5 ore al giorno a queste attività non retribuite, gli uomini 1,8. Si tratta di una differenza di 3,2 ore di lavoro giornaliero in più svolto dalle donne rispetto agli uomini nel campo del lavoro domestico.
Quest’ultimo dato ci dice due verità importanti e fondanti della condizione di genere in Italia: in primis il lavoro di cura nel paese grava sostanzialmente sulle spalle delle donne e gli uomini vi partecipano solo in modo residuale; in secundis il lavoro di riproduzione è maledettamente alto nel paese. La distruzione progressiva di un welfare state già scarsamente sviluppato nel paese ha prodotto un transito di queste attività nel campo del mercato, laddove le persone che non sono in grado di acquistare determinate prestazioni di cura, sono costrette a svolgerle in proprio. E le persone destinate a svolgerle non sono gli uomini ma le donne.
A partire dagli anni Novanta abbiamo visto un aumento significativo della partecipazione femminile al mercato del lavoro, ma questo è avvenuto non riducendo minimamente la quantità di lavoro di cura che le donne sono costrette a compiere; con lo sgretolamento di uno stato sociale, già lontanissimo dal rappresentare un sostegno allo sviluppo delle persone anche al suo culmine, la quantità di lavoro è ulteriormente aumentata fino a produrre un fenomeno di espulsione massiccio della presenza femminile nel mercato dell’occupazione.
La società affluente e liberale dell’Occidente del XXI secolo si svela sempre di più come il luogo principale di riproduzione delle istituzioni patriarcali. Istituzioni finalizzate a produrre lo sfruttamento delle donne a più livelli: la famiglia costruita sulla base del lavoro gratuito femminile, lo stato che può permettersi di applicare misure sempre più radicali di austerità scaricando sulle donne il peso di sostituire un sistema di welfare ormai completamente devastato, le imprese che possono contare sul lavoro delle donne per garantire la buona salute e il rinnovamento della forza lavoro.
La questione di genere all’interno del mercato del lavoro deve essere considerata come uno dei motori principali della riproduzione delle disuguaglianze tra gli esseri umani, certamente non secondaria rispetto alla questione di classe e a quella etnica e anzi, forse capace di riassumerle tutte. La lotta contro le discriminazioni di genere è immediatamente lotta contro lo sfruttamento ed in questo quadro lo sciopero transfemminista dell’8 marzo non è una celebrazione secondaria ma un momento effettivo di lotta contro le nocività sociali ed economiche che impediscono che la vita di tutte e tutti sia davvero degna di essere vissuta.
Stefano Capello