Gennaio 1968 : parte per prima l’occupazione di Palazzo Campana a Torino. Ai primi di Febbraio a Roma viene occupata la Facoltà di Medicina, contro la proposta di legge Mariotti, che voleva allungare il corso di laurea a sette anni; subito dopo inizia l’occupazione della Facoltà di Lettere che diverrà, praticamente da subito, il centro del movimento. La rivista “Quindici” pubblica in prima pagina una vignetta che ritrae un teschio con tanto di parruccone e un coltello piantato nel cuore, circondato dalla scritta : “Contro l’autoritarismo accademico potere studentesco”. Il 68 parte così, con una rivolta antiautoritaria e con una rivendicazione di contropotere. Non sappiamo fino a che punto la parola d’ordine del “potere studentesco” fosse mutuata dalla affermazione del “potere operaio” in fabbrica. Comunemente si pensa che la rivolta studentesca, essendo arrivata prima del 69 operaio, abbia in qualche modo stimolato e influenzato la stagione dell’ “autunno caldo”. Certamente è così, ma bisogna considerare anche che prima c’erano stati il luglio 60, piazza Statuto, la rivolta di Valdagno con l’abbattimento della statua di Marzotto, e in più le rivolte contadine di Cutro e Isola Capo Rizzuto, quella di Avola, la rivolta popolare di Battipaglia. Le cose sono molto intrecciate.
Il contropotere si materializza nell’assemblea, una forma di democrazia diretta che rompe con la tradizione della democrazia rappresentativa. La dinamica assembleare della democrazia diretta non era certo perfetta. Il fenomeno del leaderismo compare già da subito a condizionare fortemente i processi decisionali. Il leaderismo è certamente una espressione dell’immaturità della forma assembleare assunta come alternativa alla forma rappresentativa della democrazia. Esso anticipa e prepara il formarsi dei gruppi della cosiddetta sinistra extraparlamentare. La storia di questi gruppi e delle loro posizioni meriterebbe forse una trattazione più puntuale e più sistematica di quanto è stato finora fatto. E’ anche vero che probabilmente la storia dei gruppi non è la parte migliore degli anni che vanno grosso modo dal 68 al 75, in quanto in queste formazioni hanno trovato continuità il più delle volte forme e contrapposizioni ideologiche appartenenti al passato. In ogni caso, la storia dei gruppi esula dalle intenzioni di questo articolo, che vuole mantenersi più aderente alle manifestazioni e alle contraddizioni del movimento colte, per così dire, allo stato nascente.
La scuola stava cambiando. Nuovi strati sociali affluivano nelle scuole superiori e nell’università, inaugurando l’epoca della cosiddetta scolarizzazione di massa. La scuola pubblica non riusciva più a garantire la sua funzione di selezione meritocratica, dalla formazione delle élites dirigenti del paese a quella dei ceti professionali, dagli impiegati “di concetto” fino all’avviamento professionale al lavoro operaio e all’apprendistato. Si faceva un gran parlare, all’inizio, di sbocchi professionali. Dalla lettura di “Lettera a una professoressa” quello che era rimasto ben presente nella mente di tutti era che quella selezione falsamente meritocratica era in realtà una selezione di classe. Quella selezione inoltre non appariva più giustificata di fronte al destino, comune alla maggioranza, di un lavoro salariato. La scuola e l’università si stavano trasformando in contenitori di studenti proletarizzati, si potrebbe forse dire di forza lavoro proletarizzata.
Alcuni autori sostengono che l’intellettuale-massa proletarizzato non abbia trovato nulla di meglio da fare, per riqualificarsi, che autoproclamarsi dirigente e guida ideologico-politica della classe operaia, pur sapendo che quel posto era già da lungo tempo occupato dalla sinistra ufficiale. A questo proposito mi sembra che non sia il caso di lasciarsi andare a facili generalizzazioni. Se questa può essere stata la motivazione di una parte dei militanti dei gruppi, segnatamente di quelli attestatisi su posizioni di direzione e che poi del resto hanno continuato nelle loro scalata come politici di professione, professionisti dei media o altro ancora, mi pare che per la stragrande maggioranza dei partecipanti al movimento la famosa parola d’ ordine dell’ “alleanza operai-studenti” poggiasse su più solide basi strutturali, e cioè su un reale riavvicinamento delle rispettive condizioni di vita e di lavoro. In altri casi, si può parlare addirittura di una “attrazione fatale” esercitata dalla condizione e dalla comunità operaia sullo studente dequalificato, anche se su questa attrazione pesava comunque una forte componente di ideologizzazione.
Il fatto è che c’era, nel ’68, un elemento non riducibile alla pur, per molti versi, auspicabile modernizzazione capitalistica, e questo elemento era la critica radicale dei ruoli sociali, della loro fissità e divisione netta, borghese, una critica radicale innanzi tutto alla divisione, fondante della società capitalistica, fra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Molta acqua è passata da allora sotto i ponti e questa critica andrebbe ovviamente attualizzata. Il sogno della “fabbrica automatica” non si è realizzato a causa delle note difficoltà capitalistiche nell’introduzione del progresso tecnico applicato alla produzione, anzi questa tendenza, pur irreversibile, ha incontrato notevoli rallentamenti e, in molti settori, ritorni all’indietro al lavoro manuale, a domicilio ecc. Il lavoro mentale è stato in larga parte incorporato nel macchinario, personificato in questo caso dal microprocessore, subendo lo stesso processo già toccato al lavoro manuale, vale a dire il passaggio da lavoro vivo a lavoro morto. Tuttavia, pur nell’aumento relativo del lavoro immateriale, la radicalità della critica portata dal 68 alla divisione del lavoro, a mio avviso, rimane fondante.
La critica radicale della divisione del lavoro portava con sé il rifiuto tout court della “cultura borghese”. Ma qui è necessario fare qualche precisazione. Le facoltà scientifiche erano all’epoca completamente imbevute della concezione positivistica della scienza, che solo nei lavori epistemologici successivi verrà messa in discussione. Il movimento, d’altra parte, aveva il suo epicentro nelle facoltà umanistiche e toccava solo in modo marginale le facoltà scientifiche, perpetuando l’antica concezione, tutta italiana, della superiorità della cultura umanistica nei confronti di quella scientifica. Il movimento era quindi sprovvisto degli elementi teorici necessari per una critica della scienza, e quindi il suo rifiuto in blocco della “cultura borghese” non poteva che essere fortemente venato da elementi ideologici. A ciò si aggiunga il forte influsso esercitato su larghi settori del movimento dalla quasi contemporanea “rivoluzione culturale” cinese, con il suo tentativo, sicuramente allora volontaristico, di ribaltamento dei ruoli nel campo della cultura e dell’educazione. Il rifiuto della “cultura borghese” portava poi alla riscoperta delle “culture popolari” e delle tradizioni, soprattutto in un Sud italiano, ancora largamente contadino, e ai primi ritrovamenti di “culture etniche”, come nei lavori di Ernesto De Martino, che tanto successo avranno poi nei decenni successivi. La forte necessità di elaborare delle alternative in campo culturale porterà poi alle teorizzazioni di una improbabile “cultura proletaria” che potevano invece contenere già in sé i germi del populismo. Tuttavia, sono convinto che, dopo il 68, nessuna rivoluzione sociale radicale possa fare a meno di un rivolgimento culturale profondo.
La contestazione anti USA contro la guerra in Vietnam ha avuto una profonda influenza sulla preparazione e lo svolgimento del ‘68. Viste queste premesse, il movimento non poteva non essere “antimperialista”, anche se le motivazioni teoriche del concetto di “imperialismo” (americano) non erano del tutto chiare e, spesso, tendevano a confondersi con un generico “antiamericanismo”. Lo stesso dicasi per la qualifica di “socialimperialismo” o, peggio, di “revisionismo sovietico” con cui veniva definita l’ URSS, soprattutto da parte delle tendenze maoiste, anche se l’invasione dei carri armati a Praga era stata un’ occasione per una presa di distanza da parte del movimento verso l’Unione Sovietica. Il fatto è che la grande stagione dell’anticolonialismo e delle “lotte di liberazione nazionale” aveva una grande risonanza all’interno del movimento, da Cuba all’Algeria, al Vietnam, alla Palestina, senza che, peraltro, vi fosse una precisa analisi del ruolo delle “borghesie nazionali” e della loro successiva involuzione.
Alcuni autori ritengono che questa influenza segnasse pesantemente una tendenza all’idealizzazione di società più arretrate e/o al pauperismo da terzo mondo, ma si potrebbe anche parlare, forse più correttamente, di una relativa estraneità alla società basata sul capitalismo occidentale, sull’onda del movimento hippies americano degli anni 60. In tutto ciò vi è certamente una parte di verità, ma non mi risulta che nel movimento del ‘68 vi siano state tendenze importanti seriamente anticonsumistiche. A parte alcune letture critiche, come il Roland Barthes di “Miti d’oggi”, il livello dei consumi allora esistente, in una prima fase della moderna “società di massa”, veniva piuttosto dato come scontato. Il fatto è che, prima ancora del bisogno di consumo, quella che si imponeva al di sopra di tutto era un’esigenza imperiosa di socialità, di rottura dell’isolamento individualistico proprio della società borghese. Un segnale di tutto ciò era il grande successo ottenuto inizialmente dalla Scuola di Francoforte e , in particolare, dal testo di Herbert Marcuse “L’uomo a una dimensione”. Insieme alla riscoperta di un Marx “inedito”, come quello dei Grundrisse o del “Capitolo sesto”, si delineavano questi altri influssi teorici, tanto è vero che in una prima fase del ‘68 si parlò di “movimento delle tre M” : Marx, Mao, Marcuse.
Ma torniamo alla cronaca. A Roma, durante la prima occupazione della Casa dello Studente adiacente all’Università in Via De Lollis, sulla facciata campeggiava una grande gigantografia di Raquel Welch, simbolo erotico dell’epoca. Una delle rivendicazioni degli studenti fuori sede era, infatti, il libero ingresso delle ragazze nella Casa, fino ad allora vietato. Sorvoliamo sull’evidente maschilismo della rappresentazione (le femministe ancora non c’erano …). La liberalizzazione dei costumi è certamente un portato del movimento del 68 in una società arretrata, ancora ipocrita e clericale, come quella italiana, come anche la scoperta, sulla scia delle riletture di Wilhelm Reich – (La rivoluzione sessuale) – dello stretto rapporto intercorrente fra repressione sessuale e oppressione sociale. Il primo bersaglio della critica, oltre alla scuola, era naturalmente la famiglia borghese monogamica, in cui autoritarismo e repressione sessuale si intrecciavano in una miscela devastante. Da qui la contestazione dell’autorità paterna, e i numerosissimi abbandoni della famiglia d’origine; la crisi della famiglia tradizionale comincia da lì, la legge sul divorzio seguirà, sei anni più tardi!
Conseguenza immediata del rifiuto della “cultura borghese” è la “non delega” ai tecnici della gestione di competenze specialistiche. Non delega che viene del resto promossa da settori non secondari dei tecnici stessi. Significativo è, ad esempio, quanto accade nel campo della medicina. Con “L’istituzione negata” Basaglia denuncia l’origine sociale e istituzionale della malattia mentale, con una azione concreta che porterà, anni dopo, alla chiusura degli ospedali psichiatrici e a una ricerca orientata alla risocializzazione del malato mentale e alla sua integrazione nel territorio. In fabbrica, la lotta contro le nocività coinvolge gli operai e i Consigli, con il conseguente ritiro della delega ai medici di fabbrica e l’istituzione dei “libretti di rischio”, che rivalutano la “soggettività operaia” nella gestione della salute, contro la presunta oggettività della medicina ufficiale. La lotta contro la nocività si estenderà poi sul territorio, a partire dall’inquinamento da diossina all’ICMESA di Seveso, all’ACNA di Cengio, fino alle lotte vittoriose contro le centrali nucleari. Sull’onda di queste lotte, e con la spinta formidabile di Giulio Maccacaro, nascerà poi Medicina Democratica. La malattia viene indagata nelle sue cause sociali, nelle nocività ambientali, nello stress da lavoro, denunciando i danni provocati dalla “medicalizzazione” di ogni disturbo e dando origine a quel filone che porterà alle pratiche di self-help delle femministe, e a quelle di self-care o di “medicina alternativa” così diffuse nella odierna società “post-moderna”.
Abbiamo già detto all’inizio che nel ‘68/’69 il movimento studentesco e quello operaio si presentano strettamente intrecciati. Pertanto alcune considerazioni finali sull’ “autunno caldo” non dovrebbero, qui, sembrare fuori luogo. La lotta operaia anticapitalistica, del cosiddetto “operaio massa”, si svolge essenzialmente sul terreno del salario, estremizzando però la sua portata. Dagli “aumenti salariali uguali per tutti”, espressione del rifiuto della divisione capitalistica del lavoro, al “salario sganciato dalla produttività” come rifiuto dello sfruttamento capitalistico e della sopravvivenza legata al lavoro, al “reddito sociale garantito”, estensione della lotta per il salario alla società e al territorio (casa, servizi, trasporti, scuola, sanità), la lotta operaia usa l’estremizzazione della lotta per il salario, nell’ipotesi che questa alla fine possa far saltare i rapporti sociali capitalistici. In effetti, si arriva alla fine a quello che gli economisti chiamano “profit squeeze”, vale a dire a una erosione dei profitti tale da mettere in pericolo il processo di accumulazione. Quanto questa erosione dei profitti abbia contato nel successivo manifestarsi della crisi capitalistica saranno appunto gli economisti a dirlo. Sta di fatto che questo continuo rilancio della lotta sul salario, questo ripartire ogni volta dalle condizioni materiali della classe annullava la tradizionale divisione fra lotta economica e lotta politica, fra sindacato e partito. La lotta economica sulle condizioni materiali era a tutti gli effetti lotta politica, garanzia della autonomia della classe dalle rappresentanze, istituzionali e non. Ma, all’apparire della crisi capitalistica, della ristrutturazione, del decentramento produttivo, della deindustrializzazione, quello che sembrava un punto di forza della lotta operaia si trasforma improvvisamente in un suo limite. Contrariamente all’operaio professionale, protagonista del precedente ciclo di lotta dell’inizio del Novecento, l’operaio massa non ha un suo progetto di organizzazione sociale alternativo a quello capitalistico. Di fronte alla crisi non ha alternative : o riaffermare la centralità della fabbrica, la sua centralità come soggetto sociale, o scomparire. La riaffermazione della centralità della fabbrica si dimostra effimera, la scomparsa invece molto concreta.
Per concludere : il 68 si pone comunque all’apice dello sviluppo capitalistico, anzi all’apice della “golden age” dello sviluppo capitalistico e, in quanto tale, sembra esigere un impetuoso salto in avanti della società, anche se non mancano al suo interno venature pessimistiche e presagi di involuzione. Il successivo esplodere della crisi capitalistica, e la sua evoluzione disastrosa fino ai giorni nostri, ne hanno forse reso le motivazioni profonde incomprensibili ai più, oggi nei tempi in cui non si tira la “quarta settimana”. Tuttavia la stagione del 68 riapre le prospettive del cambiamento sociale radicale nel secondo Novecento e, in quanto tale, le indicazioni che esso ha dato conservano ancora, a mio avviso, una sorprendente attualità.
R A C C O N T O D’ A P P E N D I C E.
Le facoltà erano state tutte sgomberate il giorno prima dalla polizia, tranne quella del Magistero in Piazza Esedra. E al Magistero si teneva quel pomeriggio l’assemblea che decise per il giorno dopo la manifestazione che doveva convergere verso la facoltà di Architettura, con l’obbiettivo di rioccuparla. Passai la serata in Piazza Navona, con un gruppo di compagni, cantando a squarciagola, con l’accompagnamento della chitarra, “Comandante Che Guevara”. Da studente fuori sede, un po’ sradicato nella città, mi piaceva quell’improvviso scoppio di socialità effervescente. Quella sera accettai l’ospitalità di Leonardo, anche lui studente di medicina; nell’assemblea di facoltà aveva fama di estremista, i suoi interventi erano sempre i più infuocati, anche se era troppo disordinato per essere un leader. Per il resto avevamo molte cose in comune : anche lui era figlio della buona borghesia meridionale, in rotta però con la famiglia. Abitava a Borghesiana, una borgata romana, dove faceva un lavoro volontario, insegnando ai ragazzini. Passammo il resto della serata ascoltando le canzoni di Fabrizio de Andrè, fino a tardi.
La mattina dopo eravamo in ritardo. Acchiappammo a stento la coda del corteo che partiva da Piazza di Spagna. La facoltà di Architettura era presidiata da poche decine di poliziotti, goffi nei loro cappottoni blu lunghi fino ai piedi e con l’elmetto in testa, evidentemente sorpresi dal corteo numeroso. Da parte dei compagni cominciò una fitta sassaiola all’indirizzo dei poliziotti, i quali rispondevano lanciando anche loro le pietre. Da buon neofita delle manifestazioni mi trovai, incosciente, in mezzo al lancio: sentivo le pietre fischiare vicino alla mia testa, avevo paura ma non pensavo a ripararmi. Improvvisamente mi ritrovai di nuovo, non so come, in un gruppo di compagni che era riuscito a raggiungere il portone della facoltà e che spingeva per entrare. Guardando indietro però mi accorsi che eravamo rimasti isolati dal resto dei manifestanti. “Ora ci arrestano tutti” pensai in una frazione di secondo. E invece no, per fortuna. Forse anche loro impauriti, i poliziotti ci fecero scappare senza neanche picchiarci.
Attraversai la strada, correndo. Dall’altra parte della strada c’era una scalinata a gradoni, che terminava in una piazza circolare, circondata da un muro piuttosto alto. Intanto era arrivata la celere. Le camionette salivano all’impazzata su per la scalinata e giravano attorno alla piazza senza incontrare resistenza, ma dall’alto del muro i compagni le bersagliavano con oggetti di ogni sorta. Dal punto di vista “tattico” questa azione fu considerata un successo. Un compagno mi diede una mano per salire sul muro e da lì la via di fuga era aperta attraverso i giardini retrostanti. Mentre tornavo verso la pensione in cui abitavo, nei pressi del Castro Pretorio, mi sentivo felice e invaso da una strana euforia. Passando da Piazza Indipendenza vidi il “Paese Sera”, edizione straordinaria del pomeriggio, che occhieggiava dalla solita edicola con, in prima pagina, un titolo cubitale : “BATTAGLIA A VALLE GIULIA”.
Visconte Grisi