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Finchè tutti saranno liberi

Finchè tutti saranno liberi

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L’articolo che segue, data la sua lunghezza, verrà pubblicato in due puntate nei numeri 2 e 3 di Umanità Nova in versione cartacea. Qui sotto invece viene messo in forma integrale.
La redazione web
Se le donne di colore fossero libere, significherebbe che chiunque altro dovrebbe esserlo, dato che la nostra libertà richiederebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione. [The Combahee River Collective]
Siamo tutte femministe, unite nel riconoscere che la subordinazione delle donne esiste. La nostra battaglia deve essere combattuta fianco a fianco con le altre lotte contro tutte le forme di oppressione. (…) Siamo tutte anarchiche, unite nella nostra convinzione della necessità di creare alternative a questa società capitalistica e patriarcale in cui tutte siamo dominate e sfruttate. [Gruppo Anarco-Femminista Rivoluzionario di Dublino]
Tra gli attivisti c’è una crescente determinazione nel riconoscere che abbiamo bisogno di interconnettere tra di loro le nostre lotte se vogliamo sfruttare al meglio il potere collettivo necessario a permetterci di superare i sistemi di incastro del dominio. Come ha scritto Francesca Mastrangelo in un editoriale per The Feminist Wire, dobbiamo iniziare a “riconoscere che la nostra liberazione è legata alla liberazione di ogni essere umano”.[1] O, nelle parole della sindacalista Ai-Jen Poo, “Il nostro modo di pensare e il modo in cui funziona il mondo ci dicono che siamo tutti interdipendenti ed interconnessi (…). Per la maggior parte del tempo queste connessioni sono quasi invisibili alla maggior parte delle persone. Ci viene insegnato a non vedere le connessioni”.[2]
In parte questo sentimento – il bisogno di riconoscere che “tutti singolarmente” siamo un unico “noi” – ci parla dei tempi in cui viviamo. Dal periodo d’oro del movimento anti-globalizzazione, dal finire degli anni ’90 ai primi anni 2000, le critiche al capitalismo globalizzato e al neoliberismo sono state un fil rouge che ha attraversato i movimenti. Successivamente tali critiche hanno ripreso forza sulla scia della crisi finanziaria del 2008-9 e della diffusione delle politiche di austerità che hanno arricchito le grandi imprese, le banche e i detentori del potere, a discapito di chiunque altro. Differenze che le disuguaglianze economiche e le tendenze alle aziendalizzazioni continuano ad accrescere. Di conseguenza non sorprende che via sia un senso di comunanza tra le lotte che induce a portare attacchi anticapitalisti congiunti.
C’è anche un’atmosfera di urgenza acuta all’interno dei movimenti recenti, ora che ci pare di avere raggiunto un punto di rottura su numerosi fronti. L’impatto deleterio dei cambiamenti climatici ed i disastri meteorologici stanno diventando sempre più la norma. Il fascismo pare avere rialzato la sua fetida testa dapprima in Europa ed ora anche qui in America, con l’aumento di popolarità di Trump. La gente di colore e transessuale affronta quotidianamente le istanze di oppressione sistematica, la possibilità di subire violenza e di morire. Quindi l’iniziare a pensare di “essere tutti sulla stessa barca” ed il bisogno di trovare metodi di cooperazione per contrastare il collasso sociale e
climatico ed i rischi derivanti dalla finanza potrebbero anche contribuire all’unione delle varie lotte.
Eppure, oltre al momento storico che stiamo vivendo, c’è un’altra ragione per cui gli attivisti dovrebbero pensare di intrecciare i loro sforzi, cioè l’importanza del femminismo nero nel pensiero militante contemporaneo. Infatti, mentre Jo Reger ha fatto notare che il femminismo è ovunque ed è “entrato a far parte dei riferimenti culturali e normativi della vita comune” e che “è come il fluoruro, semplicemente nell’acqua”, è altrettanto vero che il femminismo nero in particolare è importante per l’attuale movimento in quanto evidenzia l’interconnessione delle oppressioni.[3]
Sembra anche che le analisi del femminismo nero abbiano una profonda somiglianza con i concetti anarchici dei meccanismi di potere, dato che entrambi mettono in rilievo i collegamenti tra tutti i sistemi di dominio. Ed è importante notare questo fatto, in modo che l’impatto del femminismo nero sull’anarchismo contemporaneo non possa essere trascurato. Questa diffusione attraverso le due scuole di pensiero riveste un’importanza notevole perché può essere proprio l’unione tra il femminismo nero e l’anarchismo la chiave di volta per incoraggiare un cambio di paradigma che porti da una serie di lotte frammentate ad un idea di battaglie interdipendenti tra loro. E, soprattutto in virtù del peso sempre crescente della componente anarchica nelle mobilitazioni a partire dalla difesa della rivolta zapatista del 1994, sembra più che plausibile che la confluenza di queste due correnti di pensiero possa avere un forte impatto combinato sulla cultura e la prassi politica del pensiero radicale.
Indipendentemente dalle situazioni specifiche, il concetto di oppressione interconnessa contiene in sé un potenziale realmente rivoluzionario. Nel sottolineare le connessioni esistenti tra tutte le forme di dominio, si verrebbero a creare movimenti più forti che sarebbero in grado di imbastire con successo le sfide al sistema di oppressione, abbattendo le barriere strutturali che impediscono alle comunità di autodeterminarsi. Tuttavia, la questione rimane quella di come gli attivisti possano andare oltre il semplice riconoscimento delle loro connessioni attraverso pratiche fattuali di lavoro per affrontare il dominio simultaneamente in tutte le sue forme. Guardare al femminismo nero e all’anarchismo può aiutare ad avanzare modelli teorici di azione.
Femminismo Nero: dall’Intersezionalità alle Oppressioni Interconnesse
Come hanno scritto Karma Chavéz e Cindy Griffin nell’introduzione alla loro raccolta di saggi sulle intersezioni negli studi sulla comunicazione, “nel mezzo dell’intreccio delle numerose lotte per la liberazione che si sono catalizzate intorno alla metà del ventesimo secolo negli Stati Uniti, femministe di colore, femministe della classe lavoratrice e lesbiche hanno ragionato sulla natura ‘interconnessa’, così come sul ‘rischio doppio o multiplo’ dell’avere molteplici identità oppresse”.[4] Una delle prime e più importanti riflessioni in merito all’argomento fu della giurista e femminista nera Kimberlé Crenshaw, che elaborò il concetto di “intersezionalità”. Ci sono state tuttavia numerose formulazioni che meglio hanno illustrato con concetti e metafore la natura complessa delle oppressioni multiple. Tra queste, l’idea delle oppressioni interconnesse posta in essere dal Combahee River Collective è forse quella che meglio cattura le interconnessione di tutti i sistemi di dominio.
Nel 1989 Crenshaw creò il concetto dell’intersezionalità nel suo saggio “Demarginalizing the Intersection of Race and Sex”. Notando che “le esperienze delle donne di colore, povere ed immigrate sono sussunte e cancellate nelle pratiche legali, nelle decisioni politiche e nelle norme sociali”, Crenshaw spiega che questa cancellazione riflette l’incapacità “di pensare al di fuori di particolari assi identitari”, da cui ne consegue l’assunzione che tutte le donne siano bianche ed appartenenti alla middle class.[5] Per illustrare questo assunto, suggerisce che il dominio dovrebbe essere immaginato come un incrocio di quattro vie dove il danno può provenire da un certo numero di direzioni: “può venire da una parte come dall’altra. Se ad un incrocio capita un incidente, questo può essere causato da auto che viaggiano in un determinato numero di direzioni, se non in tutte. Ugualmente, se una donna di colore è ferita perché è su un’intersezione, le sue ferite possono essere causate dalla discriminazione sessuale così come dalla discriminazione razziale”.[6] Anche se si tratta chiaramente di un intervento critico e necessario sulla seconda ondata di pensiero femminista e sull’invisibilità delle interazioni tra analisi razziali, sessuali, di classe e di genere, troppo spesso questa metafora è stata limitata dalla sua interpretazione dell’oppressione vista come “qualità additiva” piuttosto che come un tipo di relazione molto scivolosa e dinamica.
Di conseguenza le teoriche femministe si sono sforzate di trovare metodi alternativi per catturare la confusione e la complessità concettuale della natura accavallata ed interattiva delle oppressioni multiple. Aggiungendo delle sfumature alla nozione di intersezionalità di Crenshaw, queste teorie hanno cercato di sottolineare i modi in cui le identità multiple sono modellate dalle numerose strutture del dominio e da contesti in costante cambiamento. Queste sfumature hanno incluso tutto, dalla “Theory in the Flesh” di Cherrie Moraga e Gloria Anzalduá al “Curdling” di María Lugones. E come scrissero Chavéz e Griffin, “Ogni metafora o prospettiva offre qualcosa di leggermente diverso”.[7] Tuttavia, il concetto di oppressioni interconnesse sembra essere il più istruttivo per capire i modi in cui, a prescindere dall’esatta natura delle relazioni tra le specifiche caratteristiche dell’oppressione in ogni singolo caso, una cosa è certa, cioé che tutte le forme di sottomissione e dominio sono integralmente collegate le une alle altre e che gli sforzi per porre fine ad ogni singola forma di oppressione obbligano a lottare per la fine di tutte le oppressioni. Queste non si limitano ad essere intersecate, ma sono inestricabilmente legate tutte insieme tra di loro.
La teorizzazione delle oppressioni interconnesse fu esposta inizialmente dal Combahee River Committee almeno un decennio prima che Crenshaw coniasse il termine intersezionalità. Nel 1977 questo gruppo di femministe nere lesbiche rilasciò un comunicato nel quale si diceva che
il resoconto generale delle nostre politiche ad oggi ci vede attivamente impegnate nel combattere le oppressioni razziali, sessuali, eterosessuali e di classe ed il nostro compito particolare è lo sviluppo di analisi e pratiche integrate basate sul fatto che i maggiori sistemi di oppressione sono tra di loro interconnessi. La sintesi di queste oppressioni crea il mondo entro il quale noi viviamo. Come donne di colore, vediamo il femminismo nero come il movimento politico più conseguente per combattere le molteplici e simultanee oppressioni che tutte le donne di colore devono affrontare.[8]
Come sostengono, sarebbe impossibile affrontare una singola questione alla volta. Ovvero, come donne di colore; come donne lesbiche di colore; come donne lesbiche di colore e lavoratrici; come donne lesbiche di colore, lavoratrici e con una famiglia, provenienti da comunità dove altre sono sottomesse per innumerevoli motivi. Per essere realmente liberate bisogna affrontare simultaneamente queste inestricabili esperienze di oppressione. Da qui il loro insistere sul fatto che “noi non stiamo provando a combattere l’oppressione su uno o anche due fronti, ma invece di affrontare l’intera gamma delle oppressioni (…). Se le donne di colore fossero libere, significherebbe che chiunque altro dovrebbe esserlo, dato che la nostra libertà richiederebbe la distruzione di tutti i sistemi di oppressione”.
Atriimenti, come hanno scritto in un altro estratto dal comunicato, “crediamo che le politiche sessuali in una società patriarcale per le donne nere siano tanto pervasive quanto lo sono le politiche di classe e di razza. Spesso fatichiamo anche a scindere l’oppressione razziale da quella sessuale o di classe, perché nelle nostre vite queste per la maggior parte ci colpiscono simultaneamente”.[10] Di conseguenza esse sostengono che non si debbano nemmeno analizzare le singole oppressioni ma piuttosto iniziare a ragionare sul concetto di “oppressione razial-sessuale”. Inoltre, anche se “ad unirci inizialmente era una posizione combinata di antisessismo e antirazzismo”, col passare del tempo le militanti del collettivo hanno iniziato a capire che, insieme alla questione dell’eterosessismo “la liberazione delle persone oppresse necessita la distruzione sia dei sistemi politico-economici del capitalismo e dell’imperialismo, sia del patriarcato”.[11] In altre parole, per opporsi ad ogni forma di sottomissione bisogna agire sul sistema nella sua interezza.
Ad essere onesti, altri impianti analitici offrono di certo contributi teorici utili per disvelare la natura dinamica, sovrapponibile ed interattiva delle oppressioni. Eppure, la comprensione maggiormente olistica posta in essere dal Combahee River Collective inerente alle dimensioni correlate ed interconnesse dei sistemi di dominio rimane essenziale per capire come operano potere, privilegio e sottomissione nella società contemporanea. Sarebbe quindi impossibile affrontare ogni istanza di oppressione singolarmente ed una alla volta, data la capillarità del sistema di potere diffuso, per dirla con Foucault, accoppiata con la portata globale del capitalismo e dei corrispondenti sistemi di dominio razzial-sessuale che coprono ogni aspetto della vita.
Per estensione, se tutte le oppressioni vanno affrontate simultaneamente, il concetto di oppressioni interconnesse del Combahee River Collective diventa di vitale importanza, in quanto suggerisce la necessità di mettere in atto delle politiche di solidarietà. Ad esempio, pur riconoscendo la complicità degli uomini di colore nel sostenere il patriarcato, allo stesso tempo riconoscono la sottomissione degli uomini di colore per ciò che concerne i discorsi di razza e di classe. Allo stesso modo alcune femministe bianche sono state molto attive nel sostenere il razzismo, ma ciò nonostante hanno anch’esse subito il dominio patriarcale. In altre parole, il contesto è la chiave che permette di comprendere la natura complessa e dinamica del dominio e della sottomissione. Gli oppressori possono essere oppressi, gli oppressi possono essere oppressori, quindi l’unica soluzione che rimane è quella di lavorare insieme per eliminare ogni forma di oppressione.
Fin dalla prima pubblicazione della dichiarazione del Combahee
, le femministe nere ed altre attiviste iniziarono ad utilizzare nel linguaggio il concetto di oppressione interconnessa. Ad esempio, la poetessa lesbica e femminista nera Audre Lorde, che scrisse nel 1985 “Io sono tua sorella: le donne nere si organizzano attraverso le sessualità”, si rifà apertamente a questo approccio della teoria dell’oppressione. In quel discorso parla della predominanza dell’omofobia nel femminismo nero e nell’attivismo delle donne di colore, dicendo: “quando io asserisco di essere una femminista nera intendo dire che riconosco che sia il mio potere sia ciò che principalmente mi opprime sono il risultato del mio essere nera e del mio essere donna e di conseguenza le mie battaglie su entrambi i fronti saranno inscindibili tra loro”.[12] Insieme a queste lotte inseparabili, Lorde invita il suo uditorio a riconoscere la necessità di combattere anche l’omofobia. Infatti “l’omofobia (…) è uno spreco di energie femminili e mette un’arma terribile nelle mani dei vostri nemici, che possono usare per silenziarvi, per tenervi docili, inquadrate ed anche per tenerci isolate e lontane le une dalle altre”.[13]
Questo tipo di esclusione, spiega ancora Lorde, rende un cattivo servizio al movimento, spoliandolo delle “energie ed intuizioni vitali” delle donne di colore che fanno parte di una più ampia “famiglia nera”, che prescinde dalla loro sessualità.[14] In sostanza, non riuscendo a vedere la correlazione tra le lotte ed escludendo le lesbiche nere dagli spazi del femminismo nero, queste limitano le loro potenzialità radicali di rovesciamento del patriarcato, rafforzando l’eteronormatività. Per questo motivo chiede il riconoscimento della pratica di interconnessione tra le lotte e chiede di averne la possibilità in quanto nera, donna e lesbica, insistendo sul fatto che queste oppressioni esistono simultaneamente e quindi simultaneamente vanno distrutte (per tornare al linguaggio del Combahee River Collective).
Anche Patricia Hill Collins ha sottolineato il concetto di oppressioni interconnesse nel suo concetto di “matrice del dominio”.[15] Come spiega, “il pensiero femminista nero favorisce un cambio di paradigma nel modo in cui pensiamo all’oppressione. Abbracciando paradigmi di razza, classe e genere visti come parte di un sistema di oppressioni interconnesse, il pensiero femminista nero riformula le relazioni sociali di dominio e resistenza”.[16] Collins tuttavia specifica esplicitamente l’importanza di evitare “modelli additivi” per la comprensione delle dinamiche dell’oppressione che si riflettano “nella dicotomia tipica del pensiero eurocentrico e maschilista che porta a scegliere ‘o questo o quello’”.[17] Questo non riuscirebbe, secondo lei, a catturare le dinamiche e le direttrici dei livelli di oppressione e pertanto sarebbe bene adottare un diverso modello, ovverosia quello di “sia questo che quello”, in contrapposizione appunto a “o questo o quello”.
(…). Come Collins spiega, osservando le direttrici delle oppressioni quali la razza, la classe ed il genere, con tutte le loro relazioni, si può capire in che modo condividano una sorta di “terreno ideologico”. Questo terreno comune è “la fede nel dominio, la fede nelle nozioni di superiore ed inferiore, che sono componenti di tutti questi sistemi di oppressione (…). È come una casa con le fondamenta condivise, fondamenta che sono le convinzioni ideologiche sopra alle quali sono costruite le nozioni del dominio”.[19]
In un modo molto simile, oltre dieci anni più tardi, Peggy McIntosh ci parla della natura interconnessa delle oppressioni nel suo articolo “White Privilege and Male Privilege: a Personal Account of Coming to See Correspondences Through Work in Women’s Studies”. In questo pezzo McIntosh discute dell’invisibilità dei sistemi di privilegio che conferiscono benefici e risorse a determinati gruppi sociali, a discapito di altri, segnatamente degli uomini a discapito delle donne e dei bianchi a discapito dei neri o anche di persone eterosessuali a discapito di persone omosessuali o di genere non conforme. McIntosh cerca comunque di non cadere nella trappola dell’approccio additivo per comprendere i sistemi di oppressione. Nelle sue parole
Un fattore appare chiaro e riguarda tutte le oppressioni interconnesse. Assumono sia forme attive, che riusciamo a vedere e a riconoscere, sia forme più nascoste che ai membri del gruppo dominante viene insegnato a non vedere. All’interno della mia classe sociale e nel mio luogo di appartenenza io non mi vedrò come razzista perché mi è stato insegnato a riconoscere il razzismo solo negli atti di cattiveria individuale degli appartenenti al mio gruppo sociale e mai nei sistemi invisibili che conferiscono a tutti gli appartenenti al gruppo un privilegio razziale sin dalla nascita. Allo stesso modo ci viene insegnato a credere che il sessismo e l’eterosessismo abbiano luogo solo attraverso i singoli atti meschini e crudeli di discriminazione e non nei sistemi invisibili che conferiscono un dominio quasi inconsapevole a determinati gruppi.[20]
Ad essere onesti, vi sono degli evidenti limiti nell’utilità teorica della teoria del privilegio e dell’identità politica corrispondente. Ovvero, tale teoria rischia di essere grossolanamente riduzionista, molto più degli approcci additivi all’intersezionalità, cancellando dinamiche di oppressione e potere molto complesse. E possiamo facilmente criticare McIntosh per non essere riuscita ad incorporare un modello di interconnessione delle oppressioni nella sua analisi sul privilegio. Il punto saliente qui è che l’articolo di McIntosh rappresenta la prova evidente dell’infusione di un discorso prettamente femminista nero, che verte sulla comprensione generalizzata delle forme di oppressione e dominio, tra le femministe bianche. Questo articolo in particolare potrebbe avere avuto un ruolo particolarmente influente nel contribuire ad una diffusione più ampia del femminismo nero all’interno delle teorie sul potere e rimane (nel bene e nel male) uno dei saggi fondamentali utilizzati nella formazione delle attiviste contro le oppressioni. Quindi, di nuovo, nonostante McIntosh non abbia in ultima analisi evitato di appoggiarsi ad un modello teorico additivo, rimane notevole il fatto che lei affermi anche esplicitamente che i meccanismi del dominio sono interconnessi.
Anarchismo: Auto-Liberazione per Tutti
Anche se pare un po’ la questione dell’uovo e della gallina, pure nell’anarchismo contemporaneo possiamo trovare un approccio simile su questo tipo di analisi interconnesse sull’oppressione. A dire il vero, la concettualizzazione dei sistemi di controllo interconnessi e la conseguente pretesa di rimozione di ogni forma di dominio sono alla base delle teorie e delle pratiche anarchiche. Detto questo, il pensiero anarchico contemporaneo è stato influenzato dal femminismo nero di Audre Lorde, James Baldwin, bell hooks e di innumerevoli altri studiosi della terza e quarta ondata. Ciò è particolarmente evidente nell’anarchismo queer e nell’anarco-femminismo post strutturalista. In entrambi i casi c’è una chiara risonanza tra le due correnti. E dato il ruolo di primo piano svolto dall’anarchismo nei movimenti del ventunesimo secolo – qualcuno ha parlato addirittura di “svolta anarchica” nell’attivismo – diventa tanto più necessario considerare tutte le connessioni con il femminismo nero.[21]
Per meglio comprendere la relazione tra l’anarchismo e gli accenti sulle oppressioni interconnesse, è utile dare un’occhiata alle sue radici storiche ed ai suoi fondamenti filosofici. L’anarchismo contemporaneo occidentale – quello considerato classico per intenderci – si è sempre basato sulla convinzione che bisogna guardare a tutti i centri di potere come ad un qualcosa di problematico e vedere tutti i sistemi di dominio come strettamente interconnessi tra loro.[22] Cercando di dare un senso ai rapidi cambiamenti di paesaggio sociale avvenuti con l’inizio dell’industrializzazione, pensatori anarchici del diciannovesimo secolo come Mikhail Bakunin, Pierre-Joseph Proudhon e Max Stirner, tra gli altri, provarono a cercare il modo di rispondere alle nuove forme di disuguaglianza e coercizione che ora, più che da un dominio feudale o cortigiano, derivano da uno stato sempre più centralizzato e dalle condizioni di sfruttamento lavorativo poste in essere dal capitalismo. A differenza dei loro omologhi marxisti, per i quali il riferimento principale era la classe operaia, il vero obiettivo di questi primi anarchici era di assicurare la libertà dal dominio per tutte le persone, uomini e donne di qualunque razza. Come ebbe a dire Bakunin
Ciò che sono tutti gli altri uomini, m’importa molto, perché per quanto indipendente io mi immagini o sembri per la mia posizione sociale, fossi anche Papa, Zar o Imperatore o anche primo ministro, sono incessantemente il prodotto di ciò che sono gli ultimi di loro; se essi sono ignoranti, miserabili schiavi, la mia esistenza è determinata dalla loro ignoranza, dalla loro miseria e dalla loro schiavitù. Io, uomo illuminato o intellettuale, per esempio — se è il caso — sono bestia della loro scempiaggine; io sono schiavo della loro schiavitù; io ricco tremo davanti alla loro miseria; io privilegiato impallidisco davanti alla loro giustizia. Io, volendo essere alfine libero, non lo posso perché attorno a me tutti gli uomini non vogliono ancora essere liberi, e, non volendolo, divengono strumenti d’oppressione contro di me.[23]
La necessità di eliminare tutte le forme di oppressione come condizione essenziale per raggiungere una società completamente libera è da sempre uno dei principi fondamentali del pensiero anarchico. Sicuramente, in quanto anti dogmatici, gli anarchici si sono immaginati numerose versioni e variabili differenti affinché questo principio potesse divenire realtà o, comunque, hanno immaginato diversi passi necessari al raggiungimento di una società liberata. Come disse Peter Marshall, l’anarchismo è “un fiume ampio” all’interno del quale “è possibile distinguere numerose correnti”.[24] Più in generale, i concetti cardine dell’anarchismo hanno a che fare con l’assicurare la libertà dal dominio per tutti, con l’abbattimento di ogni forma di coercizione e con la possibilità di ogni essere umano (anzi, di tutti gli esseri viventi) di raggiungere il proprio potenziale più elevato ed il benessere maggiore possibile. Questo significa che tutti sono liberi di partecipare ai processi decisionali che andranno a modellare le loro vite, godendo dell’accesso a tutte le risorse necessarie per farlo.
Questa idea di una società libera si basa necessariamente sul fatto che tutti i membri di tale società debbano liberarsi e che quindi non è possibile separare la propria liberazione da quella di chiunque altro. Alexander Berkman lo spiega molto bene in ABC dell’Anarco-Comunismo:
Anarchismo significa che tu devi essere libero; che nessuno può renderti schiavo, comandarti, derubarti o imporsi su di te. Significa che devi essere libero di fare le cose che vuoi fare; e che non devi essere costretto a fare ciò che non vuoi fare. Significa che devi avere la possibilità di scegliere il tipo di vita
che vuoi e viverla senza che qualcuno interferisca. Significa che il prossimo deve avere la stessa libertà che hai tu e che tutti devono avere gli stessi diritti e le stesse possibilità. Significa che tutti gli uomini sono fratelli e che devono vivere come fratelli, in pace e in armonia. Ciò comporta che non ci devono essere la guerra, la violenza perpetrata da un gruppo di uomini su un altro, il monopolio o la povertà, l’oppressione, l’abuso sul prossimo. In breve, l’anarchismo significa una condizione o una società in cui tutti gli uomini e tutte le donne sono liberi e in cui tutti godono ugualmente dei benefici di una vita ordinata ed equilibrata.[25]
Già soltanto osservando questi principi, è piuttosto semplice vedere le correlazioni con la prospettiva delle lotte interconnesse posta in essere dal Combahee River Collective. Qui è espresso il concetto secondo il quale la liberazione di un singolo individuo dipende dalla liberazione di tutti. Si pone l’accento sull’empatia che ci porta a preoccuparci per gli altri, non per dovere o con fare paternalistico, ma piuttosto per il concetto che lotte e destini debbano essere condivisi tra tutti gli esseri viventi. Inoltre ci sono i modi in cui questa percezione porta alla reciprocità, alla cooperazione e al mutuo appoggio – pilastri sia del femminismo nero sia dell’anarchismo.
C’è poi una lunga tradizione del pensiero anarchico che guarda al femminismo e che risale alla fine del diciottesimo secolo che ha contribuito a chiarire il concetto di interdipendenza delle lotte in un’ottica femminista. Come spiegato da Roxanne Dunbar-Ortiz nell’introduzione di Quiet Rumors, una raccolta di testi anarco-femministi, “Fino a poco tempo fa, le parole anarchismo e femminismo difficilmente si riuscivano a trovare all’interno di una stessa frase e tantomeno si riusciva a considerarli integralmente correlati, Emma Goldman era l’unico esempio in tal senso nel quale la gente poteva identificarsi”.[26] Eppure, nello stesso periodo storico nel quale agì Goldman, vi furono innumerevoli altre donne difficilmente ricordate – Lucy Parsons, Mother Jones, Helen Keller, Louise Michel e “migliaia di altre storiche figure anarco femministe”.[27] Queste donne contribuirono a formare la prospettiva critica che “l’uguaglianza vera non potrà mai essere raggiunta in un sistema capitalista (…). Dobbiamo chiarire che quando le battaglie femministe verranno vinte, sarà in nome della vera uguaglianza per tutti (…). Il vero femminismo richiede una ristrutturazione sociale completa e questo può essere equiparato con l’anarchia”.[28]
Anche negli anni che videro nascere il pensiero anarchico vi furono delle tracce provenienti dalle femministe di colore che contribuirono a spingere la teoria anarchica verso un più netto riconoscimento del carattere dinamico e sovrapposto delle oppressioni. Lucy Parsons – una delle fondatrici dell’Industrial Workers of the World, nonché vedova del martire di Haymarket Albert Parsons – fu una delle prime celebri anarchiche di colore, nata probabilmente in schiavitù e con antenati messicani e nativi americani. Tramite il suo impegno sindacale ha fornito una critica incisiva delle divisioni delle lotte e ha invitato i radicali a “superare le differenze di nazionalità, religione e credo politico e volgere in eterno il nostro sguardo verso la stella nascente della repubblica industriale del lavoro”.[29] Nel frattempo in Argentina, le prime anarco-femministe, alcune delle quali contribuirono alla pubblicazione di La Voz de La Mujer, andavano dicendo che la loro “propaganda anarco-femminista (…) era da ritenersi inseparabile dalla crescente consapevolezza dei meccanismi di sfruttamento sociale ed economico perpetrati ai danni delle
donne argentine di origine migrante” e come “materializzare le aspettative di queste donne all’interno di un vasto progetto per una società libertaria”.[30]
Tuttavia è solo nelle forme contemporanee dell’anarco-femminismo che riusciamo a vedere le connessioni esplicite e l’influenza del femminismo nero come teoria sottolineante la simultaneità delle lotte. In “Insurrection at the Intersections: Feminism, Insurrectionality and Anarchism”, Jen Rogue e Abbey Volcano fanno conversare anarchismo e femminismo nero e ci offrono una critica squisitamente anarchica dell’approccio “additivo” all’intersezionalità. Evidenziano anzi l’importanza di adottare una lente “attraverso la quale osservare razza, classe, genere, sessualità eccetera come processi reciprocamente costituenti (…) categorie che non esistono indipendentemente le une dalle altre; ma che invece si rafforzano vicendevolmente in modi sovrapponibili, complessi, interagenti, intersecanti e spesso anche contraddittori”.[31]
Nel frattempo Chris Crass, fondatore del Catalyst Project, parla apertamente di come il femminismo nero ha messo al corrente di come “l’anarchismo nato e sviluppatosi negli anni ’90 era un prodotto delle esperienze movimentiste dei precedenti quattro decenni”, compreso “il Black Freedom Movement, il movimento di liberazione delle donne e altri movimenti di liberazione (…) che si opponevano alle svariate forme di oppressione.”[32] Nei fatti, accreditò “l’analisi integrata delle oppressioni” del Combahee River Collective che “suggerisce che i sistemi di razzismo, capitalismo, eteropatriarcato e di discriminazione verso i disabili operano in maniera interconnessa tra di loro” e lo fa in modo “veramente rivoluzionario”, la qual cosa ha avuto una grande influenza sugli anarchici degli anni ’90 che “hanno sempre più considerato questa analisi integrata”.[33] In un’intervista, Crass spiega inoltre come per il Catalyst Project, intersezionalità significhi soprattutto avere un approccio “collettivo” alle politiche di liberazione
(…) indirizzando il nostro privilegio di gente bianca nell’esaminare le differenze nelle quali questi privilegi si manifestano, siano esse basate su genere, classe, orientamento sessuale, abilità, eccetera. L’intersezionalità complica il modo di comprensione dei rapporti di potere e di ciò che è necessario per trasformarli (…). Se l’intersezionalità funge da ossatura per riconoscere i modi in cui le oppressioni sono legate tra di loro e strutturano la società, di conseguenza la liberazione collettiva è l’ossatura corrispondente che ci permette di organizzarci e trasformare queste relazioni di potere. È un approccio organizzativo che riconosce che la nostra liberazione come bianchi è interrelata e dipendente dalla liberazione delle comunità di persone di colore che vivono in prima linea le oppressioni razziali ed economiche.[34]
Anche Richard Day, nella sua relazione sulle correnti anarchiche all’interno dei movimenti contemporanei, descrive come “la critica femminista del potere” ha avuto un’influenza fondamentale sul mondo dell’anti-globalizzazione.[35] Inoltre fa notare che, grazie alla crescita della componente anarchica, c’è una confluenza crescente tra le lotte che ha portato i no global ad adottare quella che lui chiama “groundless solidarity/infinite responsability” – cioé l’idea per cui “un numero sempre crescente di persone in tutto il mondo sta convergendo sul concetto che il nuovo ordine globale debba essere combattuto su tutti i livelli,
in tutti i luoghi, attraverso battaglie multiple, disparate ed interconnesse”.[36]
Un recente lavoro di Chris Dixon, Another Politics: Talking Across Today’s Transformative Movements affronta esplicitamente il rapporto tra anarchismo e femminismo nero, così come le oppressioni interconnesse e concentra principalmente la sua analisi dei movimenti contemporanei sulla questione dell’interconnessione delle lotte.[37] Dixon riflette sul fatto che gli attori del movimento contemporaneo – dai difensori dei diritti al lavoro per gli indigeni a chi si mobilita per la giustizia razziale – hanno iniziato a vedere le loro lotte come connesse tra loro. Come ha notato, per gli attivisti è chiaro che
il sistema di oppressione e sfruttamento – parliamo quindi di patriarcato, eterosessismo, supremazia bianca, discriminazione verso i disabili, capitalismo e così via – ora agisce come un tutt’uno in modo interconnesso e non c’è modo di districare le oppressioni l’una dall’altra. Infatti, se davvero vogliamo farne a meno e creare modi differenti per rapportarci, occorre una struttura sociale completamente differente. Ci viene richiesto di avere una politica multistrato rivoluzionaria che riesca a cogliere queste oppressioni tutte insieme”.[38]
In particolare Dixon mette in evidenza l’unione di tre correnti politiche – il femminismo nero, l’abolizionismo carcerario e l’anarchismo – vedendo tale unione come formativa per quel tipo di “analisi integrata” e per quei sentimenti anti autoritari che si augura possano essere al centro dell’attivismo contemporaneo negli Stati Uniti e in Canada.
Verso una Lotta Unificata
Qual è allora l’importanza del riconoscere il denominatore comune di interrelazione tra le lotte tra gli attivisti e la relazione tra femminismo nero e anarchismo? Tanto per iniziare, questo ci suggerisce la necessità di riconoscere il valore critico del pensiero femminista nero nei movimenti contemporanei. Ad oggi c’è una cancellazione piuttosto problematica dalle teorie e dalla letteratura di movimento dell’importante contributo fornito da attiviste di colore e da studiose femministe nere. Questo replica fedelmente le dinamiche di potere razziste-sessiste non solo nel modo in cui noi intendiamo le nostre lotte, ma anche nelle dinamiche interne al movimento e nei rapporti interpersonali. Si evidenzia anche un’assonanza naturale tra il femminismo nero e l’anarchismo – che è stato ampiamente trascurato da attivisti ed accademici. Già solo questi motivi ci danno una ragione valida per esplorare le teorizzazioni delle oppressioni interconnesse all’interno dell’attivismo.
A livello pratico ci sono anche altre ragioni per prendere in considerazione l’interconnettività delle lotte e i punti salienti della relazione tra femminismo nero e anarchismo. Intanto, a livello emotivo ed affettivo, questo implica un cambio di soggettività, in cui iniziamo a vedere noi stessi come intimamente connessi con gli altri che si trovano al di fuori delle nostre vite individuali e dalle nostre esperienze dirette. Vi è un superamento delle divisioni, un senso dello stare insieme, cause comuni, umanità condivisa. Questo senso di “relazionalità” tra attivisti indica anche la possibilità di un coinvolgimento più profondo nelle politiche di solidarietà. Effettivamente la teoria delle oppressioni interconnesse articolata sia dall’anarchismo sia dal femminismo nero è istruttiva per andare oltre la retorica delle lotte interconnesse e perseguire vere politiche solidali, fornendo modelli specifici in modo che gli attivisti possano ripensare di lavorare insieme.
Ad esempio “Revolutionary Solidarity: A Critical Reader for Accomplices” del Bay Area Fireworks Collective offre un’analisi forte e importante del concetto dell’“allyship”, ovverosia del ruolo dell’alleato. Gli articoli presenti nella raccolta suggeriscono che il termine “alleato” (“ally”) sia legato strettamente con politiche liberali e con “il complesso industriale alleato”, “perdendo infine di significato”. Per questa ragione gli autori raccomandano l’utilizzo del termine “complice” (“accomplice”) come modo per spostarsi verso un approccio più interconnesso di comprensione dei conflitti e per sottolineare l’importanza dell’azione rispetto alla parola.
Come scritto in un saggio all’interno della raccolta, mentre l’essere alleato è terminologia adottata dagli attivisti bianchi che cercano di accreditarsi come antirazzisti e che pagano l’ipocrisia del loro impegno per la giustizia razziale, l’essere complice implica il superamento di forme superficiali e condiscendenti di falsa solidarietà. Significa anche riconoscere che fino a che qualcuno è oppresso, allora tutti siamo sottoposti al mutuo rafforzamento dei sistemi di dominio. Il collettivo suggerisce che
(…) questo quadro di solidarietà afferma che altri gruppi hanno qualcosa di valore che può essere acquisita dal nostro gruppo attraverso le interazioni con loro, sia materialmente sia in maniera meno tangibile, acquisendo magari nuove prospettive, gioia o ispirazione. Il modello di solidarietà dissipa anche l’idea di un interno e un esterno, mettendo in primo piano come gli individui appartengano a più gruppi e gli stessi gruppi si sovrappongano tra loro, chiedendo però sempre rispetto per l’identità e l’autosufficienza di ciascuno di questi gruppi.[39]
Le strutture alleate evidenziano “le idee dell’io e degli altri”, in contrapposizione ad una concettualizzazione più unitaria e collettiva.[40] Inoltre il modello “complice” rafforza il concetto che tutte le lotte siano inestricabilmente legate tra loro. Come viene ben spiegato in “Accomplices Not Allies: Abolishing the Ally Industrial Complex”,
I rischi di un alleato che fornisca supporto e solidarietà (solitamente a termine) in una lotta sono molto differenti da quelli di un complice. Quando si va in battaglia insieme e si diventa conniventi in una lotta di liberazione, allora si è complici.[41]
Insieme con il rilievo anarchico inerente al passaggio da una politica di alleati ad una politica solidale di complici, un’altra possibile incursione per la promozione di un femminismo interconnesso dentro gli spazi dell’attivismo è l’idea che si impara facendo – un concetto che la “politica della relazione” pensata dalla studiosa chicana femminista appartenente alla terza ondata Aimee Carrillo Rowe ci spiega in maniera illuminante. Nel suo articolo “Be Long: Toward a Feminism Politics of Relation”, Rowe sostiene che ciò che amiamo è politica. “I siti della nostra appartenenza costituiscono il modo in cui vediamo il mondo, ciò che apprezziamo, chi siamo (e chi stiamo diventando)”.[42] Di conseguenza Rowe punta a “rendere trasparenti” le condizioni politiche che
modellano la nostra appartenenza e i nostri legami affettivi. Infine suggerisce che affinché noi si sia in grado di lottare insieme, abbiamo bisogno di sviluppare delle “soggettività di coalizione”, che sorgono lavorando insieme oltre le differenze ed adottando una “politica della relazione”.
Questo avviene attraverso l’atto del fare insieme, quando i balzi individuali nelle alleanze ci permettono di “vedere come le nostre oppressioni e i nostri privilegi siano inestricabilmente collegati con quelle degli altri e quindi non possiamo immaginare la nostra esistenza e le nostre politiche come separate dalle esistenze e dalle politiche altrui”.[43] Questo permette a loro volta agli attivisti di costruire politiche che attraversano le linee di potere, in modo che essi possano comprendere reciprocamente le esperienze altrui e collaborare ad una lotta che sia emancipatoria per tutti.
Più facile a dirsi che a farsi; eppure l’appello di Rowe a rigettare le relazioni normative basate sul “potere su” a favore del “potere di”, la qual cosa rappresenta una svolta “in direzione” l’uno degli altri, è un altro esempio del tipo di cambiamento necessario di un movimento per la liberazione di tutti sempre più forte.[44] Come scrive, la cosa della quale abbiamo maggiormente bisogno è vedere “come questi modi radicali di appartenenza detengano un enorme potenziale per trasformare chi pensiamo di essere e il nostro modo di immaginare quella cosa chiamata ‘femminismo’. Questo è l’obiettivo di una politica della relazione (…) l’inclinazione degli uni verso gli altri come basi per la comunità, l’intimità e la consapevolezza”.[45] In sintesi quindi, come suggerisce Rowe, forse il modo migliore per incoraggiare lo sviluppo di un quadro femminista interconnesso è quello di iniziare a relazionarsi con gli altri attraverso le nostre posizioni intrecciate. Infatti ad essere intrecciate non sono solo le nostre oppressioni o i nostri privilegi, ma noi stessi. Riconoscere queste affinità all’interno delle nostre esperienze individuali o più semplicemente condividere la nostra umanità – insieme alla chiamata anarchica per la necessità critica di lavorare insieme come complici e non come alleati – potrebbe essere la strada migliore verso la liberazione collettiva.
Eppure continua ad essere assente un’analisi più sfumata di ciò che significa adottare all’atto pratico un impianto interconnesso. Secondo il parere di molti, questo porterà ad una cancellazione tanto ingenua quanto estremamente problematica del concetto di differenza, a favore di una comprensione universale totalizzante di come funziona l’oppressione. Gli appelli per il riconoscimento empatico della causa comune possono portare alla trappola di riscrivere dinamiche oppressive eliminando le differenze derivanti dalle esperienze personali. Questa è una cosa di cui anarco-femministe come Rogue e Volcano parlano chiaramente – rendendo ancora più chiara l’importanza di esaminare l’anarchismo insieme alle analisi intersezionali ed interconnesse. Come fanno notare, “chiediamo la fine di ogni sfruttamento ed oppressione”, sebbene poi osservino la necessità di evitare la riduzione o l’appiattimento “di tutte queste relazioni sociali in un unico contesto” tale da non riuscire più a spiegare come “la gamma delle relazioni sociali gerarchizzate siano a loro modo uniche”.[46] O, come aggiungono poi,
Come anarchiche abbiamo notato che l’intersezionalità è utile nella misura in cui riesce a far conoscere le nostre lotte. L’intersezionalità è stata utile per comprendere i modi in cui le oppressioni si sovrappongono e recitano un ruolo nella vita di tutti i giorni. Tuttavia, quando vengono spiegate in un contesto liberale, le analisi intersezionali spesso ritengono che la miriade
di oppressioni alle quali siamo sottoposte funzionino tutte allo stesso modo, la qual cosa può precludere analisi di classe, analisi sul ruolo dello stato e sulle istituzioni governative. Secondo noi le esperienze quotidiane di oppressione e sfruttamento sono importanti ed utili per la lotta se utilizziamo l’intersezionalità in modo da far comprendere i diversi metodi attraverso i quali la supremazia bianca, l’eteronormatività, il patriarcato, la divisione in classi eccetera funzionano all’interno della vita delle persone, piuttosto che limitarci ad elencarli pedissequamente come se tutti operassero nella medesima maniera.[47]
Chris Crass arriva ad una simile conclusione parlando dell’attività antirazzista della sua organizzazione, ammettendo che “abbiamo fatto un errore applicando l’intersezionalità al nostro lavoro; in alcuni casi abbiamo organizzato i bianchi come se fossero un gruppo omogeneo (…) e abbiamo alienato persone con le quali lavoravamo appiattendo le differenze che in realtà avrebbero potuto essere un punto di forza”.[48] In breve quindi, come suggeriscono questi autori, l’adozione di una struttura intrecciata richiede il riconoscimento dell’unicità delle differenze – “unità nella diversità”, per usare un termine caro all’ecologista sociale e comunalista libertario Murray Bookchin – o dei sistemi divergenti di dominio sociale e di vedere ogni esperienza di sottomissione individuale come centrale per creare un ‘analisi più eterogenea dei meccanismi di controllo. Se tutte le forme di asservimento vengono ridotte ad un solo asse, l’oppressione non potrà mai essere combattuta, ma anzi verrebbe rafforzata. Di conseguenza gli approcci anarchici e delle femministe nere alle analisi interconnesse ci aiutano a tenere conto delle complessità, delle unicità e del dinamismo all’interno dei meccanismi di potere.
Pure così però, un conto è dire che dobbiamo prendere spunto dall’anarchismo e dal femminismo nero nell’adottare un approccio alle analisi di oppressione che riconosca le differenze, un altro è capire come affrontare le sfide che ci porteranno a farlo in pratiche effettive di solidarietà. Come bisogna considerare le differenze provenienti dall’esperienza, o il fatto che la società attribuisce potere ad alcuni a discapito di altri mentre si lavora per la liberazione collettiva e simultanea di tutti? Basti pensare agli appelli profondamente problematici messi in campo da alcuni presunti “alleati” per l’adozione del motto #AllLivesMatter per avere un chiaro esempio di come un approccio apparentemente interconnesso – “tutti noi contiamo e dobbiamo essere liberati, no?” – possa ancora tranquillamente condurre all’oppressione.
Una possibile soluzione potrebbe essere quella di creare una nuova metafora per descrivere le oppressioni interconnesse – quella del nodo aggrovigliato. Ci sono innumerevoli trefoli in questo nodo, tutti saldamente legati insieme, ed ognuno di questi rappresenta una differente espressione di dominio. Dato questo aggrovigliamento, è quindi necessario allentare tutti i fili se si vuole sciogliere il nodo. In certi momenti tuttavia, un determinato filo può richiedere più attenzione di altri. In altri momenti forse potrà essere necessario tirare più fili contemporaneamente. Sebbene il nodo dell’oppressione rimarrà tale fino a che tutti i fili non verranno liberati, è di vitale importanza capire che, esattamente come i fili possono essere interdipendenti tra loro, così ogni persona deve essere considerata sia come un filo singolo che come parte del groviglio collettivo. Questo tipo di formulazione serve ad evitare un totalizzante “noi tutti” che cancella le distinte esperienze di sottomissione, mentre invece ci permette di capire che “nessuno è libero finché tutti non sono liberi”. In ogni caso, mentre ci sforziamo di capire come mettere in pratica migliori politiche di solidarietà basate su una comprensione della lotta vista come momento condiviso ed interdipendente, ci restano sia il femminismo nero che l’anarchismo come modelli pratici e teorici per aiutarci ad andare nella giusta direzione.
Hillary Lazar[**]
[*] Traduzione di Luca Filisetti. Articolo apparso sul n°29 della rivista Perspectives On Anarchist Theory pubblicata dall’Institute for Anarchist Studies in distribuzione presso AK Press
[**] L’autrice è stata destinataria di una borsa di studio IAS. Si è avvicinata all’anarchismo, all’educazione radicale ed a progetti di giustizia sociale negli anni ’90. È studentessa di dottorato ed assistente di sociologia ed è attualmente impegnata ad organizzare gli studenti universitari. È la co-fondatrice dell’associazione degli studenti universitari anarchici dell’università di Pittsburgh, un membro della libreria The Big Idea e fa parte del consiglio consultivo di Agency: An Anarchist PR Project. Hilary vive a Pittsburgh, Pennsylvania. Le opinioni espresse in questo articolo appartengono esclusivamente all’autrice e non rappresentano necessariamente quelle del Perspective on Anarchist Theory Journal, dell’Institute for Anarchist Studies e dei membri del consiglio di amministrazione.
Note:
1)Francesca Mastrangelo, “Love Is Not Enough”, in “Love as a Radical Act Forum”, Feministwire, 29/10/2013
2)Sally Kohn, “Activists Use Love and Empathy to Create New Alliances and Possibilities with the ‘Enemy’”, YES! Magazine, 1/7/2013
3)Jo Reger, Everywhere and Nowhere: Contemporary Feminism in the United States (New York: Oxford University Press, 2012), 5.
4)Karma Chávez and Cindy Griffin, Standing in the Intersection: Feminist Voices, Feminist Practices in Communication Studies (Albany: SUNY Press, 2012), 5.
5)Chávez and Griffin, Standing in the Intersection, 4.
6)Kimberlé Williams Crenshaw, “Mapping the Margins: Intersectionality, Identity Politics, and Violence Against Women of Color”, Stanford Law Review 43 (1991), 1241-1299.
7)Chávez and Griffin, ibid.
8)Combahee River Collective, “A Black Feminist Statement, 1977” in Cherrie Moraga e Gloria Anzaldúa, This Bridge Called My Back: Writings by Radical Women of Color (New York: Kitchen Table / Women of Color Press, 1983), 210.
9)Combahee River Collective, “A Black Feminist Statement, 1977,” 215.
10)Ibid, 213.
11)Ibid.
12)Audre Lorde, “I Am Your Sister: Black Women Organizing Across Sexualities,” (Women of Color/Kitchen Table Press, 1985), 3.
13)Ibid, 6.
14)Ibid, 7.
15)Patricia Hill Collins, “Black Feminist Thought in the Matrix of Domination” in Black Feminist Thought: Knowledge, Consciousness, and the Politics of
Empowerment (Boston: Unwin Hyman, 1990), 221–238, consultato il 4 Marzo 2016. http://www.hartford-hwp.com/archives/45a/252.html.
16)Ibid.
17)Ibid.
18)Ibid.
19)Ibid.
20)Peggy McIntosh, “White Privilege and Male Privilege: A Personal Account of Coming to See Correspondences Through Work in Women’s Studies,” Working Paper No. 189. (Wellesley Coll., Mass. Center for Research on Women, 1986).
21)Duane Rouselle e Süreyyya Evren, eds., The Anarchist Turn Symposium, May 2011.
È importante dire che ciò di cui sto parlando e ciò che è in genere considerato anarchismo classico e canone anarchico, ha avuto origine in larga parte a metà del diciottesimo secolo in Europa (Russia compresa, anche se il suo territorio fa parte anche dell’Asia). Ciò detto, vi è senza dubbio una tradizione più lunga e profonda del pensiero anarchico (o se non di quello, almeno di una sensibilità anarchica) che torna indietro negli anni arrivando ad alcune antiche filosofie orientali che vanno certamente oltre quelli che sono i confini dell’occidente. Un paio di raccolte importanti sull’anarchismo occidentale sono No Gods, No Masters, No Peripheries: Global Anarchisms di Raymond Craib e Barry Maxwell (Oakland: PM Press, 2015) e Decolonizing Anarchism: An Antiauthoritarian History of India’s Liberation Struggle di Maia Ramnath (Oakland: IAS/AK Press, 2011).
23)Mikhail Bakunin, “Solidarity in Liberty: The Workers’ Path to Freedom,” 1867.
24)Peter Marshall, Demanding the Impossible: A History of Anarchism (Oakland: PM Press, 2009), 6.
25)Alexander Berkman, ABC of Anarchism (Freedom Press: 1977, reprint 1929). Edizione italiana: L’ABC dell’Anarco-Comunismo (Nova Delphi, 2015)
26)Roxanne Dunbar-Ortiz. “Quiet Rumors: An Introduction” in Dark Star Collective, Quiet Rumors: An Anarcha-Feminist Reader, Terza Edizione, (Oakland: AK Press, 2012), 11.
27)ibid
28)Gruppo Anarco-Femminista Rivoluzionario, “Why Anarcha-Feminism?” in Quiet Rumors (2012), 14.
29)Lucy Parsons. “Discorso all’IWW del 1905”.
30)H. Finet, “Female Anarchism and Conviviality Among Workpeople in Buenos Aires (1890-1920)”, in Gwendolyn Windpassinger, Queer Anarcha-feminism: An Emerging Ideology? The Case of Proyectil Fetal, Diss. 2012, 138.
31)Jen Rogue and Abbey Volcano, “Insurrection at the Intersection” in Quiet Rumors (2012), 48.
32)Chris Crass, Towards Collective Liberation: Anti-Racist Organizing, Feminist Praxis, and Movement Building Strategy (Oakland: PM Press, 2013), 3. Il Catalyst Project è un centro di formazione per attivisti che si concentra sulla giustizia razziale e sui diritti dei lavoratori.
33)Ibid, 5.
34)ibid, 255. Qui Crass fa riferimento diretto alla concettualizzazione delle oppressioni interconnesse del Combahee River Collective.
35)Richard Day, Gramsci is Dead: Anarchist Currents in the Newest Social Movements (Ann Arbor, MI; Pluto Press, 2005),197. Edizione italiana: Gramsci è Morto. I nuovi movimenti dall’egemonia all’affinità (Eleuthera, 2013)
36)ibid, 201-2.
37)Chris Dixon, Another Politics: Talking Across Today’s Transformative Movements (Berkeley: University of California Press, 2015).
38)Carwil Bjork-James, “Beyond a Radical Minority: An Interview with Anarchist Writer Chris Dixon”, 2015.
39)Anonimo, “A Critique of Ally Politics” in Fireworks Collective and Cindy Milstein eds., Revolutionary Solidarity: A Critical Reader for Accomplices, 2015, 6.
40)Ibid, 6.
41)Occupy Oakland. “Accomplices Not Allies: Abolishing the Ally Industrial Complex” in Revolutionary Solidarity, 2014), 35.
42)Aimee Carrillo Rowe, “Be Longing: Toward a Feminist Politics of Relation”, NWSA Journal, 17 (2005),16.
43)Chávez and Griffin, Standing in the Intersection, 11.
44)Rowe, 37.
45)Ibid, 45.
46)Rogue and Volcano, “Insurrection at the Intersection,” 44.
47)Ibid, 45.
48)Crass, Towards Collective Liberation, 255.


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