Un messaggio pubblicitario può funzionare bene sia che venga presentato in modo tradizionale sia in modo più creativo; lo stesso vale per i messaggi di propaganda ideologica che possono incitare direttamente a un comportamento (“vota Antonio”) o, più genericamente, all’adozione di determinate modalità di pensiero.
Il film Il diritto di uccidere, uscito in agosto e definito nella pubblicità come un “thriller” è con ogni evidenza un’opera di propaganda, una di quelle che portano acqua al mulino degli Stati e delle loro guerre. In uno stile chiaro e lineare racconta di una operazione militare “coperta” gestita dai servizi segreti britannici che, nel corso della storia, mette i protagonisti davanti a un tragico dilemma: è meglio uccidere “poche” persone per bloccare due terroristi suicidi o rischiare che ne vengano uccise “molte di più” lasciandoli andare?
Situazioni nelle quali una azione compiuta oggi viene motivata con un vantaggio futuro non sono una novità e più volte sono servite a giustificare piccole e grandi cose: si pensi alla pratica del “waterboarding” applicata sui prigionieri per estorcergli informazioni “utili per salvare vite umane” o al lancio delle due bombe atomiche sul Giappone presentato come un modo per “far finire prima la guerra” e quindi per diminuire il numero delle potenziali vittime provocate da un prolungamento del conflitto.
L’uso di questo genere di pseudo alternative non è dunque nuovo e, in molti casi, queste si dimostrano chiaramente fallaci già in partenza. In primo luogo, in determinate situazioni le scelte tra diversi comportamenti non causano necessariamente problemi di tipo “morale”: se una persona può scegliere solo due gusti di gelato la sua scelta sarà limitata da quelli a disposizione nella gelateria. Nella vita reale possiamo però decidere di non scegliere, rinunciando al gelato (se il gusto che ci piace non c’è) oppure andare in un’altra gelateria. Le cose si complicano quando invece si tratta di vita o di morte. Stanno affogando, contemporaneamente, tua moglie e tua figlia e tu puoi salvare solamente una di loro. Chi scegli di salvare? E se ad affogare fosse tuo marito e tuo fratello? Tua madre e tuo padre? Sebbene si continuino a presentare esempi del genere per studiare i meccanismi di scelte tra alternative in questi casi non esiste mai una risposta “giusta” e una “sbagliata”, una scelta “migliore” e una “peggiore” a meno che non si tratti di situazioni davvero particolari.
Così nel film l’alternativa che si presenta è tra uccidere sicuramente una mezza dozzina di terroristi e inevitabilmente anche vittime innocenti considerate “danni collaterali”, oppure lasciare andare gli aspiranti suicidi e quindi provocare, probabilmente, danni maggiori. Per rendere ancora più emotivamente coinvolgente la scelta lo sceneggiatore ha pensato bene di mettere tra i possibili morti anche una bambina, naturalmente proveniente da una famiglia povera e islamica, ma - casualmente e spudoratamente - non fondamentalista.
Ma il film è anche altro, il titolo originale Eye in the sky (Occhio nel cielo), descrive uno degli aspetti predominanti della storia, vale a dire quello della guerra tecnologica: droni, telecamere miniaturizzate, programmi per il riconoscimento, comandi a distanza e tutto quell’apparato informatico che negli ultimi venti anni è diventato essenziale nelle guerre moderne.
Anche il titolo originale della sceneggiatura, Kill chain, suggerisce un altro aspetto importante nel film, vale a dire la “catena di comando” che entra in funzione in una situazione come quella raccontata. Una emergenza nella quale vengono coinvolte persone di nazioni e paesi diversi, distribuite in mezzo mondo e con poteri e ruoli differenti: magistrati, segretari di stato, ministri, e semplici militari. La catena di comando, così come viene descritta, fornisce l’impressione che in una situazione del genere ci siano molte persone coinvolte e che le responsabilità siano quindi condivise e non accentrate. Vero o meno che sia, questo genere di rappresentazione serve chiaramente a tranquillizzare gli ingenui che potrebbero preoccuparsi sapendo che la decisione, tra chi deve vivere e chi deve morire, viene demandata a un unico “super potere”.
Quello che manca totalmente nel film, che altrimenti non potrebbe essere definito di mera propaganda psicologica a favore degli Stati, delle Religioni e delle loro guerra, è un qualsiasi momento di riflessione, una qualsiasi incrinatura nel lavoro di chi svolge il suo piccolo o grande ruolo di semplice ingranaggio nella macchina della guerra moderna. Ci sono naturalmente attimi nei quali i personaggi esprimono dei dubbi che qualcuno potrebbe definire “etici”, ma sono molto brevi in quanto poi prende sempre il sopravvento la necessità di giocare il ruolo che a ognuno compete. Che sia di quello che ha dei dubbi prima di premere il pulsante per lanciare i missili, di quello che pilota il drone o di quello che “aggiusta” la statistica della probabile percentuale di “morti collaterali” a seconda degli ordini ricevuti. Nulla di nuovo rispetto ai macellai di ogni tempo e luogo che hanno sempre dichiarato di “aver solo obbedito agli ordini”. L’unica differenza è che adesso, dopo aver “compiuto il loro dovere”, non devono neppure lavare le divise sporche di sangue, ma solo andare a casa a riposare perché sono stati troppo tempo davanti a un monitor.
Pepsy