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La crisi di quale agricoltura?

La crisi di quale agricoltura?

Il settore primario agricolo, coltivazioni ed allevamenti, fornisce un bene di consumo di assoluta importanza come gli alimenti.

Per gli operatori agricoli italiani ed europei, che gestiscono piccole e medie aziende, si sono presentate alcune difficoltà normative e strutturali che alzano i loro costi di produzione e riducono o azzerano i loro redditi.

Pertanto le loro proteste si sono indirizzate verso:

  • la politica agricola della Comunità europea e dei loro rispettivi stati;
  • le società multinazionali che gli forniscono prodotti per l’agricoltura (concimi, semi, carburanti, antiparassitari, ecc);
  • la grande distribuzione che gli impone prezzi di acquisto sempre meno remunerativi o addirittura inferiori ai loro costi di produzione sostenuti.

Alle istituzioni governative chiedono, con le P.A.C. ( programmazione agricola comunitaria) contributi per la loro attività, distribuiti però con normative che favoriscono le grandi superfici coltivate e le grandi produzioni.

Nei fatti questi finanziamenti sono i soldi dei contribuenti che pagano le tasse e servono alle istituzioni ed alle associazioni di categoria per acquisire consensi alle loro politiche e funzioni.

Fintanto che le varie P.A.C. ammontavano alla metà del bilancio comunitario, entrambe le parti si ritenevano soddisfatte, ma questa pratica economica era insostenibile ed ha prodotto privilegi, corruzione e scandali, dove “aziende sulla carta “ razziavano soldi pubblici delle P.A.C., sottraendoli agli agricoltori reali, di piccole e medie dimensioni aziendali.

Oggi il bilancio comunitario riserva all’agricoltura solo un quarto del totale e la comunità europea chiede ai contadini pratiche ambientali, come il riposo colturale del 4% dei loro terreni coltivati ogni anno, per conservare la biodiversità floro-faunistica e la fertilità dei suoli coltivati.

Inoltre chiede la riduzione dell’uso degli antiparassitari, a salvaguardia della salute dei consumatori e degli agricoltori stessi.

Purtroppo queste normative sono imprecise e contraddittorie come nel caso dell’importazione di cereali, carne, oli, prodotti in nazioni dove è consentito l’uso di antiparassitari e medicinali zootecnici non consentiti dalla normativa italiana.

In questa situazione gli agricoltori di associazioni professionali diverse e non sempre in accordo fra loro, protestano contro le istituzioni governative e chiedono:

  • l’aumento ed una diversa distribuzione dei contributi delle P.A.C.;
  • l’introduzione di dazi sulle importazioni di materie prime agricole, per rendere competitivi sul mercato i loro costi di produzione;
  • l’abbattimento dell’IRPEF sui valori catastali dei terreni, con limiti sui totali non condivisi da tutti;
  • la riduzione dei prezzi del gasolio agricolo.

La richiesta di ritornare a P.A.C. più consistenti, al fine di sopperire agli alti costi di produzione, prevede una staticità permanente in sistemi di produzione con scarsa produttività e scarsi investimenti ed un’economia aziendale marginale, che non garantisce occupazione all’agricoltore e perpetua lo sfruttamento dei salariati agricoli.

L’introduzione di dazi sulle importazioni è una politica che provoca risposte paritetiche sulle esportazioni tipo pasta, oli, vini, formaggi, e con i tempi che corrono anche contrapposizioni più gravi.

La riduzione della tassazione Irpef sui terreni e delle accise sul gasolio agricolo, va a ridurre la fonte dalla quale provengono i fondi per finanziare le P.A.C.: il cane si morde la coda!

La politica agro-ambientale della C.E.E. si propone di condizionare l’accesso alle P.A.C. a un’agricoltura rispettosa dell’ambiente e compatibile con la salute umana, ma ai buoni propositi si associano misure operative spesso condizionate all’apparire per ottenere consensi elettorali.

La spinta alla conversione biologica delle produzioni agricole è stata condivisa da agricoltori e consumatori raggiungendo il primario scopo del consenso politico.

Il secondo, di garantire la salubrità dei prodotti biologici, lascia perplessi i consumatori perché gli organismi preposti al controllo della filiera produttiva biologica sono privati, autorizzati dalla CEE, e pagati dagli agricoltori per le loro prestazioni professionali.

La certificazione di biologico esplicitata dal bollino CEE, permette al produttore di spuntare un prezzo di mercato più alto ed incassare P.A.C. più corpose e al controllore di intascare il suo compenso professionale.

Penso che il consumatore dovrebbe procurarsi lui l’organismo di controllo e pagarlo per garantirsi la salubrità del prodotto agricolo.

Nonostante i contributi e la certificazione dei prodotti, la piccola e media impresa agricola naviga in condizione economica marginale per il costo dei concimi chimici, semi, carburanti ed energie, antiparassitari, diserbanti, mangimi e medicinali per gli allevamenti, etc. tutte materie prodotte da grandi imprese nazionali e multinazionali, che con accordi di cartello e promozioni allettanti impongono i prezzi di acquisto agli agricoltori.

I concimi chimici sono ormai indispensabili in ogni coltivazione perché la specializzazione produttiva indotta da valutazioni economiche e non ambientali, ha portato a dimenticare che l’agricoltura dovrebbe essere un sistema artificiale integrato fra coltivazione di vegetali e allevamenti animali compatibile con l’ambiente naturale.

L’agricoltura attuale si basa su allevamenti intensivi e specializzati di suini, bovini, ovini, polli, conigli, anatre, etc. allevati in spazi sempre più angusti, nutriti con alimenti che provengono da altre parti del mondo, curati con medicinali indispensabili per il tipo di allevamento in cui vivono.

Inoltre questi allevamenti producono una grande quantità di deiezioni, che da potenziale risorsa da compostare e trasformare in concime organico, divengono un rifiuto da smaltire, con impatti ambientali sgradevoli e pericolosi.

Allevamenti dimensionati sulla disponibilità aziendale di seminativi e pascoli necessari a produrre la quasi totalità dei mangimi e foraggi e a smaltire le deiezioni compostate degli animali, indicherebbero il limite ambientale alle dimensioni delle aziende zootecniche integrate.

Lo stesso dicasi per le monocolture erbacee, arbustive, o arboree che coprono zone vocate per migliaia di ettari esaltando i parassiti specifici e deprimendo le probabilità di esistenza dei loro antagonisti.

In queste aziende dovrebbe essere attuata la forma più adatta di integrazione coltivazioni-allevamenti, riducendo la specializzazione e migliorando le qualità naturali di vino, olio, frutta, prodotti in terreni fertilizzati con letami compostati, e mantenuti in equilibrio micro-macro floro-faunistico.

Sui seminativi le rotazioni colturali dovrebbero essere mantenute e nelle pianure irrigue è corretta indicazione agronomica di lasciare incolto annualmente fino al 10% dei seminativi, dove naturalmente crescerà una cenosi floro-faunistica utile al suolo ed al sottosuolo. Nelle zone di collina la misura non è necessaria laddove è diffusa la presenza di suoli abbandonati.

Per i semi ed il loro approvvigionamento il disastro è già un pezzo avanti con gli ibridi di prima generazione e con le modifiche genetiche artificiali.

Fino agli anni 50-60 del novecento la riproduzione di semi di piante erbacee coltivate era patrimonio diffuso in ogni coltivatore o in enti preposti alla conservazione in purezza di semi locali o nazionali.

Si svilupparono da allora in poi le prime aziende sementiere con lo scopo della conservazione delle caratteristiche varietali e la moltiplicazione dei semi da vendere.

Con questi scopi di servizio agli agricoltori, la loro attività era compatibile con l’economia aziendale e con l’ambiente.

Le ditte sementiere però iniziarono a produrre semi di ibridi F1 non riproducibili naturalmente oltre la prima generazione, e semi geneticamente modificati che già nella prima generazione è indispensabile acquistarli insieme a specifici diserbanti, e concimare chimicamente per ottenere grosse produzioni.

Questa tecnologia che sembrava quasi miracolosa, indusse ad abbandonare le pratiche genetiche tradizionali, basate sulla selezione artificiale di massa ed il sapere antico diffuso e venne meno l’autonomia produttiva dei territori.

Gli agricoltori, la politica agraria, le ricerche universitarie si avviarono entusiasti su questa strada, fino a rimanerne dipendenti e con grosse difficoltà a tornare indietro.

Oggi le produzioni unitarie ad ettaro producono molte materie prime alimentari dalle quali derivano gli alimenti che, nel mondo occidentale, per 1/3 non vengono consumati.

Quando, in altre popolazioni si può ancora soffrire la fame ed ovviamente niente viene sprecato.

Piccoli tentativi di conservare e riprodurre semi di varietà locali e tradizionali, hanno un alto valore sociale e di principio, ma una dimensione insignificante, anche per la perduta conoscenza di pratiche di selezione artificiale per piante ed animali.

Per i carburanti ed altre energie gli agricoltori vivono le stesse difficoltà degli altri cittadini e le riduzioni del costo del gasolio agricolo, sono solo strumento di consenso politico per i governi che si succedono in ogni nazione.

L’industria chimica agricola ha avuto uno sviluppo enorme per l’uso di antiparassitari, diserbanti, disseccanti, etc. che gli agricoltori hanno prontamente adottato per difendere le coltivazioni da parassiti animali e vegetali e per eliminare le piante definite infestanti.

Centinaia di principi attivi sono commercializzati ogni anno dalle industrie chimiche e gli agricoltori non sono esaurientemente informati sulle conseguenze positive e negative del loro uso.

Per quelle sugli effetti voluti sul campo le verifiche appaiono evidenti nella loro efficacia o meno, ma per le conseguenze sulla salute di chi viene a contatto del principio attivo, agricoltore e consumatore, la verifica è complessa, spesso incerta, e diviene meno considerata.

Purtroppo gli agricoltori sono tenuti a portare sul mercato merce di aspetto gratificante e nei fatti i consumatori ricercano la mela di cenerentola, senza difetti morfologici.

Quando il contenitore è più importante del contenuto, la salute umana ci rimette e gli equilibri ambientali vengono alterati.

L’uso di medicinali zootecnici in allevamenti intensivi è preventivo e continuo per le condizioni di vita nelle quali sono costretti gli animali.

Gli spazi ridotti con alto numero di capi per unità di superficie coperta e scoperta, derivano dal bisogno di abbattere le spese di costruzione di stalle, porcilaie, ovili, pollai, ecc e di gestione degli stessi per pulizia, somministrazione di mangimi, abbeveraggi trattati, climatizzazione.

In condizioni di forte affollamento, con alimentazione finalizzata alla massima produzione di carne, latte, uova, i cicli vitali produttivi degli animali sono brevissimi rispetto a quelli naturali, per sfruttare al massimo ogni capo nell’età più giovane e produttiva.

Riportare gli allevamenti animali in condizioni sempre più simili alla vita naturale degli stessi, può comportare la riduzione della disponibilità alimentare per gli umani, ma anche il netto miglioramento della loro qualità salutare e gastronomica.

Se la prima conseguenza può ritenersi negativa a livello mondiale, consideriamo sempre che 1/3 degli alimenti prodotti con le attività agricole non viene consumato, specialmente nel mondo occidentale.

Fin dall’inizio sulla filiera alimentare, una parte di produzione vegetale non viene raccolta quando i prezzi di vendita di mercato non coprono i costi di produzione già sostenuti.

Le industrie alimentari per la trasformazione in cibo confezionato, non sempre lo vendono tutto ed i resti di magazzino vengono smaltiti come rifiuti.

La grande distribuzione, pur facendo offerte convenienti, deve smaltire l’invenduto ricaricando le perdite sui prodotti venduti.

Lo stesso consumatore con redditi medio bassi, si ritrova spesso con prodotti scaduti in casa e anche con avanzi di cibi cucinati.

Produrre oculatamente meno e distribuire meglio le risorse alimentari, si può e si deve, incrementando il km.0 e riducendo i trasferimenti continentali del cibo.

Le relazioni commerciali fra gli agricoltori piccoli e medi e la grande distribuzione, sono sbilanciati a favore di quest’ultima, perché le varie sigle dei supermercati possono fare cartello fra di loro e imporre bassi prezzi di acquisto delle materie prime alimentari agli agricoltori che offrono singolarmente micro partite di merce.

Inoltre la grande distribuzione può decidere anche i prezzi di vendita ai consumatori in quanto questi ultimi non hanno strumenti collettivi in grado di calmierare i prezzi.

Per gli agricoltori i prezzi di vendita di prodotti freschi come frutta, verdura, latte sono sempre condizionati dalla deperibilità degli stessi, così per evitare l’invenduto essi accettano i prezzi del mercato condizionato. Per quelli secchi come cereali, legumi, frutta secca, la scelta di vendere nei periodi di mercato a prezzi più alti comporta spese di magazzini e silos igienizzati contro parassiti animali e funghi, e climatizzati per carne, formaggi, surgelati.

Questo è il quadro dell’agricoltura capitalista in crisi dove le conseguenze peggiori colpiscono imprenditori e lavoratori dipendenti di aziende di base, piccole e medie, stretti in normative statali che non li favoriscono ma cercano di circuirli e permettere di massimizzare i profitti alle grandi aziende agricole, alimentari e industriali.

Ci può essere un’agricoltura alternativa a questa capitalista?

Si può praticare un’economia agricola del diritto a usare la risorsa terra, conservando l’equilibrio ambientale e quello dei redditi di chi la lavora?

Si può creare un rapporto solidale diretto fra agricoltori, produttori di cibo e consumatori dello stesso, senza figure commerciali che nella filiera acquisiscono la maggior parte del plus valore sfruttando i primi e gli ultimi?

Rispondere a queste domande significa prefigurarsi un’agricoltura da cambiare nelle normative, nelle strutture, nell’economia e nei rapporti sociali fra agricoltori e consumatori, cambiamenti di fondo, non riforme continue che conservano il sistema economico con gli sfruttati e i privilegiati, tutti gestiti da istituzioni statali.

L’attuale agricoltura europea è gestita dalla C.E.E. attraverso normative che distribuiscono finanziamenti pubblici attraverso le P.A.C.

Questi sono legati in modo direttamente proporzionale alle superfici agricole utilizzate, e alla quantità e qualità delle produzioni aziendali. L’impegno principale degli agricoltori è diventato quello di presentare periodicamente una P.A.C. che nei fatti sarà il reddito della loro attività.

Un’attività economica che non ha produttività nella produzione e commercializzazione dei beni, non può essere sempre supportata dai finanziamenti pubblici, ma deve rendersi autonoma e convivere in un “libero mercato”.

Per far questo occorre utilizzare i finanziamenti pubblici per stimolare l’impegno degli agricoltori verso pratiche che abbiano una ricaduta positiva sulla qualità della vita di tutti i cittadini.

L’agricoltura biologica può elevare la qualità degli alimenti e dell’ambiente, ma devono essere le organizzazioni dei consumatori che gestiscono e compensano gli organismi di controllo.

L’esperienza radicata dei G.A.S. deve essere completata con l’assunzione di questo impegno nell’interesse di tutti i soci. Il limitato numero di soci di ogni G.A.S. ed il km 0 della provenienza di molti prodotti, facilita i controlli attivati con incarico professionale a tecnici agricoli di fiducia.

La riduzione dell’uso di antiparassitari, diserbanti, medicinali per animali e la maggiore naturalizzazione dei loro sistemi di allevamento, controllati in maniera diffusa sul territorio, si possono ottenere da una collaborazione solidale fra produttori e consumatori.

Anche la prevenzione dei danni idrogeologici (frane, alluvioni, erosione) è da affidare agli agricoltori per i terreni che coltivano, e finanziabili con fondi pubblici recuperati dalla riduzione dei danni economici provocati dagli eventi climatici disastrosi.

L’agricoltura solidale è l’alternativa a quella capitalista; considerare la terra un bene comune riporta la stessa a disposizione di chi la lavora, pertanto si supera il concetto di proprietà e si valorizza quello di diritto di uso. L’agricoltura che utilizza le risorse dei suoli coltivati conservandone gli equilibri ambientali con tecniche agronomiche, sia tradizionali che innovative, acquisisce il diritto d’uso di terreni dove ha investito per la rigenerazione continua della fertilità.

Questo operatore agricolo, ambientale, sociale, riveste un ruolo di primaria importanza nella comunità dove lavora e vive in solidarietà con altri produttori di beni di cui ha bisogno e con tutti i consumatori. È questa funzione di custode attivo del bene comune terra e della salute di chi ingerisce quotidianamente i suoi prodotti, che deve essere riconosciuta e incentivata con finanziamenti pubblici. Quando il suo sapere antico è trascurato e le tecnologie moderne, i cambiamenti climatici, gli equilibri ambientali, non favoriscono ma ostacolano il suo lavoro, la comunità interviene con l’aiuto economico nei confronti del coltivatore per migliorare la qualità della vita di tutti.

Scegliere il produttore di cibo nel quale hai una fiducia sociale, perché condivide i tuoi valori, è un aiuto economico al contadino coltivatore diretto e ai salariati che partecipano alla sua impresa.

Sottopagare la mano d’opera agricola, sua e dei suoi collaboratori perché i redditi non ci sono, è una condizione che affligge entrambi.

È bene comunque precisare che quando si parla di agricoltori coltivatori diretti e piccoli imprenditori agricoli lo si fa per distinguerli dalle grandi aziende che dispongono di strumenti economici, politici, mediatici tali da usufruire a pieno dei finanziamenti pubblici statali e l’unico contropotere nei loro confronti è il rapporto stretto e solidale fra produttori e consumatori.

Come si può creare, consolidare, ampliare questo rapporto? Partirei da un dato di fatto che in 40 anni di libera professione di agronomo ho sempre anteposto ad ogni consulenza tecnica: è più difficile vendere che produrre.

L’agricoltore che lavora i terreni con dovizia e competenza, semina e coltiva vegetali e alleva animali con buona produttività e migliore qualità della vita degli stessi, porta in cascina i raccolti (biologici o meno) salvandoli dalla grandine, dai parassiti e dalle incursioni di cinghiali e ungulati in genere, è stato bravissimo, ma non basta. E’ necessario che il suo lavoro venga riconosciuto con un valore superiore alla somma dei costi di produzione sostenuti.

Per questa ulteriore fase di lavoro il movimento contadino di protesta è molto deficitario e chiede che siano i contribuenti pubblici a compensare i bassi prezzi di mercato che loro incassano, cioè chiede che i consumatori che pagano il prezzo finale di vendita degli alimenti sostengano anche un incremento fiscale per finanziare le P.A.C.

Questa grave anomalia deriva da un problema strutturale di commercializzazione che la grande distribuzione impone con una rete di vendita efficiente, ma i cui profitti non arrivano ai produttori primari.

Come la storia ci insegna, le categorie sociali che dispongono di

minori redditi possono affrancarsi da questo sistema solo in modo collettivo che richiede unità di intenti e di valori sociali.

Lo stringere rapporti di commercio a livello minimo come i GAS fanno è un esempio spontaneo di organizzazione di base e con le condizioni di garanzia qualitativa sono da incrementare come singoli gruppi ma anche come unione di GAS per sostenere le loro spese di controllo e di strutture di vendita.

Gli agricoltori, da parte loro, oltre a perfezionare ogni forma di vendita diretta ai consumatori, dovrebbero dar vita a strutture di vendita collettive gestite da loro stessi e comunque da loro partecipate direttamente in modo da alzare i prezzi di vendita e coprire i costi di produzione e commercializzazione.

Un’impresa agricola, due attività (produzione e commercializzazione)

tanti cittadini solidali: coltivatori diretti, piccoli imprenditori e collaboratori, operai agricoli e consumatori!

Il progetto lo possiamo chiamare autogestione, partecipazione, gradualismo, insomma un percorso per opporsi e insorgere contro il capitalismo che è già di per sé rivoluzionario, come teorizzava Landauer.

La pratica concreta di questa organizzazione di base sarebbe una sperimentazione fantasiosa, una scoperta delle conseguenze positive e negative, un sentirsi vivi e meno oppressi.

Alcune realtà già attive in questo campo e in questa ottica, come la società cooperativa di produzione e lavoro P.A. IRIS bio di Cremona, nata da un’occupazione di terre si è sviluppata per decine di anni con l’impegno di compagni che fanno scelte condizionate dalle regole imposte da un commercio dominato dalla grande distribuzione.

Io ne sono socio con azioni mutualistiche, ne utilizzo i prodotti forniti dai soci agricoltori, partecipo poco per la distanza ma se ho un consiglio o una critica da fare gliela comunico condividendo il loro impegno gestionale e gli obiettivi sociali, ambientali e salutisti.

Questa narrazione e concretizzazione del futuro dell’agricoltura deve essere una rivoluzione continua, sostenuta da valori della solidarietà per evitare che una cooperativa di agricoltori inizi a differenziare i redditi dei soci in base ai ruoli riducendo gli obiettivi egualitari.

Gli agricoltori in protesta, a cavallo dei propri trattori, valuteranno cosa hanno ottenuto dal sistema economico capitalista e fra un pieno di gasolio e l’altro, potrebbero riflettere se è più conveniente chiedere soldi e normative a loro favorevoli, o autorganizzarsi fra loro in stretto rapporto con i consumatori per erodere a multinazionali e grandi catene di distribuzione una parte dei loro profitti.

Se saranno bravi e ci riusciranno forse gli converrà montare sui propri trattori “un nido di mitragliatrici” e resistere alla reazione del sistema.

Vincenzo Mordini (agronomo ex libero professionista in pensione)

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