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Investimenti territoriali differenziati

Investimenti territoriali differenziati

Dovrebbe essere un dato oramai assodato che l’economia di mercato punta al profitto come è altrettanto noto che, a guidare gli investimenti, sono le condizioni al contorno nelle quali questi avvengono. È quindi da ritenersi un buon investimento, di tempo e denaro, quello nel quale sono presenti garanzie tipo la rapida remunerazione del capitale investito e la certezza dei profitti.

Appare abbastanza chiaro che anche gli investimenti a carattere territoriale (grandi opere Infrastrutturali, impianti energetici e servizi in genere) non sfuggono a questa logica, quindi è lecito affermare che lo sviluppo di un territorio è legato più alla rapidità del recupero dell’investimento che alla programmazione economica di lungo periodo.

Assumendo questo ragionamento come principio, è possibile leggere e analizzare gli investimenti programmati negli ultimi anni sotto una prospettiva differente rispetto alla narrazione dello sviluppo fin qui accettata. Narrazione che, va ricordato, assume la forma di mantra quando vengono scandite sempre le stesse parole all’infinito, crescita, sviluppo, progresso, necessità, opera essenziale, ecc. Mantra intonato da governanti locali e nazionali, sostenuto da ministri e assessori di varia improba natura e sempre tesi a porre come inevitabile e necessario l’intervento in oggetto.

Uno sguardo ai soggetti pubblici coinvolti negli investimenti può ulteriormente chiarire quello che si sta cercando di dimostrare. Molte delle aziende pubbliche operanti nelle grandi operazioni di riconfigurazione territoriale sono si a capitale pubblico, ma si tratta di S.p.A. che devono quindi per statuto obbedire a determinate regole di gestione aziendale, tra le quali spiccano i dividendi agli azionisti legati ai profitti ed alla crescita aziendale. Questi primi elementi forniscono un quadro, non sicuramente dettagliato, ma abbastanza esaustivo per comprendere in che modo talune scelte vengono assunte. Per quanto concerne le infrastrutture trasportistiche, vi sono delle evidenze che se messe a sistema chiariscono il modo in cui si orientano gli investimenti. Ci occuperemo qui prevalentemente dei trasporti su gomma e su rotaia, evidenziando le profonde differenze circa l’entità degli investimenti ed il loro ambito geografico di intervento.

Riassumendo i concetti cardine, abbiamo che gli investimenti infrastrutturali sono finanziati con denaro pubblico ma gestiti da aziende pubbliche di diritto privato ed appaltati a general contractors privati, tali processi dunque sono veri e propri investimenti dai quali tutti i soggetti (tranne chi paga) devono trarre profitto o comunque recuperare con un certo interesse il capitale investito. Non indagheremo qui la rete di intrecci finanziari che ruota attorno a grandi opere e riassetti territoriali, riproponendoci di dedicare a questo tema un articolo a sé. Tornando al nostro tema di adesso, se lo scopo principale è di trarre profitto dall’opera in sé o dai guadagni legati all’uso dell’opera (es. pedaggi autostradali o tariffe ferroviarie) ovviamente l’opera verrà localizzata lì dove si prevedono maggiori possibilità di profitto.

Analizzando brevemente i territori, non possono non essere notate le differenze economiche in termini di collocazione geografica. l’Italia presenta sostanziali differenze non solo fra Nord e Sud ma anche fra Est ed Ovest, il versante tirrenico per esempio è economicamente diverso dal versante ionico-adriatico, investimenti per ampie autostrade e linee ad Alta Velocità da un versante e tutto l’opposto dall’altro. Da Napoli in giù i trasporti sembrano non avere molta importanza ad esclusione del gommato: difatti l’unico grande investimento infrastrutturale degli ultimi 50 anni è stata la Salerno-Reggio Calabria, l’autostrada in questo caso è pubblica e senza pedaggio, non per incontrare le esigenze del basso reddito del meridione ma per sostenere il trasporto commerciale su gomma direttrice Sud-Nord soprattutto per quanto concerne le derrate alimentari a basso valore aggiunto. Le strade ferrate hanno avuto ben altri destini, rinnovate e potenziate al Centro e al Nord e pressoché immutate al Sud. Ciò accade perché i flussi di traffico passeggeri e merci non sono omogenei e si concentrano maggiormente in alcune aree, tra Nord-Ovest e Nord-Est o tra Nord e Centro (Milano-Venezia-Trieste, Milano-Roma, Venezia-Roma, Roma-Napoli) – tutto ciò che sta fuori da questi corridoi ad alta densità di traffico è considerata “periferia del regno” con scarse prospettive di crescita e sostanziale incapacità di sviluppo nel medio periodo.

Se quindi osserviamo i territori che sono fuori dai corridoi più remunerativi, ci ritroviamo con linee ferrate ad un binario e non elettrificate (Sicilia e Calabria in primis), strade malandate e trasporto pubblico in dismissione. Ora capiamo per quale motivo le ferrovia che collega Reggio Calabria a Taranto o Messina a Palermo siano dei reperti museali più che infrastrutture capaci di connettere strutturalmente un territorio. Alla luce di quanto detto finora, capiamo anche per quale motivo nessuno ci vuole investire un centesimo.

Eppure queste sarebbero le “grandi” opere necessarie, un progetto complesso di interventi di aggiornamento ed ammodernamento delle infrastrutture e dei collegamenti. Non c’è però bisogno di TAV fra Reggio e Taranto o fra Cagliari ed Olbia: ci sarebbe bisogno solo di un vettore efficiente con orari ben studiati in funzione dei flussi passeggeri e merci, che in un tempo ragionevole consenta un trasporto confortevole. I circa 470 km di ferrovia TA-RC potrebbero essere coperti in meno di 3 ore con un comunissimo elettrotreno come un intercity (trainato da una locomotiva tipo E-401 viaggiante a 200km/h di velocità max) senza ricorrere a pendolini o frecce dai costi stellari e senza stravolgere l’attuale percorso della linea, ma solo investendo nell’elettrificazione e nell’adeguamento. Il problema è che stiamo parlando di linee regionali e a scarsa densità di transito: se però guardiamo il problema da un’altra prospettiva, capiamo che è l’obsolescenza delle linee e la gestione al risparmio che creano perdite di passeggeri, relegandone l’uso quasi esclusivo a pendolari, studenti e persone a basso reddito. Come solevano dire i nostri avi “soldi chiamano soldi” e, nei fatti, si usano gli strumenti della pianificazione territoriale per accelerare lo sviluppo in aree nelle quali è già presente una discreta crescita economica.

Immaginare collegamenti stabili ed intermodali per connettere non soltanto i centri abitati della costa ma soprattutto l’entroterra con la costa, soprattutto lungo le regioni del Centro, del Sud e delle Isole, è ancora di là da venire. Il che amplia il paradosso e rende i claudicanti ed incerti i tentativi fin qui intrapresi incoerenti con la rilevanza economica degli investimenti. Fornire trasporti e vie di comunicazione accessibili e percorribili con vari mezzi in tempi ragionevoli è di per sé il miglior investimento per attività di ogni genere, soprattutto per cominciare a pareggiare le distanze tra le regioni, distanze che si fanno siderali se si pensa che in circa tre ore si va da Messina a Siracusa (223km) mentre in poco più di due ore si va da Milano a Roma (567 km). Le politiche di riqualificazione territoriale e di ammodernamento delle infrastrutture, nel momento in cui seguono solo ed esclusivamente le logiche mercatali, finiscono per acuire le differenze fra le varie aree geografiche, non solo per il fatto che una proceda in maniera più spedita rispetto all’altra ma anche perché l’altra è destinata ad un inesorabile processo di rallentamento. Il taglio ai treni pendolari, la dismissione delle piccole stazioni, l’affidamento sempre più massiccio di intere tratte a mezzi gommati privati, sono le avvisaglie di come si stia orientando la pianificazione “strategica” dei nostri territori. La mobilità, che è uno dei fattori sui quali si costruisce l’autonomia locale, viene ad assumere invece il ruolo di strumento che discrimina chi è degno di sviluppare le proprie potenzialità e chi no.

Un territorio affossato da logiche predatorie ed estrattive, umiliato con infrastrutture vetuste e obsolete è un territorio pronto a svendere il proprio futuro al primo imbonitore da fiera, che promette miracoli se e solo se si scaccia il maligno che si annida negli ultimi o se si accettano purghe e salassi per eliminare i cattivi umori. Detto così fa sorridere, ma è esattamente quello che accade ogni giorno, si inventano rimedi da stregone per cercare responsabili incolpevoli cui affibbiare un qualche stigma solo per non far pensare alle responsabilità dell’economia di mercato.

J. R.

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