In queste settimane l’opinione pubblica italiana ha avuto la “sorpresa” di scoprire il “putiniano” Matteo Salvini in versione ultra-amerikana, in una polemica con i 5 Stelle a causa dell’adesione al memorandum per la nuova Via della Seta, una rete di infrastrutture che dovrebbe attraversare tutta la massa continentale eurasiatica e africana. Molti commentatori in vena di ridicolo si sono scatenati nel rinfacciare al Presidente del Consiglio Conte il presunto “sgarbo” fatto agli USA per non averne preliminarmente chiesto l’assenso prima di aderire al memorandum. In realtà gli USA sono al corrente da anni, come tutti, del progetto di una nuova Via della Seta, perciò se avessero visto un pericolo effettivo per una firma italiana al memorandum si sarebbero premurati di farcelo sapere per tempo.
Nonostante ciò, la piaggeria di politici e commentatori nei confronti degli USA è arrivata al punto da paventare un’insidia alla “collocazione europea e atlantica” dell’Italia a causa della firma del memorandum che comporterebbe (senti, senti) persino rischi di colonizzazione cinese e di appropriazione dei nostri know how. Si tratta chiaramente di forzature, esagerazioni o palesi sciocchezze.
L’Europa è stata inserita dai Cinesi come possibile partner del progetto infrastrutturale in parte per ovvi motivi di bon ton internazionale, in parte perché fosse meno evidente e plateale il vero obbiettivo dell’iniziativa, che non è la penetrazione in Europa bensì in Asia ed in Africa. La Cina ha infatti la possibilità di integrare al suo sistema economico una serie di Paesi ricchi in materie prime ma poverissimi in infrastrutture. Il buco nero della deflazione europea tiene schiacciate verso il basso tutte le potenzialità di sviluppo dei Paesi dell’Asia occidentale, del Pacifico, oltre che dell’Africa.[1]
Se il progetto è così malvisto dalle élite mondialiste non è perché la nuova Via della Seta comporti una sfida diretta al dominio americano, dato che la Cina non possiede né la potenza militare, né la potenza marittima per insidiare a breve-medio termine lo statu quo internazionale. Che i Cinesi sperino di diventare nelle prossime generazioni la potenza egemone al livello globale non solo è possibile ma addirittura probabile. La concezione asiatica del rapporto col tempo è notoriamente diversa da quella occidentale, perciò progettare a cinquanta o cento anni può rientrare nella visione di un capo di governo: non a caso una delle prelibatezze della gastronomia cinese consiste nel gustare uova invecchiate di cento anni. L’importanza di queste differenze culturali non va però neppure esagerata al punto da supporre che i dirigenti cinesi siano talmente “cinesi” da trattare i rapporti internazionali in base alla stessa relazione col tempo che hanno con un uovo o con un bonsai.
La stessa idea circa la Cina come superpotenza emergente, in grado di soppiantare in prospettiva pluridecennale gli USA, va ridimensionata di parecchio. Per molti secoli la Cina è stata la massima potenza economica, militare e tecnologica, mentre la Russia non esisteva ancora, eppure le grandi steppe dell’Asia non sono mai state annesse al Celeste Impero, che, semmai, ha pensato a difendersi dalle invasioni dei popoli nomadi. Oltre certi limiti, la demografia non è più una spinta ma un freno.
L’equivoco sta nel considerare l’imperialismo come il naturale sbocco della potenza (Massimo Cacciari direbbe del “kratos”) di una nazione. L’imperialismo consiste soprattutto nel rapporto, nella complicità, tra le oligarchie della nazione dominante e quelle delle nazioni vassalle. Come già fu per l’imperialismo britannico, l’imperialismo americano non è un mero effetto della potenza americana, bensì una costruzione relazionale nella quale gli USA costituiscono il referente ed il protettore delle élite affaristiche e reazionarie del pianeta. Nell’imperialismo americano, i filoamericani risultano più decisivi degli stessi Americani. Non si tratta tanto di “soft power”, quanto di “business power”. Non è affatto detto allora che gli affari proposti oggi dall’oligarchia cinese siano davvero i più interessanti per le oligarchie occidentali, che sono legate al business della finanziarizzazione.
La vera insidia della nuova Via della Seta è infatti per la lobby mondiale della deflazione, cioè il dominio finanziario sull’economia, in quanto a molti Paesi mantenuti a forza nel sottosviluppo tramite il dominio del debito, oggi la Cina offre una prospettiva concreta di sviluppo commerciale e industriale. La lobby della deflazione non può permettersi un’energica ripresa dei tassi di sviluppo a livello mondiale poiché ciò comporterebbe la cessazione, o quantomeno l’allentamento, della dipendenza degli Stati dai crediti delle grandi multinazionali bancarie e dei grandi fondi di investimento.
La dirigenza cinese non può limitarsi a prendersi le materie prime ma deve aprirsi stabilmente a nuovi mercati, altrimenti salta il sistema. Mentre la Russia, a detta dello stesso Putin, è ancora sotto il controllo ideologico del Fondo Monetario Internazionale (come dimostra l’ultima riforma delle pensioni), la Cina invece è consapevole di non potersi permettere di rallentare a lungo i propri tassi di sviluppo senza precipitare a vite a causa del suo stesso peso demografico.
Per la Cina la nuova Via della Seta non è affatto una strategia di dominio mondiale ma una semplice strategia di sopravvivenza (e non è detto che funzioni). Per la lobby della deflazione invece un’implosione cinese non sarebbe affatto una prospettiva negativa poiché garantirebbe quella “stagnazione secolare” teorizzata, ma in realtà auspicata, da Larry Summers; una stagnazione in grado di assicurare in perpetuo il dominio della finanza.[2]
Comidad
NOTE
[1] http://documents.worldbank.org/curated/en/623141547127268639/Trade-Effects-of-the-New-Silk-Road-A-Gravity-Analysis
[2] http://larrysummers.com/category/secular-stagnation/