L’albero va tagliato alla radice

Lo scorso 24 maggio a Livorno un carabiniere ha tirato un calcio in faccia a un giovane di 28 anni che si trovava già a terra e aveva le mani bloccate da un altro carabiniere che lo stava immobilizzando. Una violenza razzista, dal momento che il giovane colpito dal calcio è di nazionalità tunisina.

Gli organi di informazione comunicano che il militare sarebbe stato trasferito immediatamente ad un reparto non operativo.

È una violenza strutturale. Basti pensare solo a Livorno a Maurizio Tortorici, a Marcello Lonzi, a Fares Sghater che hanno perso la vita. Ma anche alla violenza repressiva che colpisce chi protesta e le lotte sociali, come nel caso delle cariche alla Stazione Marittima il 30 novembre e in Piazza Cavour il 1° dicembre 2012, o delle cariche sugli Scali del Refugio il 1 agosto 2018.

Quello stesso giorno a Milano quattro agenti della polizia locale hanno colpito violentemente alla testa con il manganello Bruna, 41 anni, di origini brasiliane. Dopo averla fatta cadere a terra lungo un’aiuola hanno continuato a colpirla selvaggiamente alla testa e sul corpo. Scene di violenza transfobica, sierofobica, sessista e razzista che anche in questo caso sono state documentate da un video, suscitando la rabbia che ha portato a manifestazioni a Milano e in altre città.

Negli stessi giorni in un programma radiofonico si affermava che i vertici della polizia e delle forze armate avevano stipulato un accordo con l’associazione degli psicologi, per sostenere il personale in difficoltà.

La risposta di militari e poliziotti era tiepida, convinti che un eventuale riconoscimento di disagio psicologico li avrebbe esclusi da incarichi operativi e da missioni all’estero, ben remunerati. D’altra parte, concludeva lo psicologo, le esplosioni di violenza erano connaturate al tipo di lavoro. Non tanto per lo stress, per il rischio, quanto per l’organizzazione gerarchica in cui la violenza è connaturata.

L’albero marcio continua a produrre mele marce.

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