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La legislazione sociale (Tratto da: “L’organizzazione operaia e l’anarchia”

La legislazione sociale (Tratto da: “L’organizzazione operaia e l’anarchia”

«Mentre gli altri credono che i cattivi effetti di una legge derivino dal fatto che questa legge è buona o cattiva, noi invece siamo certi che la legge, essendo sempre per la sua stessa essenza e per il fatto stesso che è una legge, cattiva, tutti cattivi ne sono gli effetti, tutte pessime ne sono le conseguenze.

In ogni modo sta in fatto che mai nessun vantaggio hanno potuto i vinti ricavare dalle leggi fatte per comodo delle classi privilegiate, se non quando questi vantaggi i lavoratori han saputo conquistarseli senza l’aiuto della legge, colla propria energia, caso questo in cui la legge, non essendo forse nociva, è nonostante del tutto  inutile.

I nostri avversari invece credono che basti far approvare dal governo una legge a favore degli operai perchè gli operai nel caso contemplato dalla legge stessa possano essere sicuri di se stessi e del proprio diritto.

Ecco l’errore: i lavoratori, fidenti nella legge e nei carabinieri che le porranno in esecuzione in loro favore, non si curano d’imporre da se stessi, con la forza di volontà, ai padroni l’osservanza dei diritti che loro spettano, e danno così ai padroni agio di eludere la legge suddetta (giacchè per essi e per tale reato, il più orribile, non vi sono manette) e di fare proprio l’opposto che il bene voluto dal legislatore. Mentre invece, se i lavoratori volessero, anche senza nessuna legge, potrebbero costringere i padroni a concedere sul serio tutto ciò che loro bisognasse; e in tal caso, di fronte ad una massa cosciente dei propri diritti e risoluta a difenderli, i padroni davvero non saprebbero come eludere la volontà e le pretese degli operai, ben più positive e ben più difficili a sfuggire che gli articoli di un intero codice sul lavoro.

Per esempio, immaginato che una legge dello stato garantisca agli operai le otto ore di lavoro quotidiano. Se gli operai non sono forti abbastanza, i padroni di fronte a questa legge troveranno il modo di eluderla, facendo sì che i lavoranti volontariamente (e cioè per non essere licenziati o per guadagnare di più) lavorino più di otto ore.

Viceversa, poi, se gli operai sono energici e vogliono sul serio lavorare solo otto ore al giorno, non occorre che facciano la doppia fatica di volere prima la legge e di pretenderne poi l’osservanza o il diritto che ne deriva; basta che sieno energici davvero, e senza intermediari di sorta impongano in principio ai padroni le condizioni loro più convenienti. Del resto la verità è che, se la società vive e progredisce lo fa non mediante la legge, ma malgrado la legge; la quale trova la sua ragione d’essere soltanto nella falsa organizzazione sociale odierna, basata sulla lotta, sullo sfruttamento, e sulla violenza dell’uomo contro l’uomo.

Nessun passo l’umanità ha fatto, anche minimo, verso il suo miglioramento senza che una legge che lo impediva sia stata dovuta infrangere, senza che un’altra legge poi abbia cercato diminuirne i buoni risultati sanzionando a suo modo il fatto compiuto. La storia ci insegna che, ogni volta che i popoli hanno infranto col proprio sforzo diretto un privilegio ed una istituzione, ci sono stati sempre i furbi, che prima erano oppressori o amici degli oppressori, i quali, profittando di quella certa accalmia che succede alle agitazioni più intense, con la scusa di consolidare la vittoria del popolo l’hanno tradotta in tanti articoli di legge. Sono essi questi eroi della sesta giornata, che allora si dan da fare e arruffano le cose in modo, con la pretesa di metterle in ordine e condurle ragionevolmente, che dopo un po’ di tempo la conquista popolare è ridotta ai minimi termini e non si riconosce più.

Il popolo conquista la libertà; i politicanti con l’aria di crearle delle garanzie durevoli la assottigliano legalizzandola. «La stampa è libera, ma c’è una legge per reprimere gli abusi» dice lo Statuto; intanto se noi qui ci azzardassimo a scrivere non frasi retoriche ma qualche verità delle più scottanti sulle istituzioni politiche d’Italia, il procuratore del re ci sequestrerebbe, e noi andremmo in galera. Così, secondo la legge, dire la verità diviene un abuso condannabile.

Eppure per una illusione ottica di cui tutti, tranne che gli anarchici, son vittime, si attribuisce sempre alla legge il merito di un progresso che essa invece ha limitato e ridotto. Ed è per questo che i più ogni volta che si trovano di fronte a una ingiustizia dicono subito che per combatterla ci vuole «una buona legge», invece di mettersi essi stessi ad abbattere quell’ingiustizia direttamente. Di questa illusione ottica tutti gli aspiranti al potere, in buona o mala fede, dal clericale al socialista, profittano per guadagnarsi l’appoggio del popolo. «Dateci il potere — essi dicono — e noi allora faremo delle buone leggi per farvi star meglio». Come se il voto di un parlamento avesse il potere di cambiare le condizioni politiche, economiche e morali di tutta la società!

La legge è venuta sempre dopo il fatto, e, lo ripetiamo, per diminuirlo. Essa poi, se lo precedesse, non solo sarebbe inutile perchè mancante d’un substrato positivo, ma riuscirebbe anche allora dannosa, perchè gli interessati cullandosi nella fiducia della legge si lascierebbero vincere dall’inerzia e non otterrebbero mai in fatto ciò che avessero ottenuto in diritto. Ricordiamo che in Francia, quando Napoleone III, spaventato dal sorgere dell’Internazionale, volle prevenirne gli scopi facendo approvare qualche leggina sul lavoro, questa rimase lettera morta, perchè gli operai non furono essi a strapparla e non se ne curarono; e quindi i padroni furono lieti di non curarsene neppur essi. Del resto, anche in Italia non abbian visto e non vediamo scempiamente delusa la legge, in apparenza discreta, sugli infortuni del lavoro e sul lavoro delle donne e dei fanciulli, e il governo non curarsi affatto di farla osservare o esserne impotente?

Ricordiamo a tal proposito un altro esempio.

Negli Stati Uniti tempo addietro molti operai minatori con uno sciopero formidabile ottennero l’abolizione d’un abuso padronale; e il movimento fu così energico che se ne occupò il Parlamento di Washington, il quale diede ragione agli scioperanti, e fece una legge per sanzionare la loro vittoria. Manco a farlo apposta, dopo poco tempo, malgrado la legge, l’abuso ricominciò e continuò per un pezzo senza che gli operai se ne occupassero, fidenti che esso sarebbe stato combattuto e punito dai gendarmi e dai tribunali. Se vollero che quell’abuso cessasse daccapo dovettero ricorrere a un nuovo sciopero, come se la legge non ci fosse. Cioè, ignoriamo — ma la cosa è molto probabile — se la legge, inutile contro i padroni, abbia servito a legittimare invece durante lo sciopero le violenze dei gendarmi contro gli scioperanti. La storia delle repressioni repubblicane dai fatti di Chicago a quelli ultimi di Parigi ce ne dice qualche cosa.

Insomma la legge è fatta e applicata sempre nell’interesse delle classi e delle caste dominanti e privilegiate, ed esisterà finchè divisioni di classe, di casta, esisteranno fra gli uomini; e queste divisioni essa contribuisce a mantenere essendo perciò di esse volta a volta causa ed effetto.

(…)

L’organizzazione operaia, dunque, deve disinteressarsi dell’opera dei parlamenti; e se anche certe volte l’opera di questi fosse per pregiudicare la causa operaia, allora il proletariato organizzato deve dal di fuori, con l’agitazione popolare diretta, imporsi perchè in parlamento come in tutti gli ambienti di governo non si faccia opera deleteria alla causa operaia. Non è lontano il tempo in cui i sommovimenti popolari e gli scioperi e l’organizzazione operaia han costretto in Italia e altrove i varii governi a rallentare i freni della reazione, e a prendere quei provvedimenti in pro’ delle folle che invano per anni ed anni erano stati richiesti dai deputati in parlamento».

Luigi Fabbri

Luigi Fabbri (Fabriano 1877 – Montevideo 1935) aderisce giovanissimo al movimento anarchico. Dopo ripetute persecuzioni, culminate nell’assegnazione, per diciotto mesi, al domicilio coatto, si trasferisce a Roma nel 1901. Nella capitale darà vita, insieme a Pietro Gori, alla rivista “Il Pensiero” (1903-1911), considerata la maggiore e più autorevole rivista anarchica di quegli anni. La rivista condurrà un’importante opera di chiarificazione critica su temi e aspetti cruciali della dottrina e della prassi libertarie. Luigi Fabbri si occupa anche dell’organizzazione operaia e del rapporto degli anarchici col “sindacalismo” per come inteso dai sostenitori dell’azione diretta. In una serie di articoli pubblicati nella rivista e poi racclti nell’opuscolo L’organizzazione operaia e l’anarchia, il Fabbri si esprime a sostegno del sindacalismo di azione diretta e dell’unità fra le varie tendenze del movimento operaio. Ancora oggi il testo di Luigi Fabbri contiene spunti interessanti per un’incisiva azione delle classi sfruttate al di fuori del controllo dei partiti parlamentari.

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