Una premessa opportuna
Uno degli effetti della pandemia e certo non il meno rilevante è l’affermarsi nel ceto politico di sinistra e di destra, con la destra che spesso prende posizioni più “estreme”, di una gara per il consenso nei confronti del padronato e delle corporazioni delle classi medioalte, dove vediamo una richiesta di intervento pubblico senza i vincoli imposti negli ultimi decenni. Per quanto sia chiaro, almeno a noi, che i “neoliberisti” hanno sempre considerato i finanziamenti pubblici alle imprese ed ai ceti dominanti in genere come misure accettabilissime, è evidente che le politiche economiche attuali rimettono in campo una qualche forma di economia mista fra stato e mercato.
In particolare, la svolta è stata annunciata da una lunga intervsta di Mario Draghi sul Financial Times del 25 marzo 2020 “È come in Guerra. Serve più Debito Pubblico” nella quale, fra l’altro, sostiene che “(…) Livelli più elevati di debito pubblico diventeranno una caratteristica economica e saranno accompagnati dalla cancellazione del debito privato”.
A questo proposito una valutazione critica da sinistra la dà l’economista Emiliano Brancaccio, nell’articolo “Draghi Indica il Futuro ma Dribbla una Domanda: chi Pagherà questa Crisi?” su Il Sole 24 Ore del 29 marzo 2020 in cui scrive, a questo proposito “(…) Persino alcuni tra i più arcigni nemici del debito pubblico oggi riconoscono che quella suggerita da Draghi è l’unica via in grado di scongiurare una depressione di lungo periodo. Nell’indicarla, tuttavia, l’ex presidente della BCE elude una questione cruciale: anche se si eviterà la deflazione da debiti e la connessa depressione, i costi di questa crisi saranno pesanti. Chi li pagherà? Su quali gruppi sociali ricadrà l’onere del tracollo in corso? Sostenere che il debito pubblico assorbirà l’impatto non è sufficiente (…) L’espansione del debito pubblico è dunque l’unica prospettiva razionale, ma non basta. Occorre chiarire come saranno gestiti i costi di questa crisi inedita e tremenda. Un piano che sposti l’onere principale sui rentiers, contrasti ogni forma di speculazione e salvaguardi i lavoratori ed i soggetti sociali più deboli potrebbe rivelarsi necessario per la rinascita non semplicemente economica, ma civile e democratica. Proprio come accade alla fine di una guerra, quando le forze illuminate della società escono vittoriose.”
In provvisoria sintesi sarebbe possibile – almeno questo sperano molti sostenitori di un’uscita dalla crisi di segno progressista – un new deal comparabile alla politica rooseveltiana che si affermò negli anni ’30 del secolo scorso grazie all’intervento di “forze illuminate della società”, per la verità non proprio visibili all’orizzonte.
Vale la pena, a mio avviso, di fare i conti con l’attuale new deal all’italiana. Ancora una volta in estrema sintesi, è evidente che le risorse poste in capo al debito pubblico, quel debito che, come ci ricorda Brancaccio, qualcuno, e possiamo immaginare chi, dovrà ben pagare si indirizza in due, principali, direzioni: 1. massicci finanziamenti al sistema delle imprese 2. forme di “sostegno al reddito” agli strati più poveri della popolazione ed alla piccola borghesia in caduta libera al fine di impedire una rivolta sociale altrimenti, posto che con queste misure sia evitabile, sentita come ineludibile.
Non mi dilungo sui limiti delle misure di sostegno al reddito, sull’inefficienza della burocrazia, sulle oggettive difficoltà a garantirle, in ogni caso non agiscono, se non a breve, sui punti di crisi del sistema. Su questi temi è intervenuto, con la sua consueta brutalità, Carlo Bonomi, il nuovo Presidente di Confindustria espressione di un vero e proprio partito industriale, in un’intervista a La Stampa del 29 maggio dal titolo decisamente assertivo “Riforme Subito o l’Italia non ce la Farà” in cui afferma, fra l’altro “(…) non possiamo far credere alla gente che useremo quei soldi per fare spesa corrente, nella convinzione che ormai con la formula degli ‘aiuti a fondo perduto’ siano saltati tutti i vincoli europei (…). Per un certo periodo è giusto sostenere l’emergenza, anche con i sussidi al reddito che sono fondamentali. Ma intanto non bisogna credere che le risorse siano infinite e che l’Italia possa vivere solo di sussidi-”
La ricetta che propone è evidente: investimenti nelle grandi opere, mano libera alle imprese, riforma fiscale ecc. Ora che il Presidente della Confindustria affermi con forza il punto di vista confindustriale non mi pare certo scandaloso. Ho voluto riportarlo per evidenziare un limite forte alle ipotesi riformiste di sinistra oggi di moda e che, va detto, sembrano prescindere da un fatto evidente: anche per conquistare delle riforme degne di questo nome è necessaria la mobilitazione di massa e l’azione diretta della nostra classe — in mancanza di ciò facciamo solo esercizi di stile.
Scuola: il new deal immaginario
Prendo le mosse da un brano tratto da una lettera di un compagno che pone una domanda secca: “Questa ministra e il suo apparato che, invece di preparare un piano per affrontare seriamente la ripresa di settembre, lasciano trapelare, improvvidamente, indiscrezioni su una ripresa a singhiozzo, con turnazioni e didattica mista (a distanza e in presenza), con quali risorse pensano di garantire la regolarità delle attività? La ministra può certamente investire i presidi della funzione di ‘comandanti della nave’, ma ciò non autorizza nessuno a pensare che il personale diventi ‘ciurma’ restando indifferente alle lusinghe della ‘filibusta’. Allo stato attuale ci sono quasi 200.000 cattedre scoperte (oltre 150.000 supplenti nell’a.s. 2019/20, più 35.000 pensionamenti dal 1 settembre 2020). Se non si procede con l’assunzione rapida per titoli e servizio di chi ha almeno i 36 mesi, alla ripresa sarà un vero disastro.”
Lasciamo da parte la mancanza di serietà della ministra; non è la prima, e suppongo non sarà l’ultima, fra gli esponenti della classe politica a dar prova di cialtroneria, perciò proviamo a ragionare sulle questioni strutturali. Ora, la scuola pubblica italiana è caratterizzata da una presenza fuor di misura di personale precario da molti decenni – basta, a questo proposito, leggere Il Maestro di Vigevano di Lucio Mastronardi pubblicato nel 1962 o Ex Cattedra di Domenico Starnone pubblicato nel 1989. Siamo di fronte, insomma, ad una debolezza strutturale che si aggiunge allo stato miserando dell’edilizia scolastica e non certo ad una novità.
La pandemia, però, come avviene in momenti di crisi, rende evidente a tutti un fatto sin troppo banale: se si vogliono garantire condizioni appena decenti servono massicce risorse volte non a tamponare la situazione ma a modificarla strutturalmente.
Come si fa, in momenti, del genere, a non affrontare una crisi evidente e, nello stesso tempo, ad affermare che lo si sta facendo in modo serio e severio?[1] In luogo di porsi il problema della carenza di organico con l’unica misura possibile – cioè con l’assunzione a tempo indeterminato delle colleghe e dei colleghi che hanno maturato trentasei mesi di servizio – si fa invece un bel concorso, possiamo immaginare in quali condizioni di sicurezza, in modo da rinviare di molto tempo l’assunzione di meno di un quarto del personale necessario ed il gioco è fatto.
Non avendo mai votato il M5S e non essendo, di conseguenza, animato da rancore nei confronti del suo ceto politico, mi permetto di aggiungere che, in questa occasione e non solo in questa, il M5S è riuscito nella non facile impresa di sostenere una posizione politica peggiore persino rispetto ai suoi alleati di governo ed ai sindacati istituzionali. Cose che succedono.
Nella stessa logica si pone, a mio avviso, l’accanimento nell’imporre gli esami a tutti i costi. Per quel che riguarda l’esame conclusivo del primo ciclo, la prova di esame che conclude il primo ciclo scolastico si svolgerà sulla base di un elaborato realizzato a casa “sotto forma di testo scritto, presentazione anche multimediale, mappa o insieme di mappe, filmato, produzione artistica o tecnicopratica o strumentale”. L’elaborato originale dovrà essere “inerente una tematica condivisa dall’alunno con i docenti della classe e assegnata dal consiglio di classe”. L’elaborato sarà discusso in videoconferenza per consentirne “la piena valorizzazione”. Una rappresentazione nella cui preparazione si acuisce la divisione classista: chi proviene da un contesto di povertà culturale lo replicherà, chi può godere di supporto, consigli e aiuto in famiglia si metterà in luce.
Per quel che riguarda l’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo, questo è da sempre una vetrina mediatica per i ministri dell’Istruzione. Questo spiega in parte la scelta di svolgere l’esame ad ogni costo e di svolgerlo in presenza. Ciò mentre il governo francese (analoghe misure hanno preso quelli di altri paesi) ha cancellato le prove del Bac, un esame che è ben più selettivo del nostro, visto che conta il 10% di respinti, contro il nostro 1%. Così ci troviamo di fronte al paradosso che la medesima commissione – scelta dal consiglio di classe – possa prima ammettere tutti gli alunni all’esame e poi, a distanza di circa una settimana, bocciarne qualcuno.
Vi è del metodo in questa follia?
Vale, ancora una volta, la pena di conoscere il punto di vista dei nostri avversari e di leggere “Le proposte ANP per la Riapertura delle Scuole a Settembre”[2] pubblicate sul sito dell’Associazione Nazionale Presidi, il potente sindacato dei Dirigenti Scolastici nel quale si richiede, fra l’atro, che:
1. la valorizzazione del ruolo dei dirigenti scolastici in materia di scelte organizzative e gestionali, sull’esempio di quanto avvenuto durante la fase emergenziale (…). Si devono quindi eliminare, quanto più possibile, i vincoli burocratici e gli ostacoli organizzativi che impediscono ai dirigenti di assumere con la dovuta celerità le decisioni inerenti alla gestione delle risorse umane, economiche e logistiche.
2. la differenziazione di carriera, professionale, salariale dei docenti e la loro riorganizzazione gerarchica. Gli “expert teacher” – l’ANP non si piega ai richiami all’uso dell’italiano che fa l’Accademia della Crusca – saranno i “docenti evoluti” scelti discrezionalmente che lavoreranno “in collaborazione più marcata con la dirigenza”.
3. i non prescelti all’interno come quadri intermedi dovranno dedicarsi soltanto ad “agevolare il processo di formazione in uno scenario orientato alla cultura della competenza.”
4. siano ridotte al minimo le relazioni sindacali ed assegnati al capo i pieni poteri salariali, in qualità di datore di lavoro: l’autonomia scolastica potrà così finalmente, ed in pieno stile confindustriale, dare i suoi frutti. Scuole aperte 8-10 ore al giorno, lavoratori flessibili, definizione di costi-standard per alunno…
Ovviamente l’ANP è solo una delle forze in campo e va da sè che dipende anche dalla nostra capacità d’iniziativa come evolverà la situazione; è però assolutamente chiaro, almeno a mio avviso, quale sia lo scenario con cui ci misureremo. La scuola post covid sarà ancora di più la scuola della dirigenza e del mercato o vedrà la capacità dei lavoratori, delle famiglie e degli studenti di imporre una fuoriuscita, quantomeno, progressiva dall’attuale situazione. Hic Rhodus, hic salta!
Cosimo Scarinzi
NOTE
[1] “severio” non è un refuso ma un modo di dire burlesco in uso fra gli insegnanti, come direbbero i dirigenti dell’Associazione Nazionale Presidi, “contrastivi”.