Uno dei tanti anniversari di questo anno è quello del 150° dalla prima edizione del Libro primo del “Capitale” di Carlo Marx.
E’ senza dubbio il libro più conosciuto dei tre che compongono il “Capitale”, l’unico di cui Marx ha curato di persona la pubblicazione, correggendolo anzi nelle edizioni successive. Il Libro secondo sarà preparato per la pubblicazione dallo stesso Marx, ma pubblicato dopo la sua morte, mentre il Libro terzo sarà curato dall’amico e mecenate Engels sulla base degli appunti di Marx.
Si tratta quindi di un’opera incompiuta, che si aggiunge ai molti lavori incompiuti o non pubblicati da Marx e da Marx ed Engels. La parabola del “Capitale” simboleggia il tramonto della filosofia come avventura culturale sostanzialmente individuale, attraverso la quale il filosofo elaborava un “sistema”, una visione del mondo più o meno completa. Dopo Hegel, e il suo tentativo di racchiudere la storia del mondo nell’automovimento del pensiero, Marx ed Engels cercano di costruire una visione del mondo che rovesci l’approccio idealistico, una visione del mondo che si basi sull’attività pratico-sensibile degli individui e, a partire da questa, dia ragione dell’evoluzione della struttura economico-sociale, e delle sovrastrutture politiche, culturali, religiose, artistiche.
Quest’opera rimane incompiuta. Negli anni ’70 del secolo scorso, un autorevole studioso marxista italiano ormai dimenticato, Cesare Luporini, affermava eufemisticamente che “il canone del “materialismo storico” è (…) incompleto, ed il suo stesso nucleo dialettico è ancora in attesa di integrazione”. Se tale valutazione del “sistema” marxista è vera, questo non può non avere ripercussioni sulla valutazione dell’opera, “Il Capitale” appunto, che applica il materialismo storico all’analisi di un modo di produzione.
Sarebbe troppo facile prendersela con Marx per i risultati fallimentari di chi ha preteso di ispirarsi a lui. Se questo può essere corretto per le indicazioni politiche di Marx ed Engels, non è sufficiente per fare i conti con le sue elaborazioni teoriche, per dar ragione del fascino che ancora esse esercitano su molti. “Il Capitale” è un’applicazione delle teorie del materialismo storico alla critica dell’economia politica dei tempi. Secondo queste teorie, è possibile, partendo dall’idea che una società ha di sé stessa, attraverso la critica di queste idee, risalire ai rapporti sociali che le hanno generate. E’ quello che fa Marx, destrutturando i principali canoni dell’economia politica, svelando la sua natura di classe e quei rapporti di dominio che nella società capitalistica hanno la forma di rapporti di sfruttamento. Le categorie dell’economia politica, la merce, il denaro, il salario, il profitto, la rendita si sgretolano sotto la critica di Marx. La critica teorica è un potente strumento nell’immaginario dei militanti più radicali: la comprensione dei fenomeni sociali è il primo passo per la possibilità di trasformarli, o almeno può dare l’illusione di farlo.
La critica di Marx si basa sulla critica che i comunisti e i socialisti prima di lui, in primo luogo Proudhon, avevano fatto dei vari aspetti del capitalismo, e soprattutto sulla critica pratica che il nascente movimento di massa dei lavoratori faceva del funzionamento concreto del modo di produzione capitalistico. Rispetto agli autori socialisti che lo avevano preceduto, Marx riesce a ricostruire più in profondità i rapporti sociali che stanno al di sotto dei fenomeni, dei fatti a cui spesso si ferma la critica moralistica del capitalismo; la ricostruzione di questo nesso, e non la semplice descrizione positivistica dei fatti, è per Marx il senso della critica rivoluzionaria. Questo processo è esemplificato nell’ultimo paragrafo del primo capitolo del libro primo del Capitale, “Il carattere di feticcio della merce e il suo arcano”, ma si ripropone per ogni categoria: il salario, il profitto, la rendita, l’interesse, fino ad arrivare alla critica della formula trinitaria che eternizza la ripartizione del reddito in salario, profitto e rendita, avviando la definizione di criteri specifici per l’ identificazione della classi sociali.
Per questa ragione, fin dal suo apparire, il “Capitale” è stato definito la Bibbia della classe operaia, ed ha esercitato un notevole fascino anche fra gli anarchici, tanto che Bakunin si era impegnato a farne una traduzione in russo, e Carlo Cafiero ne ha fatto un compendio ancora attuale ed apprezzato dallo stesso Marx. Agli occhi delle masse affascinate dal sol dell’avvenire, il “Capitale” mutuava dalla Bibbia anche il carattere di rivelazione, di verità indiscutibile, visto che la forma inevitabilmente astrusa ne garantiva il carattere scientifico.
Se questo è il contenuto del “Capitale”, e se questa è la ragione del fascino che ancora esercita, non possiamo nasconderci le contraddizioni interne di questo lavoro.
In un articolo pubblicato su Umanità Nova dello scorso anno, “I due Marx”, mettevo in luce una falla dell’opera, legata alle cause antagonistiche della caduta del saggio di profitto, e precisamente individuata nella riduzione del prezzo della forza lavoro al di sotto del proprio valore, questione che Marx esclude dalla sua trattazione pur considerandola la principale causa antagonistica della caduta del saggio di profitto. Parlando di riduzione del prezzo della forza lavoro al di sotto del proprio valore, Marx non fa riferimento alle oscillazioni derivanti dal ciclo economico e legate all’espansione o contrazione dell’esercito industriale di riserva, ma fa riferimento all’intervento dispotico del governo nel mercato del lavoro. Marx parla di questa riduzione in un altro passo, e precisamente nel capitolo XXIV del Libro primo, quello che tratta della cosiddetta accumulazione originaria, parlando delle leggi che, dal quattordicesimo secolo alla prima metà del diciannovesimo, in Inghilterra, permettevano l’abbassamento dei salari e impedivano le coalizioni degli operai per conquistare migliori condizioni. Ebbene, parlando di queste leggi e della loro fine, Marx in un primo passo sostiene che nel 1813 vennero abolite le leggi sulla regolamentazione dei salari: esse erano un’anomalia ridicola, da quando il capitalista regolava la fabbrica con la sua legislazione privata e faceva integrare con la tassa dei poveri il salario dell’operaio agricolo fino al minimo indispensabile. In un passo successivo, parlando delle leggi contro le coalizioni operaie, sostiene che tali leggi sono cadute nel 1825 di fronte all’atteggiamento minaccioso del proletariato. Quale può essere la spiegazione di questo atteggiamento contraddittorio di Marx?
Una spiegazione può essere trovata nella finalità politica che Marx sperava di raggiungere con questo suo lavoro di critica dell’economia capitalistica. Marx si era dedicato, dalla fine del ciclo rivoluzionario del 1848, ad approfondire le sue conoscenze di economia e, nel 1859, aveva pubblicato un primo lavoro, “Per la critica dell’economia politica”, che anticipa i primi capitoli del Capitale. Nel luglio dello stesso anno sollecita con una lettera l’amico Engels a recensire il libro sul Volk, una rivista radicale tedesca. Marx dà ad Engels due rapidi suggerimenti sugli argomenti da trattare, mettendo in evidenza che nel proprio lavoro: 1. il proudhonismo è stroncato alla radice, 2. il carattere specificamente sociale e niente affatto assoluto della produzione borghese è analizzato subito, nella sua forma più semplice, quella di merce.
Proudhon è la bestia nera di Marx, in parte per quello che sostengono i proudhoniani, ma soprattutto per l’alternativa politica rappresentata da Proudhon, per il rifiuto di riconoscere nella conquista del potere politico la strada dell’emancipazione della classe operaia. A questo scopo, allo scopo di stroncare alla radice il pensiero libertario di Proudhon, Marx dedica un centinaio di pagine dei Grundrisse, il corposo manoscritto che ha fatto da base al Capitale, alla teoria proudoniana del denaro-lavoro. Nel Capitale, oltre agli specifici riferimenti all’autore francese, Marx dedica la parte finale del capitolo VIII, quello sulla giornata lavorativa, all’esposizione della sua concezione dell’azione politica del proletariato, sostenendo che solo l’adozione di leggi coercitive aveva portato alla riduzione della giornata lavorativa.
Quindi il quadro politico di riferimento in cui si muove la critica del “Capitale” rimane quello del Manifesto, la conquista del potere politico per mezzo del suffragio universale, ed a questo quadro politico devono piegarsi anche le elaborazioni teoriche. Per questo viene dato cosi ampio spazio alla lotta per la riduzione della giornata lavorativa, per questo vengono espunti, o quanto meno depotenziati, gli aspetti che danno dello Stato l’immagine di un apparato di classe, che i proletari devono abbattere e non conquistare.
Certo l’idea dell’abbattimento dello Stato per mezzo dell’insurrezione popolare era lontana dalla concezione di Proudhon, ma erano altrettanto e forse più lontane quelle della conquista del potere politico, della militarizzazione dei lavoratori dell’industria e dell’agricoltura, e tanti altri obiettivi prospettati nel Manifesto. Ma Proudhon non era soltanto uno dei tanti pensatori socialisti, aveva un ascendente sui lavoratori in Francia, e anche al di là della Manica e in Germania, ascendente che per Marx doveva essere stroncato alla radice, per permettere l’affermazione del comunismo autoritario.
Non si tratta quindi di immaginarsi un inesistente Marx libertario: a centocinquant’anni dalla pubblicazione del Capitale si tratta di riprendere la critica della società borghese e delle sue ideologie, basandosi sulla letteratura socialista prima e dopo Marx, sulle esperienze concrete con cui il movimento operaio ha messo in discussione le categorie del capitalismo, sulle innegabili capacità di critica di Marx, ma sostituendo all’esegesi di un solo pensatore il lavoro collettivo che metta in discussione l’illusione della via legalitaria, elettoralista, riformista e autoritaria al socialismo. Come sta già facendo la maggior parte degli sfruttati in tutto il mondo.
Tiziano Antonelli