Gli anarchici si interessano del referendum istituzionale?
Domenica 20 e lunedì 21 settembre si terrà il referendum confermativo del taglio dei parlamentari previsto dalla riforma costituzionale approvata recentemente dal parlamento. Il referendum è stato indetto dal Consiglio dei Ministri, visto il riconoscimento di ammissibilità dato dalla Corte costituzionale.
Di fronte a questo evento, negli ambienti anarchici è diffuso la convinzione che si tratti di un regolamento di conti all’interno della classe dominante e che quindi non valga la pena occuparsene. Si tratta di un riflesso dell’atteggiamento di disinteresse che coinvolge gran parte delle classi sfruttate del nostro paese.
In realtà non c’è nessuna ragione per cui il movimento anarchico non debba esprimersi su questo tema. Noi vogliamo che gli sfruttati, i proletari, acquistino coscienza della propria condizione e, lottando contro gli arbitri e i soprusi del governo, si rendano conto che il governo è un’istituzione dannosa, cominciando ad operare concretamente per la sua distruzione.
Questo scopo sarebbe raggiunto già da tempo, se i proletari potessero liberamente riflettere sulla propria esperienza e potessero altrettanto liberamente scegliere la via più efficace da prendere per la trasformazione sociale.
In realtà così non è. Lasciamo da parte la condizione di subordinazione in cui gli sfruttati si trovano di fronte ai proprietari dei mezzi di produzione, che li riduce ad accessori viventi di un processo di produzione da cui non traggono alcun beneficio, il Governo ha a disposizione, da una parte, gli strumenti della repressione per colpire i settori più combattivi e, dall’altra, ha a disposizione l’intero arco delle forze parlamentari (e di quelle che aspirano ad entrarvi) per distrarre dalla lotta e additare percorsi più facili per raggiungere gli stessi obiettivi. Uno di questi temi è appunto il referendum di settembre che, anche se non scalda la grande massa degli sfruttati, riesce a distrarre parte delle avanguardie di classe e perfino alcuni anarchici.
Un esempio del ragionamento sviluppato da questi settori è evidenziato dalla presa di posizione dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia che, invitando a votare No al referendum, sostiene che il taglio dei parlamentari è motivata solo dall’attacco qualunquista alle “poltrone” e alla “casta”, trasforma il parlamento in uno strumento marginale, invitando infine a non sprecare le conquiste di democrazia e libertà donateci dalla Resistenza.
La buona e la cattiva democrazia
Dispiace che queste parole l’ANPI non le abbia usate quando è stata approvata la legge che limita la libertà di sciopero, quella che limita la libertà di organizzazione sindacale o le innumerevoli norme che colpiscono le varie forme di opposizione sociale, approvate dai vari governi; le più recenti i decreti Minniti-Orlando ed i decreti Salvini.
Questa presa di posizione nasconde la vera questione della rappresentanza democratica, che è falsata dal ruolo delle segreterie dei partiti nella formazione delle liste elettorali. Siccome sono le segreterie a formare le liste bloccate, gli eletti si sentono responsabili verso queste e non verso gli elettori.
Un altro esempio dell’evoluzione della democrazia in senso autoritario è dato dall’uso spropositato della decretazione di urgenza, che ha progressivamente spostato il potere legislativo dal Parlamento al governo.
Questa situazione è giustificata dall’enfasi che le forze politiche, gli organi di informazione, gli studiosi di temi politici e costituzionali danno alla questione della “governabilità”, anziché a quella della “rappresentatività” e del controllo che gli eletti dovrebbero svolgere sulle attività di governo.
La riforma costituzionale quindi non apre le porte allo stravolgimento della “Costituzione più bella del mondo” ma ne è solo una conseguenza. Esistono cause sociali ed economiche che provocano questa trasformazione: la concentrazione del potere economico ha come conseguenza la concentrazione del potere politico; la crisi senza fine del modo di produzione capitalistico fa sì che si viva in una fase di permanente emergenza, la quale giustifica l’azione del governo per la “ripresa economica” cioè per lo spostamento di quote di reddito dalle varie forme di salario al profitto, l’impossibilità di coinvolgere le classi sfruttate in una qualche forma di cointeressanza alla sopravvivenza del sistema, come è successo negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, fa sì che queste stesse classi non possano avere rappresentati autonomi nelle istituzioni.
Contrariamente a quanto afferma l’ANPI e le altre vestali della Costituzione, la rappresentanza non è una questione numerica ma sociale. Dietro al problema della rappresentanza proporzionale dei vari territori c’è il problema della rappresentanza delle varie classi sociali, in particolare delle classi sfruttate.
Il politico liberale o democratico vede solo degli elettori; chi critica l’attuale organizzazione sociale vede sfruttati e sfruttatori, gruppi d’interesse diversi, la burocrazia statale, il potere militare e religioso che lottano per spartirsi la torta prodotta dalla classe operaia. Ognuno di questi gruppi è rappresentato da un partito o da una corrente; solo gli sfruttati non hanno una rappresentanza autonoma in parlamento. Se guardiamo la geografia dei gruppi parlamentari, vediamo con chiarezza che la classe operaia, che tutto produce, non ha alcun rappresentante. Dietro la nostalgia verso certe forme superate dei rituali politici, c’è la nostalgia della presenza dei rappresentanti degli operai e dei contadini che contendevano ai partiti borghesi la guida del paese.
La classe operaia non può essere rappresentata nelle istituzioni borghesi
La lotta apparente tra i partiti borghesi ed i partiti operai, che è stata tanta parte della storia politica dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale, era solo una sceneggiata che aveva per scopo illudere i diseredati che attraverso le elezioni, prima o poi, avrebbero cambiato le proprie condizioni di vita. La scomparsa dei grandi partiti operai è la dimostrazione evidente che la via democratica è un vicolo cieco.
C’è che dice che questa scomparsa è la dimostrazione che la classe operaia non esiste più. L’andamento della recente epidemia dimostra che quando la classe operaia si muove, come quando ha imposto con gli scioperi spontanei una chiusura parziale e tardiva delle attività produttive, riesce a piegare i governi più autoritari.
Certo, se i referendari non si limitassero a invitare a depositare una scheda nell’urna ma dessero vita a un movimento dal basso contro la deriva autoritaria, le cose cambierebbero. Ma non è più il luglio ’60, e vedere le vestali della Costituzione scontrarsi con la polizia è tanto probabile quanto vedere un ciuco volare.
Tiziano Antonelli