Introduzione
Il seguente testo, apparso con firma PG a dicembre 2016 sul sito di CrimethInc, importante network anarchico americano, analizza l’identità politica di Donald Trump e della sua cricca. La tesi principale del testo è che la presidenza Trump non rientra nei canoni del fascismo storicamente inteso ma rappresenta l’affermazione dei valori della whiteness, l’identità bianca che attraversa una forte crisi dovuta all’evoluzione del sistema sociale della cui la whiteness stessa è stata garante: il sistema di dominio democratico e capitalista negli Stati Uniti d’America. Ne presentiamo la traduzione, a cura di Luca Phi e Lorcon, in quanto è un testo estremamente interessante che permette di muovere una critica da posizioni rivoluzionarie a quel filone di pensiero che relega tutte le politiche di destra nella macrocategoria del “fascismo”, a-storicizzando questo termine e contemporaneamente, seppure spesso in buona fede, fornendo un paravento all’ideologia democratica intesa come combinazione tra stato di diritto e sistema economico basato sulla merce e l’accumulazione di capitale. Il termine whiteness è stato reso in italiano con “identità bianca” ma è un termine di difficile traduzione in quanto dentro di esso si annida un intero mondo: prendendo spunto dai temi dei cultural studies della seconda metà del ventesimo secolo ci si è cominciato a porre il quesito di come un’insieme di popolazioni, di origine e cultura eterogenee, siano arrivate ad autoidentificarsi come “bianchi” e di come questa autodefinizione sia legata alle condizioni materiali, di come, insomma, sia storicizzabile il concetto di identità bianca. (la prima parte dell’articolo la trovate qui: http://www.umanitanova.org/2017/03/26/fascismo-o-identita-bianca-1-parte/)
Il seguente testo, apparso con firma PG a dicembre 2016 sul sito di CrimethInc, importante network anarchico americano, analizza l’identità politica di Donald Trump e della sua cricca. La tesi principale del testo è che la presidenza Trump non rientra nei canoni del fascismo storicamente inteso ma rappresenta l’affermazione dei valori della whiteness, l’identità bianca che attraversa una forte crisi dovuta all’evoluzione del sistema sociale della cui la whiteness stessa è stata garante: il sistema di dominio democratico e capitalista negli Stati Uniti d’America. Ne presentiamo la traduzione, a cura di Luca Phi e Lorcon, in quanto è un testo estremamente interessante che permette di muovere una critica da posizioni rivoluzionarie a quel filone di pensiero che relega tutte le politiche di destra nella macrocategoria del “fascismo”, a-storicizzando questo termine e contemporaneamente, seppure spesso in buona fede, fornendo un paravento all’ideologia democratica intesa come combinazione tra stato di diritto e sistema economico basato sulla merce e l’accumulazione di capitale. Il termine whiteness è stato reso in italiano con “identità bianca” ma è un termine di difficile traduzione in quanto dentro di esso si annida un intero mondo: prendendo spunto dai temi dei cultural studies della seconda metà del ventesimo secolo ci si è cominciato a porre il quesito di come un’insieme di popolazioni, di origine e cultura eterogenee, siano arrivate ad autoidentificarsi come “bianchi” e di come questa autodefinizione sia legata alle condizioni materiali, di come, insomma, sia storicizzabile il concetto di identità bianca.
Scenari globali differenti
Dobbiamo considerare la possibilità che la presidenza Trump si riveli né più né meno come una classica presidenza repubblicana. Non è mai un uomo solo che governa, semmai una burocrazia tentacolare. C’è più continuità che cambiamento nel cambio da un’amministrazione ad un’altra. Perfino in un colpo di stato volto a sostituire una democrazia con una dittatura c’è una sorprendente continuità istituzionale. Trump è una figura roboante, ma non può governare da solo. Anche se avesse l’intenzione di portare a compimento tutte le promesse elettorali, non può fare nulla che le istituzioni esistenti non siano progettate per fare e può fare ben poco senza il supporto del partito Repubblicano.
Naturalmente queste non devono essere viste come parole di conforto. Come ci rivelò il processo ad Adolf Eichmann, una burocrazia è una cosa totalmente mostruosa, che allo stesso tempo può emettere documenti d’identità o caricare intere popolazioni su carri bestiame, praticare l’eutanasia o utilizzare le camere a gas. Per aprire un varco nella politica d’urto che caratterizza questo periodo, vale la pena far notare che gli Stati Uniti hanno già costruito un muro sul confine messicano e che per gli immigrati musulmani senza soldi entrare nel paese è già estremamente difficoltoso.
Nella sua prima settimana da presidente eletto, Donald Trump ha già iniziato a fare marcia indietro su certe promesse chiave della sua campagna elettorale, nel passaggio dall’essere vincitore delle elezioni alla necessità di dover formare un governo. Sta vivendo lo stesso processo nel quale sarebbero passati Hillary Clinton, Bernie Sanders o Jill Stein se avessero vinto loro. La mia tesi semplicemente è che, per prepararci alla presidenza Trump, dovremmo distinguere tra gli orrori vistosi della campagna elettorale di uno showman misogino e razzista e gli orrori silenziosi di uno stato chiamato a prendere decisioni politiche.
Quindi prevedere i risultati della presidenza Trump basandosi sui proclami elettorali è un affare rischioso, ma d’altro canto le elezioni sono uno dei pochi momenti nei quali lo stato ci mostra un’anteprima dell’evoluzione delle proprie strategie e negli USA il tempo che intercorre tra la vittoria alle elezioni e l’insediamento è particolarmente lungo. Per questo se c’è anche solo una possibilità che la speculazione su queste promesse elettorali può aiutarci ad arrivare maggiormente preparati, vale la pena tentare.
Avendo già trattato il tema del suprematismo bianco, vorrei affrontare le seguenti questioni: democrazia, geopolitica, sfruttamento economico ed ecocidio.
Direi che, negli ultimi dieci anni, molti dei più importanti movimenti sociali sono stati cooptati o sconfitti con mezzi democratici e questa cosa non verrà meno neanche in un mondo dove gli Stati Uniti saranno governati da Trump.
È comprensibile il motivo per cui molta gente vorrebbe rivendicare la parola “democrazia”, nonostante tutte le inesattezze storiche o le amnesie che questa pretesa comporta (specialmente quando si parla di “recuperarla”, come se la democrazia fosse sempre stata qualcosa di differente rispetto a ciò che è oggi). Il potere al popolo può essere un concetto allettante, soprattutto se non si spacchetta il significato di ognuna delle due parole – potere e popolo – e, in generale, è sempre più facile comunicare con le persone utilizzando un linguaggio mainstream. Per la maggior parte della gente, democrazia è semplicemente sinonimo di libertà.
Le critiche alla democrazia vengono espresse con sempre maggiore frequenza, mentre le tattiche comunicative populiste dei movimenti democratici di base hanno fallito più e più volte. Degli enormi movimenti orizzontali sono stati reistituzionalizzati in Grecia, Spagna, Egitto ed altrove, mentre politici progressisti, o più semplicemente intelligenti, hanno reindirizzato alle urne le richieste di cambiamento e di un miglioramento della democrazia. Le chiamate alla democrazia funzionano come una leva o come una catena di montaggio lungo la quale i movimenti orizzontali extraparlamentari possono essere raggruppati e rispediti indietro nella fornace della democrazia rappresentativa ed istituzionale.
Non si tratta di un fenomeno prettamente di sinistra. I destrorsi di Italia e Regno Unito hanno utilizzato il referendum popolare, uno strumento perfino più democratico del voto, per imporre le loro agende. Negli Stati Uniti, in un certo numero di stati, gli ultra conservatori hanno usato il referendum per discriminare le persone queer e transessuali o per limitare l’accesso alla pratica dell’aborto. Nei fatti, il movimento del Tea Party, i cui resti Trump ha mobilitato per la corsa verso il potere, era in un certo qual modo un movimento democratico di protesta che faceva appello ai valori fondanti del governo degli Stati Uniti innalzando grida contro la corruzione della classe politica.
La natura anfibia del concetto di democrazia ed il fatto che sia l’estrema destra sia l’estrema sinistra la reclamino a gran voce dovrebbe essere motivo di preoccupazione. Probabilmente è questa la ragione per la quale si prova a dipingere la candidatura di Trump come un fenomeno fascista.
In un contesto di transizione da un presidente nero ad uno apertamente razzista, sembra pertinente chiedersi come mai la gente è ancora innamorata di un sistema di governo che sorse in una società basata sulla schiavitù. Questo spiegherebbe come mai la destra ami così tanto la democrazia, ma che dire delle persone che dicono di opporsi al capitalismo, al suprematismo bianco e all’ecocidio?
Nel futuro immediato le istanze per la democrazia continueranno a far nascere, motivare e quindi istituzionalizzare i movimenti sociali. Ma lo shock causato alle figure istituzionali dalla vittoria a sorpresa di Trump apre una finestra su di un futuro alternativo. Solo perché la democrazia è l’attuale strategia dominante per mantenere il potere e tenere sedato il popolo, questo non vuol dire che sarà sempre così.
Quando l’insicurezza degli investitori ha causato il crollo dei mercati all’indomani della vittoria di Trump, diversi mezzi di comunicazione occidentali hanno rimarcato, senza condiscendenza e senza dare giudizi, la dichiarazione dell’agenzia di stampa statale cinese Xinhua: la vittoria di Trump ci mostrava come la democrazia era rotta. Durante la campagna elettorale, più di un giornale di media importanza negli States ha evidenziato l’assurdità di una parte del sistema elettorale, suggerendo che una tecnocrazia sarebbe stata più razionale. Così, visto che gran parte delle nostre vite sono già organizzate da istituzioni tecnocratiche, perché non sbarazzarsi dello spettacolo di un manipolo di politici che non è qualificato a fare assolutamente nulla?
Parallelamente a questo scetticismo crescente, gli investitori di tutto il mondo hanno sicuramente notato come lo stato cinese centralizzato ha superato la crisi e prevenuto lo scoppio della gigantesca bolla immobiliare molto meglio di come abbiano fatto gli stato occidentali democratici. Per ora, con Trump che ha abbandonato le sue posizioni più estremiste e con gli investitori che hanno iniziato regolarsi, parrebbe che si sia placato il chiacchiericcio ardito sulla svolta autoritaria, ma rimane comunque un possibile scenario per il futuro. Fino a che gli investitori riusciranno a fare soldi nel sistema attuale, rifiuteranno cambiamenti estremi, ma se il modello americano di democrazia liberale non riuscirà a rendere il mondo più sicuro per il capitalismo durante le prossime crisi, gli appelli alla democrazia diverranno anacronistici e pure controproducenti.
Questo ci porta alla questione della geopolitica, dove la presidenza Trump sta già portando i suoi frutti. È improbabile che Trump riesca ad abolire il NAFTA; per farlo avrebbe bisogno della cooperazione di tutto il partito repubblicano che, nel complesso, è saldamente e fondamentalmente neoliberista come qualsiasi altro partito al mondo che abbia più del 10% dei consensi. Pare anche che il TTIP con l’avvento della presidenza Trump sia già morto, ma vi sono buone probabilità che si rimangi le promesse elettorali e resusciti una zona di libero scambio nel Pacifico prima che la Cina monopolizzi la regione con il suo accordo, il RCEP. Ai protezionisti non restano che un paio di misure simboliche da mettere in atto prima di rischiare di distruggere le economie di cui dispongono. Più larga è un’economia, più essa è integrata a livello globale, tanto più in un sistema capitalista. Se Trump tenterà una guerra commerciale con la Cina rovinerà l’economia statunitense. L’unica soluzione praticabile nell’attuale sistema è la velocizzazione di questa corsa al successo, riducendo le barriere commerciali (come le protezioni ambientali), tagliando i costi del lavoro ed aumentando la produzione. Oggigiorno è molto più realistico proporre l’abolizione del sistema e delle economie basate sulla valuta che parlare di riformare o limitare il capitalismo. Pertanto Trump non ha molte opzioni. O seguirà questo programma o distruggerà l’economia degli Stati Uniti mandando la disoccupazione alle stelle, se per pura ostinazione continuerà a voler rompere con l’establishment politico. Prevediamo che sarà un altro presidente amico del libero scambio che al massimo implementerà un sistema di incentivi per aumentare leggermente la produttività nazionale.
Se Trump riuscirà a mantenere la sua promessa razzista e ad espellere un numero perfino maggiore di immigrati latini rispetto al passato (questa è una grande sfida, perché Obama è stato il maggior deportatore di immigrati, frantumando ogni record precedente e rimandando due milioni e mezzo di persone nei loro paesi, cifre nove volte superiori rispetto alle stesse di vent’anni fa), questo causerà un enorme innalzamento delle difficoltà economiche nei paesi nei quali le persone farebbero ritorno.
L’approccio di Trump con Russia e Cina merita un esame scrupoloso. In uno dei pochi punti dove fino ad ora ha dimostrato coerenza, ha prefigurato un disgelo nelle relazioni con il Cremlino. Nei confronti della Cina ha usato un linguaggio bullesco nel descrivere i suoi piani per affrontare quello che è il principale concorrente economico degli Stati Uniti, tacciandoli di essere dei manipolatori di valuta; ma ha anche avuto un atteggiamento incostante nel supportare gli alleati chiave nella regione, suggerendo che Giappone e Corea del Sud debbano cavarsela da soli. Il suo sostegno spuntato a Taiwan è probabilmente un riflesso della sua totale ignoranza della natura delle relazioni diplomatiche con questo paese. Trump è un isolazionista duro e puro, quindi è difficile predire la sua politica estera, ma la macchina militare americana abbisogna di proiettare più forze nel mar cinese del sud e di farlo nella maniera più efficace possibile, per contrastare l’espansione dello stato cinese, dato che quella è una zona di primaria importanza per la nuova economia più grande del mondo. Se non ci fosse un impegno totale verso questa priorità, che una presidenza Clinton avrebbe ereditato senza dubbio, non sarà possibile evitare il cambiamento degli equilibri di potere nella regione.
Possiamo considerare un dato acquisito il fatto che due paesi non possono terminare le reciproche ostilità fino a che i loro interessi geopolitici confliggono. Al massimo potrebbe migliorare la comunicazione tra le diplomazie. Gli Stati Uniti e la Russia son o impegnate in un aspro conflitto per la supremazia regionale sin da quando l’Unione Europea e la NATO sono cresciute fino al punto da poter attirare nazioni come l’Ucraina e la Georgia, che la Russia naturalmente conta di tenere entro la propria orbita (nel caso della Georgia stabilendo relazioni politico-economiche più strette con Washington piuttosto che unendosi con organizzazioni territoriali occidentali). L’unico modo per porre fine al conflitto sarebbe che Mosca o Washington decidano di non perseguire più strategie di dominio nell’Europa orientale ed in Medio Oriente. Mosca però attualmente gode di una posizione di forza, quindi non avrebbe motivo di farlo.
Dalla fine della guerra fredda, nessun governo al mondo è stato obbligato ad allinearsi con una delle due superpotenze. Possono fare come l’Egitto, che corteggia sia la Russia sia gli Stati Uniti ricevendo in cambio enormi quantità di finanziamenti militari e, dato che è meno dipendente da un singolo potere, gode di una certa autonomia per perseguire i suoi interessi regionali. La Turchia ci fornisce un ottimo esempio di come uno stato una volta considerato un alleato succube possa ora stringere alleanze e ridisegnare la mappa regionale, destabilizzando la situazione e contrastando le pretese degli Stati Uniti di essere l’unico architetto globale. In questa competizione la Russia e (in un’altra parte del mondo) la Cina hanno un vantaggio enorme, perché a questo punto non hanno bisogno di essere più forti degli Stati Uniti, ma devono semplicemente continuare a crescere e ad estendere la propria influenza, in quanto per gli States mantenere il controllo della situazione rappresenta un’attività esponenzialmente più dispendiosa.
Se il piano di Trump per la Siria può fornire indicazioni, parrebbe intenzionato a ridurre le pretese statunitensi in Medio Oriente, permettendo ad Assad di rimanere in sella e concentrandosi sul meno ambizioso obiettivo di sradicare l’ISIS. Un simile approccio in Asia vorrebbe dire garantire l’integrità territoriale di Giappone e Corea del Sud ma senza cercare di controllare l’espansionismo cinese né sostenere apertamente quelle zone di esclusiva economica che favoriscono gli alleati occidentali. In altre parole, Trump potrebbe avere l’intelligenza (secondo una prospettiva sciovinista) di rallentare le strategie da guerra fredda sempre più costose ed inefficaci volte al predominio mondiale da ottenersi militarmente e decantate come fossero vangelo sia dai repubblicani sia dai democratici. Hillary Clinton compresa.
Il pensiero che un magnate immobiliare turpe ed immaturo abbia accesso all’arsenale nucleare è terrificante, ma una presidenza Clinton che avrebbe visto gli Stati Uniti provare a mantenere il loro dominio militare in un mondo che ha reso certe pretese sempre meno possibili avrebbe avuto molte più possibilità di scatenare una guerra nucleare. Non dovrebbe essere una sorpresa che in una società folle, una persona sana di mente può causare il danno maggiore.
Non abbiamo ragione di credere che Trump farà il pistolero o che l’establishment repubblicano riuscirà ad imbrigliare il proprio candidato e a garantire la continuità della politica estera americana. Dovremmo perlomeno considerare tutte le possibili implicazioni delle proposte di Trump, ma se continuerà a reclutare militanti neocon all’interno della sua amministrazione, la sua presidenza finirà per assomigliare a quella di George W. Bush in materia di politica estera, finendo per imbarcarsi in iniziative malconsigliate per espandere il dominio a stelle e strisce che nella realtà si tradurrebbero in una crescente instabilità. La sua scelta definitiva del segretario di stato potrebbe darci qualche indicazione inerente al sentiero che deciderà di percorrere, o potrebbe continuare a rompere gli schemi. È persino probabile che un gabinetto Trump possa essere meno stabile di quanto normalmente siano stati quelli dei suoi predecessori.
È importante affrontare per bene la tematica dello sfruttamento economico, proprio perché non c’è niente di sorprendente da dire a riguardo. Al di la della retorica protezionista di Trump, nessuno dei due candidati è mai stato intenzionato a mettere un freno alla roulette dell’ipersfruttamento e del precariato alla quale è sottoposta la maggior parte della popolazione mondiale. Nessuno al di fuori del circuito politico è stato in grado di fornire con efficacia una critica di questo stato di cose. Fino a che non affronteremo la cosa, una processione nauseante di Tsipras e Trump guiderà alla vittoria l’insicurezza economica, non cambiando nulla nei fatti.
L’ecocidio con Trump procederà più velocemente di quanto avrebbe fatto con Hillary Clinton, anche se mi viene difficile scorgere l’importanza di settare il conto alla rovescia dell’orologio che segna la fine del mondo sul 10 invece che sul 9. Possiamo tranquillamente considerare morti alla nascita tutta una serie di accordi internazionali sui cambiamenti climatici, il che è anche una buona cosa, considerando che sono stati una barzelletta sin dal momento del loro concepimento. Per dirla in termini crudi: quando il problema è la riduzione dei gas serra in atmosfera (lasciando da parte le questioni altrettanto importanti riguardanti la preservazione di quanto più spazio selvaggio possibile in modo da creare delle zone cuscinetto) l’attenzione del mondo viene orientata verso gli sforzi per aumentare i gas serra in atmosfera in maniera più lenta. Come facciano delle persone dotate di intelligenza a dedicarsi ad una tale farsa non è dato sapere, anche se gli amministratori delegati delle ONG ambientaliste in tutto questo hanno guadagnato dei soldi facili. Nessuna istituzione in nessuna parte del mondo ha dimostrato la capacità di iniziare anche solo a fare il primo passo per fermare il cambiamento climatico e l’estinzione di massa e, con la vittoria repubblicana nel paese più responsabile del disastro ambientale, ora nemmeno fingeranno più di provarci. Ma ora la farsa è finita e la scelta è chiara: i governi e il capitalismo contro il pianeta e gli esseri viventi.
Perchè la sinistra ha la sua parte di colpa
I sostenitori di sinistra di Bernie Sanders erano furiosi: Clinton ha manipolato la corsa per la candidatura democratica solo per partecipare in maniera goffa alle elezioni, quando i sondaggi erano concordi nel mostrare come Sanders avrebbe avuto maggiori possibilità di sconfiggere Trump. Tuttavia dovrebbero essere felici del fatto che il loro idolo non sarà presidente, dato che sarebbe stato una delusione ancora più cocente di quanto non sia stato Obama. Attualmente non ci sono compromessi che il capitalismo sia in grado di mettere in atto per migliorare le sorti dei lavoratori poveri. SYRIZA si è scontrata con questa dura realtà in Grecia e se è vero che per gli Stati Uniti è più semplice esigere crediti rispetto al piccolo paese mediterraneo, a lungo termine la situazione si rivelerà la stessa. Senza dubbio delle politiche specifiche possono apportare piccoli ma significativi miglioramenti nelle vite degli individui, ma il grosso del problema rimarrà lo stesso o peggiorerà, a prescindere da chi sia il presidente.
La validità del giudizio è stata riconosciuta in tutto il mondo. Dopo che i governi progressisti in Spagna e Grecia sono divenuti gli esecutori dei principali programmi di austerità, le prospettive dei partiti di estrema sinistra si sono rivelate un flop. Molti di questi partiti si sono connessi con i movimenti sociali recenti, come Podemos in Spagna; avevano previsto di incassare dividendi enormi ed improvvisamente il sogno è finito. Negli Stati Uniti i poveri e le persone di colore sono state così deluse dai risultati del programma vagamente progressista dell’agenda politica di Obama che in gran numero hanno disertato le urne e non hanno difeso la continuità di quel programma. La bassa affluenza di votanti tra quelle fasce demografiche è costata l’elezione alla Clinton.
La responsabilità dell’elezione di Trump sta nel populismo razzista della destra tanto quanto nelle false promesse della sinistra. La sinistra è moribonda, il mondo dell’organizzazione dei lavoratori è moribondo, i singoli politici e le identità politiche sono semplici appendici dei partiti neoliberali ricoperti di una patina progressista. La sinistra non può fare nulla per arginare in modo significativo le scorribande del capitalismo, per migliorare le condizioni di vita di immigranti e persone di colore o fermare la normalizzazione delle politiche di destra.
Storicamente, il termine sinistra si riferisce all’ala sinistra del parlamento durante la rivoluzione francese, dove erano seduti i delegati populisti e i borghesi antimonarchici. Da quel giorno destra e sinistra sono considerate entrambe forze governative. Non lasciano spazio ad un movimento sinceramente antiautoritario che creda nell’autorganizzazione della società piuttosto che nella conquista del potere centrale. Se ancora esiste una sinistra extraparlamentare è da considerarsi solamente un complemento che opera ai margini dei partiti politici, utile eventualmente per reinstradare i movimenti dal basso all’interno delle stanze governative.
È vero che i termini cambiano di significato nel tempo, ma vi sono un sacco di ragioni per credere che la sinistra giochi ancora esattamente questo ruolo, nonostante le tentazioni orizzontalistiche dei suoi partigiani più radicali. Questo non significa affatto che sia l’unico ruolo delle persone che partecipano alle politiche radicali di sinistra. Anzi, direi che è un elemento chiave che li trattiene in quell’alveo. Un’analisi critica della sinistra, che riconosca l’importanza dei tempi di recupero nel processo del controllo sociale, è necessaria se vogliamo dare un senso alle mancate opportunità, alle vittorie estemporanee, ai crolli demoralizzanti e alla perdita di slancio degli ultimi anni – sconfitte che appartengono a noi tutti. Di fronte all’attacco di una destra aggressiva, le nuove idee valgono di più delle solite sconfitte. Il tempo del pragmatismo è passato. Nei vasti campi dei movimenti anti austerità, ambientalisti, no borders e contro la violenza poliziesca, i pragmatici hanno poco o nulla da dire, a causa dei loro tentativi di trovarsi a metà strada con le istituzioni o di cercare il cambiamento all’interno delle strutture di potere esistenti.
Trascendendo dalla semantica, uno dei motivi per rigettare la sinistra è proprio la necessità urgente di una rottura totale con le strutture di potere esistenti. Dobbiamo capire che le aziende, i governi e le istituzioni che sono responsabili di sorveglianza, cambiamenti climatici, guerre, frontiere, schiavitù del salario, debiti, sfratti e così via sono nemici del pianeta e di chi lo abita. Se il patto col diavolo è una scommessa rischiosa, il patto con le istituzioni che detengono il potere è una tragica perdita di tempo. In un mondo dove i ricchi e i potenti pisciano sistematicamente sulle nostre teste dicendoci che sta piovendo, abbiamo un disperato bisogno di formarci una coscienza antagonista. Ancor più che di una coscienza di classe abbiamo bisogno di una coscienza di esseri viventi – visto che il proletariato, figlio bastardo del capitalismo, tende a riprodurre i valori da cui ha tratto le proprie origini.
La storia del ventesimo secolo ci insegna che la classe è soprattutto un meccanismo unificante piuttosto che il motore di una dialettica rivoluzionaria. Basando l’identità stessa dello sfruttamento sulla produzione industriale, sull’occupazione, sulla crescita economica e sull’integrazione all’interno dell’occidente civilizzato, la politica di classe ha fornito un denominatore comune tra lavoratori e governanti, utilizzato da capitalisti e statisti illuminati per smantellare la ribellione anticapitalista attraverso i sindacati, una complessificazione delle strutture di proprietà e di gestione anche attraverso l’identità e i doveri dei cittadini. La crisi ecologica, l’eredità continua di colonialismo e schiavismo e gli estremi dell’alienazione prodotti dalle tecnologie social convergono per segnalare che il problema dello sfruttamento non può essere affrontato semplicemente cambiando i nostri rapporti con i mezzi di produzione, dato che il problema nasce dalla logica stessa della produzione.
Nella prima parte dell’articolo ho sostenuto che il solo fatto di essere di pelle bianca crea identificazione con la democrazia, con la civilizzazione occidentale, con il progetto di colonizzazione e dominio – ed è questo che dobbiamo rigettare. Così come il suprematismo bianco non si può riformare ma solo rompere definitivamente con esso, allo stesso modo una rottura con la sinistra creerebbe una distanza di sicurezza dalla fedeltà alle istituzioni esistenti che più volte hanno sconfitto le nostre lotte.
È nel momento in cui i movimenti sociali radicali e autorganizzati sono a corto di idee sul futuro che le formulazioni di sinistra dapprima respinte riemergono per indirizzare le forze verso un ennesimo fallimentare tentativo riformista. D’altro canto è quando i movimenti riescono a conquistare le strade e ad ottenere qualche vittoria prima inimmaginabile che i tentativi riformisti accusano una battuta d’arresto. Questi momenti di stasi, di incertezza strategica, sono di vitale importanza per i movimenti anticapitalisti: quando scopriamo che occupare fabbriche e case, creare assemblee in ogni quartiere e bruciare stazioni di polizia e banche in ogni città non è sufficiente per rimettere il potere nelle nostre mani, è questo il momento in cui possiamo riscoprire collettivamente cosa la rivoluzione davvero richieda.
In realtà noi saremmo in grado di organizzare le nostre vite libere da ogni autorità coercitiva, ma dobbiamo avere la pazienza e la perseveranza per trasformare i nostri modelli rudimentali di autorganizzazione in reti complesse all’interno delle quali tutte le necessità della vita quotidiana possano essere soddisfatte. Dovremo difendere continuamente queste iniziative dai tentativi di repressione o cooptazione.
La stagnazione che seguirà le nostre prime vittorie potrebbe essere il momento in cui emergeranno dei movimenti realmente rivoluzionari, ma fino ad ora quel momento è diventato un punto di svolta nel quale la gente rinuncia all’autorganizzazione, rimane con le mani in mano e consegna le proprie speranze al partito politico progressista del momento. Quando poi questi partiti non portano a termine il compito, la destra dilaga.
Sia in Spagna che in Grecia un gran numero di persone che avevano rifiutato la politica di partito, ma che ancora si consideravano parte della sinistra, sono stati sedotti da SYRIZA, Podemos e da politici come Ada Colau. Questo tendeva ad avvenire quanto non si avevano più prospettive, quando le precedenti esplosioni di resistenza sociale ancora non erano riuscite a rovesciare le strutture di potere oppressive. In Argentina, Brasile e Bolivia i governi progressisti hanno assorbito ed istituzionalizzato quelli che sono stati dei movimenti sociali incredibilmente attivi, combattivi e fecondi, aprendo la strada ad un raddoppio delle politiche neoliberiste e a progetti di sviluppo capitalista.
Negli Stati Uniti, dove l’affluenza alle urne è più bassa, la fedeltà al partito non così spiccata e la sinistra è rappresentata più dalle ONG che da qualsiasi partito, le dinamiche sono state differenti. Sotto una presidenza conservatrice, la sinistra diffusa si concentra su singoli progetti di riduzione dei danni, come tentare di diminuire il numero di immigrati morti su un confine disegnato appositamente per uccidere. Con l’avvicinarsi delle elezioni, le ONG e i democratici presenti in queste associazioni rivedono rapidamente gli ordini del giorno per mobilitare gli attivisti nella campagna presidenziale per la vittoria democratica che – dopo anni di presidenza repubblicana – assume le fattezze del male necessario. Sotto una presidenza centrista (democratica, per esempio), i conflitti tra gli elementi autorganizzati (dagli anarchici ai non affiliati) e i detentori del potere (le ONG, il partito e degli autonominatisi leader locali) risalgono in superficie quando i primi provano ad affrontare i problemi usando metodi di democrazia diretta, mentre i secondi consigliano pazienza, impongono modelli di protesta meramente simbolici e usano media e polizia per dividere i loro oppositori, separando una massa di elettori silenziosa ma legittima dagli “agitatori esterni”.
Questo modello ha più punti in comune con le macchine partitiche del diciannovesimo secolo che con i raffinati metodi di recupero della socialdemocrazia che si stanno affinando in Europa, ma si rivela comunque molto efficace e continuerà ad esserlo fino a che le persone non avranno i mezzi per distinguere dei sinceri ribelli dagli attivisti professionisti e dagli operatori di partito che abitano a sinistra. La situazione nordamericana ci mostra come un fermo rifiuto delle politiche di partito non sia sufficiente. I giocatori più attivi nella pacificazione dei conflitti sociali vicini all’ebollizione appartengono alla sinistra extraparlamentare e non hanno intenzione di unirsi in partito come hanno fatto Podemos, SYRIZA e il MAS boliviano. È sufficiente che impediscano assalti al partito Democratico e ai suoi sforzi riformatori per far si che i movimenti sociali non riescano a creare l’autonomia di cui avrebbero bisogno e, grazie alla pioggia di soldi e alla continua definizione del paesaggio del conflitto da parte del complesso industriale facente riferimento al no-profit, gruppi di due o tre organizzazioni espulse dal partito Democratico o da qualche grossa ONG possono diventare i portavoce involontari della strategia di pacificazione.
Sinistra e destra sono come le due mani dello Stato, ma non sono affatto uguali. In spagnolo, tener mano izquierda significa essere sottile, astuto, evitare conflitti diretti. Da un punto di vista statalista, lo scopo della sinistra è quello di cooptare ed istituzionalizzare movimenti popolari ribelli. Questo è il motivo per cui la destra può permettersi di stipulare patti segreti con l’Iran, flirtare con la Russia o svelare le identità delle spie governative senza grosse conseguenze, mentre la sinistra viene continuamente scrutinata per scovare segni di tradimento. La lealtà della sinistra è sempre messa in discussione, per provarla bisogna che la sinistra stessa porti più prigionieri possibile al tavolo delle trattative. Negli Stati Uniti l’estrema destra è responsabile di più omicidi domestici che tutta la sinistra ed i jihadisti messi insieme, ma non sono trattati come terroristi. Invece, i media e la polizia ce li mostrerà come degli estremisti che sono stati spazzati via, evitando di parlarne in maniera sistematica. Chi invece tenta di ribellarsi contro l’ordine costituito o critica i pilastri del potere statale viene trattato da terrorista e sbattuto in carcere per decenni anche se – come nel caso di Marius Mason – non si è mai fatto male a nessuno.
La sinistra esiste per imbrigliare la rabbia degli oppressi. Quando nella rivoluzione francese si andò troppo oltre, le teste rotolarono e i Giacobini, che hanno provato a guidare la rabbia popolare piuttosto che sopprimerla, sono stati ghigliottinati per i loro eccessi. Chi detiene il potere è fin troppo consapevole di quanto sia pericoloso promettere giustizia alla plebe. Il movimento sindacale fece un vero e proprio miracolo stendendo un trattato di pace tra capitale e lavoro – molte delle prime leggi che legalizzarono il sindacato menzionavano specificatamente il bisogno di uno strumento che potesse permettere la risoluzione pacifica dei conflitti sul lavoro. Questo trattato di pace è divenuto obsoleto e presto i poteri dominanti ne vorranno redigere uno nuovo.
Negli States la disgregazione e la distruzione delle comunità nere attraverso politiche federali di sviluppo urbano e la cosiddetta guerra al crimine hanno creato un nuovo trattato di pace per le relazioni razziali, tenuto insieme da tolleranza e cecità da parte dei bianchi (basato sulla convinzione che se chiudo gli occhi il razzismo sparirà) e dall’altra parte dall’ascesa di una sparuta minoranza di neri che ha raggiunto posizioni di vertice nel governo (mentre in precedenza erano esclusi dalle scelte governative ma avevano raggiunto un buon grado di autonomia economica in molte città). Questo trattato di pace sta iniziando a cadere a pezzi e, grazie ad un lungo periodo di daltonismo liberal, la continuità storica è stata spezzata ed oggi solo alcuni radicali riescono a vedere il filo rosso che vede la schiavitù come modello su cui il sistema attuale è basato (le persone di centro solitamente rispondono: cosa? Stai ancora parlando di questo?).
Le figure chiave del partito democratico, che sta subendo un rimpasto interno, stanno elaborando il lutto della sconfitta elettorale, traendone una lezione: si sono allontanati troppo dalla sinistra ed ora devono concentrarsi per fare di nuovo presa sulla “classe lavoratrice”, che è un vergognoso eufemismo per indicare i bianchi che non hanno avuto un’educazione universitaria. Qualunque altro partito al loro posto avrebbe fatto lo stesso. A causa della massima pressione democratica per raggiungere la vittoria elettorale, solo un partito outsider con nessuna possibilità di predominio immediato può rompere questo schema fornendo una voce indipendente, dato che la loro critica sarebbe basata su uno status di minoranza continua. Invece di costruire un nuovo slancio solo per vederlo istituzionalizzarsi una volta di più, o peggio ancora, redarre un nuovo trattato di pace tra un sistema suprematista bianco e i suoi vari soggetti – tra possidenti e posseduti – dovremmo pensare in termini di sopravvivenza, autodifesa, rottura e rivoluzione. È difficile pensare a un momento storico nel quale le pressioni psicologiche della moderazione siano state più controproducenti. I canali istituzionali esistenti per riformare il sistema non possono fornirci nulla.
Le battaglie del futuro non potranno riguardare la capacità di far nascondere i suprematisti bianchi, il promuovere tecnologie che – estrapolate dal contesto – causino meno inquinamento, apportare correttezza politica e uguaglianza superficiale nelle istituzioni patriarcali o cercare di bilanciare i bisogni di capitale e lavoro. I problemi che Trump ha reso spaventosamente visibili erano già tutti li. Dobbiamo abbandonare ogni illusione di avere interessi in comune con il sistema dominante, attaccare l’oppressione e lo sfruttamento dalle fondamenta ed iniziare a costruire il mondo che vogliamo, senza compromessi con un sistema che ci ha sempre visto come risorse da sfruttare e come mezzi per raggiungere un fine.
Crimethinc