La tortura come relazione di potere

Questa volta dobbiamo proprio ringraziare Renzi per avere chiarito, senza ombra di dubbio, quali siano i supremi valori dello Stato; a fronte di una condanna per tortura emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per violazione dell’articolo 3 della convenzione europea dei diritti umani per i fatti della Diaz, Genova 2001, Renzi ha riconfermato piena fiducia al capo della polizia di allora, Gianni De Gennaro arrivato, dopo una carriera in ascesa, a ricoprire il ruolo di presidente di Finmeccanica, nonostante che l’operato delle forze di polizia che lui comandava “deve essere qualificato come tortura”.
Ora, da che mondo è mondo, il capo di una qualsivoglia struttura è il responsabile della stessa; l’assolverlo da ogni schifezza che tale struttura possa aver compiuto, vuol dire che è lo Stato, in toto, a farsi carico della schifezza in questione. In aggiunta c’è da dire che De Gennaro è sempre stato uomo gradito alle amministrazioni USA, oltrechè ai partiti di centrodestra e di centrosinistra, e non è certo un caso che si ritrovi oggi a capo di Finmeccanica che è il primo gruppo industriale italiano nel settore dell’alta tecnologia e tra i primi gruppi mondiali nei sistemi di difesa/offesa, nell’aerospazio e nella sicurezza.
Non avevamo bisogno dei giudici di Strasburgo per sapere quella che è la scoperta dell’acqua calda: lo Stato non condanna mai se stesso e se oggi siamo di fronte ad un pronunciamento giuridico sovranazionale esso è dovuto al semplice fatto che lo Stato italiano, pur avendo aderito alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, non si è mai preoccupato di dare una veste legislativa a tale adesione, adeguando i suoi codici a quello che l’integrazione a livello europeo richiede.
D’altronde lo Stato ha il monopolio esclusivo della violenza, e lo ha esercitato e lo esercita nei modi che ben sappiamo. Come sappiamo che anche la sentenza di Strasburgo, emessa dopo ben 14 anni dai fatti, rappresenta, né più né meno, che uno specchietto per le allodole per le anime belle sempre alla ricerca di motivi per aver fiducia nel sistema democratico.
A Genova nel 2001 l’attacco contro il movimento fu pianificato e realizzato dalle forze di polizia italiane in concorso con i servizi segreti degli Otto ‘grandi’ (e probabilmente non solo). Le botte, le torture, i trattamenti umilianti e degradanti, in piazza, come alla Diaz e a Bolzaneto, finanche la morte di Carlo Giuliani, non furono ‘eccezioni’, dovute ai nervi tesi dei militi, provocati – come fu ampiamente contrabbandato dai media di regime – dai danni a banche e negozi da parte di settori di manifestanti; ma furono il frutto di una strategia di annichilimento e di terrore, tesa a mettere la parola fine ad un movimento che da Seattle (1999), Washington (aprile 2000), Praga (settembre 2000), Montreal (ottobre 2000), Nizza (dicembre 2000), Davos (gennaio 2001), Napoli (marzo 2001), Quebec (aprile 2001), Gotenborg (giugno 2001), era in un progressivo crescendo di lotta, di contestazione radicale e di proposta.
A Genova nel luglio del 2001 si verificò quella che anche organizzazioni riformiste come Amnesty International definirono “la più grande sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dalla Seconda guerra mondiale”; oggi la Corte di Strasburgo ci dice che a corredo di tale sospensione, le forze di polizia operarono praticando di fatto la tortura e ogni altra procedura che, anche non solo attraverso le lesioni fisiche, si è tradotta comunque in trattamento degradante e umiliante.
Risultato cercato e voluto: il riflusso e la dispersione in mille rivoli di quel grande movimento anticapitalista che stava rappresentando una nuova e significativa offensiva contro il sistema di sfruttamento e di potere esistente. Riflusso e dispersione, favoriti anche dall’illusione, democraticistica e riformista, che la battaglia si sarebbe potuta riprendere dopo avere avuto giustizia nelle aule dei tribunali.

L’indignarsi – in realtà blando, oltrechè tardivo – delle anime belle per quanto hanno fatto a Genova i solerti militi appare oggi assolutamente ipocrita perché non tiene conto di un fatto banale: qualsiasi forma di Potere, quando si sente minacciato, ricorre ad ogni forma di oppressione e di violenza per garantirsi la continuità. Da noi sono le storie degli anni ’60 e ’70 a confermarcelo con le stragi, le leggi eccezionali e le vicende di tortura che trapelano nei ricordi dei protagonisti; sono le morti in carcere, nelle camere di sicurezza o nei manicomi giudiziari. Negli USA è Obama ad aver riconosciuto che le truppe hanno praticato la tortura in Irak e dintorni, per non parlare di Guantanamo, con i risultati che ben conosciamo. E si potrebbe continuare passando in rassegna le pratiche in vigore nei paesi della UE, dotati sì di legislazioni che prevedono il reato di tortura, ma anche di escamotage in grado di bypassarle.
Nei giorni scorsi la Camera italiana, sull’onda della sentenza di Strasburgo, ha approvato il disegno di legge che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano; ma quale legge e quale tortura?
Verrebbe infatti considerata tortura ogni atto umiliante e degradante compiuto da chi esercita genericamente un rapporto di autorità, come può essere quello della relazione padre-figlio o insegnante-scolaro. Pur di non toccare la condizione di monopolio dell’uso della violenza, proprio delle forze di polizia, si è allargato il tema della tortura a tutti i rapporti umani, rendendo la legge difficilmente applicabile. Insomma si è cercata una pezza per soddisfare il richiamo di facciata della Corte di Strasburgo e per lasciare inalterato l’arbitrio di polizia.
E di questo un partito come il PD, discendente in gran parte da quel PCI che chiedeva il disarmo delle forze di polizia, ne va oggi fiero. Quando si dice che il potere corrompe…
Massimo Varengo

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