Nella narrazione squisitamente antropocentrica del conflitto in terra di Palestina, viene ignorato o perlopiù solo accennato un aspetto cruciale che trascende confini geografici e politici: l’impatto ambientale.
La devastazione condotta dall’esercito israeliano non si limita alle perdite umane e materiali e all’indicibile sofferenza di cui abbiamo contezza tutti i giorni ma si estende ad una dimensione globale che incide profondamente sull’equilibrio climatico del nostro pianeta; diversi istituti di ricerca ambientale, climatologi e professionisti indipendenti hanno pubblicato dati relativi ai primi mesi del conflitto già di per sé spaventosi che vanno moltiplicati per il restante periodo non essendo mai diminuita la criminale attività genocida dell’IDF; nei primi due mesi di conflitto le emissioni di gas serra generate dalle operazioni militari hanno superato l’impronta carbonica annuale di oltre 20 nazioni vulnerabili al cambiamento climatico. Un’analisi dettagliata mostra che la maggior parte di queste emissioni, quantificate in 281 mila tonnellate di CO2 equivalenti, pari alla combustione di almeno 150.000 tonnellate di carbone, derivano dall’offensiva aerea e terrestre israeliana su Gaza. Oltre alle emissioni di CO2 il conflitto ha lasciato profonde ferite nell’ecosistema di Gaza:
– secondo il monitoraggio di Euromed Human Right monitor, nei primi cinque mesi del conflitto, Israele ha sganciato 25.000 tonnellate di bombe, un quantitativo in grado di sprigionare l’equivalente di energia rilasciato da due bombe atomiche, questo ha avuto un impatto devastante sull’ambiente, con esperti che segnalano una grave contaminazione del suolo e un significativo deterioramento della qualità dell’aria;
-la distruzione di infrastrutture idriche e di trattamento dei rifiuti ha acuito la crisi ambientale con effetti diretti sulla salute pubblica come evidenziato dall’aumento di malattie respiratorie acute e patologie legate all’inquinamento;
-la crisi dei rifiuti a Kan Yunis, dove l’accumulo di rifiuti solidi è aumentato da 150 a oltre 450 tonnellate giornaliere.
Sebbene siano i palestinesi di Gaza ad affrontare la minaccia più grave è l’intero territorio tra il fiume Giordano e il Mediterraneo ad essere compromesso, un unico ecosistema in cui salute ed ambiente sono interconnessi in un fragile equilibrio (ciò è risultato particolarmente evidente con la recente scoperta del virus della poliomielite nelle acque reflue di Gaza).
Da un recente rapporto dell’agenzia per la protezione ambientale delle Nazioni Unite, pubblicato a giugno, emergono dati raccapriccianti da rilevazioni satellitari e stimano che le bombe abbiano distrutto il 37% delle abitazioni e ne abbiano danneggiate gravemente il 27%, producendo 39 milioni di tonnellate di detriti di varia natura con un gravissimo inquinamento di terreni e acque.
Le macerie contengono sostanze pericolose, ordigni inesplosi, rifiuti di ogni genere, amianto, polveri che comportano rischi per la salute umana, che più si protrarranno nel tempo e più produrranno gravi danni all’ambiente; a seguito della chiusura o della distruzione degli impianti di trattamento delle acque reflue, le acque non depurate, che contengono agenti patogeni e sostanze chimiche pericolose, inquinano i terreni e le spiagge dove cercano di sopravvivere oltre 2 milioni di palestinesi; acque e terreni sono contaminati anche dai metalli pesanti che sono nei pannelli solari distrutti e nelle numerose sostanze chimiche contenute nelle munizioni esplose.
Il sistema di gestione dei rifiuti è collassato, l’aria è valutata gravemente inquinata dagli incendi delle combustioni a cielo aperto di legno plastica e rifiuti; in questo quadro aumentano a dismisura i rischi di ogni tipo di malattia che siano acute, croniche, infettive, assai difficili da prevedere.
L’ambiente della striscia di Gaza era già in condizioni difficili prima del 7 ottobre con una forte pressione sugli ecosistemi a causa dell’alta densità di popolazione e di conflitti ricorrenti; nella condizione di deprivazione socio-economica in un’area vulnerabile, le distruzioni recenti in corso hanno praticamente annullato tutti gli sforzi fatti per migliorare i sistemi di gestione ambientale.
Ci vorranno decenni per tornare ad una condizione di vita degna ed accettabile.
Durante la Cop 28 (ovvero, la conferenza ONU sui cambiamenti climatici svoltasi lo scorso inverno a Dubai), l’impatto delle attività militari in generale sull’ambiente è stato il grande assente. In quell’occasione la delegazione israeliana ha ribadito il suo contributo presentando soluzioni innovative per la cattura e lo stoccaggio della CO2, per la raccolta dell’acqua o, ancora, alternative vegetali alla carne; nulla del conflitto in corso e delle attività militari che in questi anni hanno determinato impatti climatici è stato affrontato (è inoltre risaputo come l’esercito più morale del mondo si vanti di tener conto delle scelte vegane dei soldati e delle soldatesse, procurando loro cibo e abbigliamento di derivazione non animale).
Nella distopia realizzata che ci sovrasta, dove la guerra è pace – l’ignoranza è forza – la libertà è schiavitù, la menzogna e l’ipocrisia sono ormai normali pratiche nell’esercizio del potere.
Il greenwashing esercitato dai governi dei paesi tecnologicamente sviluppati che si ergono a moralisti esportatori di democrazia è rivoltante, nessun ecosistema è risparmiato dalle conseguenze dirette e indirette dalla distruzione bellica. Oltre alle enormi perdite umane dirette, gli effetti sulla salute oggi visibili sono solo la punta dell’iceberg e ciò che accadrà in seguito è solo approssimativamente stimabile in assenza di un ritorno alla pace, una pace che non potrà realizzarsi senza l’affermazione e consolidamento di una società più giusta e uguale, con parità di diritti e dignità per tutti i popoli, valori che purtroppo, spesso, non possono essere conseguiti tramite convegni o dichiarazioni di principio ma che vanno conquistati a costo di tanti sacrifici e sofferenze.
A fianco dei popoli che lottano contro il turbo capitalismo patriarcale/colonialista, prima di tutto l’ecosistema, perché la Palestina e il Libano sono le persone, la terra, gli animali, le piante…sono lo spirito resiliente e resistente di chi rifiuta di soccombere all’occupante.
Palestina libera, Mondo libero.
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Fonti: