Odio il carcere. Questa è la premessa, questa sarà la conclusione.
Si tratta di un sentimento partorito tanto dalla sfera emotiva quanto da un’analisi razionale, che emerge ancora più vivo nelle ultime settimane di fronte alla vicenda di Alfredo Cospito, che ha acceso i riflettori sul regime detentivo del 41bis e più in generale sul carcere. L’impegno sul tema, particolarmente “caro” all’anarchismo, trova un nuovo stimolo nell’attuale congiuntura storico-politica caratterizzata da crisi, guerra e repressione della conflittualità sociale che conducono naturalmente ad un tentativo di disciplinamento. In questo articolo verranno presentate una serie di riflessioni, proposte nella speranza di alimentare un dibattito più che mai necessario, non solo nei movimenti sociali e nelle organizzazioni politiche ma nella società tutta.
Il carcere inteso in senso moderno, lungi da essere un’istituzione eterna e necessaria, è un’istituzione relativamente giovane, figlia di un sistema socioeconomico che l’ha partorita e che la tiene in vita.
Qui è dove il potere moderno si mostra senza maschere ed esprime tutte le proprie contraddizioni, delle violente antinomie che si manifestano nella quotidianità del sistema penitenziario.
1 . Il carcere come luogo di contraddizione
Il carcere si regge su una continua tensione tra forze opposte.
Uno dei termini di questo paradosso è la coesistenza della dimensione dell’isolamento e del sovraffollamento.
Il carcere isola l’individuo dalla società stessa che ha prodotto il “criminale” e che ora lo rinchiude per curarlo, per concedergli di espiare la propria pena e redimersi agli occhi del sistema. È un sistema “penitenziario”. Lo Stato tramite il carcere esclude, nasconde, criminalizza le soggettività che vivono nella marginalità, senza affrontare realmente le cause della cosiddetta “devianza”.
L’isolamento dalla società si riproduce in scala dentro agli istituti, dove viene applicato anche tra i detenuti, a cui sono concessi solo pochi momenti di socialità controllata. Nei casi più estremi, quelli del “carcere duro” o 41-bis, l’isolamento è più crudele, calcolato per troncare radicalmente i rapporti del detenuto con l’esterno. Nato per contrastare la mafia, il 41-bis è un regime detentivo divenuto un mezzo per condurre delle persecuzioni politiche e rimane una forma di tortura legalizzata a prescindere da chi va a colpire. Il suo metodo è l’annullamento dell’essere umano, l’annichilimento tanto fisico quanto psicologico volto a far crollare e collaborare il detenuto. A tal fine è preposto un reparto speciale della polizia penitenziaria detto G.O.M. (Gruppo Operativo Mobile). Le alte mura del cortile dove i detenuti trascorrono le due ore d’aria giornaliere impediscono di dare orizzontalità allo sguardo; la sorveglianza a vista in cella (1,25m x 2,5m) e durante il colloquio mensile di un’ora (in cui è proibito qualsiasi contatto fisico) priva il detenuto anche della solitudine. Il carcere duro è insieme preventivo, punitivo e dimostrativo.
Il detenuto è dunque isolato, sepolto dietro mura, serrature, sbarre, cemento e metallo; allo stesso tempo è costretto alla convivenza con un asfissiante sovraffollamento che rende ancor più difficile la vita in cella. Il problema è strutturale in senso lato, perché ormai insito nel sistema penitenziario, come in senso materiale, perché legato materialmente alle condizioni pessime di strutture non adeguate alle esigenze di un essere umano.
Questo dato negli ultimi anni ha assunto una crescente rilevanza di fronte all’emergenza climatica che in estate rende invivibili le celle, ma ancor di più di fronte a quella pandemica. A marzo 2020, mentre “v.i.p.” e politici predicavano il “distanziamento sociale” celebrando l’immagine delle famiglie in sicurezza sul proprio divano, nelle carceri (proprio la materializzazione del distanziamento!) migliaia di persone erano esposte – senza mascherine o tamponi – al virus, ammassate ed in continuo contatto con il personale esterno: “Fuori a un metro di distanza, dentro in 8 in una stanza”. Di fronte ad un problema sanitario, la risposta è stata la proibizione dei colloqui. Contemporaneamente le misure di emergenza che hanno rimesso in libertà una piccola percentuale di detenuti sono risultate insufficienti.
Il carcere è contraddittorio come lo sono i luoghi in cui la gerarchia si fa tangibile. L’autorità ricerca per natura una dimensione universale ed assoluta che la legittimi, ma di fatto rappresenta soltanto interessi parziali. Ecco che allora ci appare meno assurdo il carattere fortemente personale assunto da un potere che aspira tramite la legge al raggiungimento della giustizia negli interessi della società tutta. Proprio lì dove il potere si rafforza il linguaggio si riduce alla forza, l’arbitrio si fa legge e si assolutizza, fino a che è la legge stessa a farsi arbitrio: la giustizia della classe dominante si incarna in carcere nel manganello del secondino. Il potere perde di impersonalità, scontrandosi allo stesso tempo con tutta la forza vitale delle persone private della libertà. L’ambita universalità si riduce ad un “individualismo carcerario” che diversifica la reclusione a seconda del carcere in cui si finisce: non esistono due carceri uguali, non esistono due esperienze carcerarie paragonabili.
Il carcere, la massima espressione dell’oppressione, genera rivolta. «La rivolta nasce dallo spettacolo dell’irragionevolezza, davanti a una condizione ingiusta e incomprensibile» diceva Camus. La maggior parte delle volte essa assume le sembianze di un grido individuale e disperato tramite azioni di autolesionismo che arrivano fino al suicidio. In carcere i casi di suicidio sono in proporzione oltre 13 volte in più rispetto alla popolazione libera ed in questo 2022, non ancora terminato, si è raggiunto il numero più alto di sempre: già 74 persone si sono tolte la vita.
Ci sono altri modi per bucare le mura spesse che circondano le celle e cercare di riaffermare la propria dignità di essere umano: quello delle rivolte collettive che esplodono in seguito al rifiuto di subire ed in difesa della propria esistenza. Queste rivolte hanno assunto talvolta delle connotazioni ideologiche ma spesso sono semplicemente frutto dell’istinto dei singoli che si fanno collettività e si riconoscono nel proprio status di detenuto, rifiutandolo e scontrandosi con l’autorità carceraria. La rivolta scoppia quando ci si avvicina al limite della sopportazione, alla dimensione liminare di una crisi. Il 2020, l’anno della pandemia e della stretta disciplinare nelle carceri, vede una clamorosa impennata di rivolte: da 1-2 in media si passa a 23. A queste si affiancano altre azioni di protesta pacifica, come gli scioperi della fame.
Una rivolta in carcere è per sua natura una rivolta disperata e destinata alla repressione: questo non la sminuisce né la esalta, semplicemente la qualifica. Quando nell’aprile 2020 per richiedere tamponi e più comunicazione con l’esterno i detenuti di tutta Italia misero in atto una protesta, il bilancio finale fu di 14 morti e centinaia di massacrati dai pestaggi della polizia. Le immagini di Santa Maria Capua Vetere sono la testimonianza di un’orrenda realtà sistemica.
2 . Repressione, “umanità”, rieducazione
Il carcere è un luogo di contraddizioni che si poggiano su una contraddizione fondante: l’idea secondo cui la negazione della libertà dovrebbe “educare” alla libertà stessa. Questo è il grande paradosso da cui scaturiscono gli altri.
Questo principio mostra la propria fragilità sin dall’elaborazione teorica ma trova una smentita ancora maggiore nella realtà. Il carcere è noto come scuola di crimine, come istituzione che si propone di rimediare ma di fatto è all’origine del reato stesso: i dati sulla presenza di detenuti recidivi (più del 60%) e quelli sul calo della percentuale recidiva in caso di pena espiata in maniera diversa parlano chiaro.
Un’ulteriore incongruenza in merito al principio della “rieducazione” sorge poi dall’analisi dell’ergastolo, dell’ergastolo ostativo e del 41-bis, esempi davvero difficili da giustificare persino per i giustizialisti più convinti.
Secondo la vulgata, in Italia non esistono condanne a vita. Se questa considerazione può essere vera per l’ergastolo, che prevede ipoteticamente l’accesso ai benefici dopo 26 anni di pena scontata, non può dirsi lo stesso per l’ergastolo ostativo: chi è condannato a questa pena non ha nessuna possibilità di accedere ai permessi e ai diritti che spettano ai detenuti. Di fronte a questi esempi ed a quella tortura chiamata “carcere duro”, è naturale porsi delle domande sull’applicazione dell’art. 27 della Costituzione, secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
3 . Carcere, figlio del capitalismo
Un’operazione fondamentale per analizzare e decostruire criticamente il carcere è svincolarlo dalla sua fama di istituzione eterna. Nelle poche righe che seguono si cercherà di dare delle indicazioni riguardo ad alcuni passaggi storici particolarmente significativi, senza la pretesa di essere esaustivi.
Le modificazioni delle modalità repressive si decifrano meglio analizzando lo sviluppo diacronico delle modalità punitive, le quali sono a loro volta strettamente collegate al sistema socioeconomico che le elabora. Ad esempio, nel passaggio dalla pena di morte all’ergastolo (ovvero dalla sottrazione della vita all’appropriazione della vita da parte dello Stato) si racchiude una nuova cultura della punizione. Nel sistema di produzione precapitalistico il carcere come pena non esiste: non è tanto il carcere come istituzione ad essere ignorato dalla realtà feudale, quanto la pena dell’internamento come privazione della libertà. Per la società feudale si può parlare di carcere preventivo o di carcere per debiti, ma non si può affermare l’autonomia della pena prevista con la semplice privazione della libertà per un certo periodo di tempo e senza torture.
La pena medievale conserva la natura di retribuzione ed espiazione, anche se il concetto di equivalenza non è connesso al danno subito dalla vittima del reato, ma all’offesa a Dio. Perché potesse affiorare l’idea della possibilità di espiare il delitto con un quantum di libertà astrattamente predefinito era necessario che tutte le forme della ricchezza venissero ridotte alla forma più semplice ed astratta del lavoro salariato. In presenza, quindi, di un sistema socioeconomico in cui non si è storicizzata l’idea della pena-retribuzione non era possibile trovare nella privazione del tempo l’equivalente del reato.
Questo principio, nell’epoca in questione, trovava una sua applicazione nella privazione di quei beni culturalmente avvertiti come valori: la vita, l’integrità fisica, il denaro, la perdita di status. Nel passaggio da un certo modo di produzione (precapitalistico) ad un altro (capitalistico), durante la fase dell’accumulazione originaria, si pongono le basi di nuovi modelli di sfruttamento lavorativo per tutte quelle fasce di popolazione che avevano abbandonato le campagne e si riversavano nelle città. È proprio in questo periodo che in Inghilterra e Olanda vengono istituiti dei reati per queste masse di contadini senza lavoro, di fatto criminalizzando la povertà in accordo con la dottrina protestante. A partire dalle nuove trasformazioni sociali il protocapitalismo si adopera per la costruzione di strutture con lo scopo di “ospitare” e disciplinare le fasce marginali della società – ovvero la popolazione rurale inurbata – e costringerle al lavoro.
Questi complessi architettonici in cui gli individui erano rinchiusi non si fondavano esclusivamente sulla produzione, quanto sull’insegnamento della disciplina di fabbrica come primo esperimento del binomio reclusione-lavoro. Ed è proprio in queste “case di lavoro” (workhouses), nella prassi concreta delle autorità pubbliche e dei mercanti che nasce il rifiuto della pena di morte e delle punizioni corporali: l’idea che ad un certo reato debba corrispondere un quantum di tempo e che la condizione in carcere debba essere più “umana”.
La saldatura tra il contenuto dell’istituzione e la sua forma legale è rappresentata dal nuovo concetto di lavoro fondato sulla rielaborazione del tempo, la grande scoperta del periodo illuministico. Così, l’esecuzione della pena è legata alla sua forma giuridica allo stesso modo in cui l’autorità in fabbrica garantisce che lo sfruttamento possa assumere l’aspetto di contratto.
4 . Le forme dell’oppressione: galera o galere?
Se il paradigma carcerario è unico, diverse sono le sue aree di applicazione del suo intervento. Sia che si concretizzi nelle diverse istituzioni penitenziarie, nelle istituzioni “assistenziali” (per i minori, per l’infanzia; ecc.), scolastiche, militari, sia che ispiri l’architettura o la geografia urbana dei quartieri, la sua dimensione reale sarà di riprodurre sempre e all’infinito un ordine sociale ingiusto.
Il carcere – in quanto spazio concentrato in cui l’egemonia di classe può svilupparsi in un reticolato di relazioni disciplinari – diventa il simbolo istituzionale dell’anatomia del potere borghese, il luogo privilegiato del nuovo ordine. La pena carceraria appare come il parametro di un radicale mutamento dell’esercizio del potere. Infatti, l’eliminazione dell’altro e la politica del controllo attraverso il terrore si trasforma in azione preventiva, fino all’integrazione del “criminale” nel tessuto sociale. Il fine ultimo del carcere nel riconfermare l’ordine sociale è educare o ri-educare alla disciplina del lavoro salariato l’individuo che minaccia la proprietà altrui.
Parlare oggi di carcere è necessario in solidarietà a tutte quelle persone private della loro libertà, ma è anche importante analizzare l’attuale estensione dei circuiti di disciplina e repressione oltre le mura del carcere, fino a raggiungere strutture molto diverse fra loro. È in questo senso che assume una certa pregnanza il significato di arcipelago penitenziario.
Le istituzioni di disciplina tendono a cancellarsi per costituire un grande continuum carcerario che diffonde le tecniche penitenziarie fino a confini in continua espansione. La metafora dell’arcipelago è volta a richiamare sia la complessità e differenziazione interna del complesso carcerario, sia le differenti connessioni che questo intrattiene con strutture o aree sociali ad esso esterne. Non si può ignorare la profonda relazione che il carcere intrattiene con una vasta serie di istituzioni collocabili nel suo arcipelago con le quale condivide elementi di normatività ed istanze di correzione: un insieme di istituzioni sociali condividono caratteristiche, filosofie e obiettivi che sono volti alla riabilitazione attraverso la valutazione verticale e la costrizione della libertà, della routine e dello spazio fisico dell’individuo.
Nella società attuale, le forme di detenzione e disciplinamento non sono esclusivamente legate a degli spazi architettonici ma vanno oltre le mura del carcere per andarsi ad imprimere sui corpi delle soggettività considerate “non-conformi”.
Una critica al carcere è più che mai necessaria alla comprensione delle nuove e dinamiche forme di sfruttamento, perché il carcere è parte integrante ed espressione radicale della repressione di Stato. Il disciplinamento, lo sfruttamento e la repressione toccano chiunque viva nella nostra società, a maggior ragione chi prova a sviluppare al suo interno un’opposizione reale.
Era la premessa, è la conclusione: odio il carcere.
Romolo Frezzi