Ecologia sociale e diritto alla città – Recensione

ECOLOGIA SOCIALE E DIRITTO ALLA CITTÀ

Autori vari- a cura di Federico Venturini, Emet Değirmenci e Inés Morales Bernardos

Ed. Zero in condotta pp.208 EUR 15,00

 

L’architettura è sempre programma politico. La città è la forma concreta che le relazioni sociali e di potere prendono nello spazio. Joseph Gibbons, citato da Federico Venturini nel suo saggio “Riconcettualizzare il diritto alla città e la giustizia spaziale attraverso l’ecologia sociale”, afferma che “le persone che vivono nei ghetti sanno perfettamente di essere diverse da coloro che abitano i quartieri più bianchi e più ricchi. Sanno che non è un caso. […] Le persone capiscono di vivere in uno spazio prodotto socialmente e riescono […] a dare una spiegazione di come questo funzioni.” La facoltà di leggere questi rapporti di potere dovrebbe necessariamente portare alla voglia di influirvi, di cambiarli, di accomodarli alla propria esistenza. La città è il luogo dove si esplicitano le contraddizioni e gli eccessi del capitale, ma è anche il luogo di scambio accelerato, catalizzatore di culture e incontri. Può essere anche luogo di rinascita?

I diversi saggi di questa raccolta, pur con profonde differenze di approccio e metodo, propongono e raccontano forme di “cittadinanza rivoluzionaria”, ispirate alle correnti dell’ecologia sociale che si sono occupate di urbanistica: Murray Bookchin, Henri Lefebvre, “ricercatori-attivisti” nel segno di Bakunin e Kropotkin, ma anche le esperienze concrete in Rojava e in Grecia.

Una panoramica molto ampia di approcci alla questione del cosiddetto “diritto alla città”, da punti di vista che vanno da quelli più “riformisti” a quelli più critici verso le istituzioni, come quello dell’autore greco Theodoros Karyotis, che analizzando le lotte urbane di resistenza contro le politiche di austerità evidenzia la dialettica non sempre armoniosa tra le due “grammatiche” diverse dell’iniziativa popolare e del “discorso dei diritti”, criticando il concetto stesso di “diritto alla città” come tradizione liberale, e problematizza di più i commons inquadrando il rischio di sussunzione capitalistica e altri limiti dei commons.

Il grande antecedente culturale di questa raccolta è Murray Bookchin, la cui “eredità” viene raccontata da Brian Morris nel suo saggio: interessante notare che nel dibattito su natura e cultura, Bookchin rifiuta la diade umano-parassita in contrapposizione all’approccio nietschiano tipico dell’ambientalismo radicale malthusiano estinzionista. Il pensiero di Bookchin si differenzia anche da quello di Karl Marx, per cui la natura è il “regno della necessità”, da dominare in segno produttivista per il soddisfacimento dei bisogni materiali della specie umana. Per Bookchin invece la natura è processo, non materia passiva, e l’umano è tutto naturale, anche nella sua vita simbolica, associativa e culturale. Mutuo aiuto, soggettività e autodeterminazione sono fondamentali anche nell’evoluzione, e la soluzione alla dicotomia umano/natura è molto costruttiva e prefigura innumerevoli vie di azione ecologista che sostituiscono il dominio con la complementarità. Questo approccio sembrerebbe riconciliare anche con gli approcci mistici all’ecologismo (v. Starhawk), mantenendo intatta una base di dialettica razionale, amorale, che non trova ispirazione etica dalla prima natura, ma da una scelta consapevole di posizionamento.

La città è il luogo dell’accumulo capitalista e del peggiore ambiente naturale esistente. È il luogo dei divieti e in cui i confini di classe e di etnia si materializzano in modo più o meno rigido (zone rosse, zonizzazione discriminatoria, gentrificazione). È anche il luogo dove va in scena il teatro del decoro, dell’allontanamento dal centro dei progetti e delle attività popolari, della mercificazione estrema del paesaggio, del controllo sociale tramite il “design ostile”, come le panchine dove non ci si può sedere,

Sulla città si proietta anche il progetto di società futura risultante dai rapporti di forza in campo, chiaramente sempre come commento sul presente, dalle illusioni del dopoguerra di Metroland e delle città giardino, dell’urbanizzazione come unica possibilità di mobilità sociale, alle follie odierne della città lineare in Arabia Saudita, etc.

Sicuramente la modalità di azione che vediamo nelle città di oggi passa attraverso la messa al bando del riuso e della manutenzione dell’esistente, va tutto costruito da zero ovviamente appropriandosi di spazi liberi e mettendoli a reddito, senza mai consultare l* residenti. In un momento come questo le proposte municipaliste contenute in questo libro sono quanto mai utili, chiaramente nella speranza che i comitati cittadini spontanei e di scopo possano in qualche caso diventare qualcosa di più permanente.

Chi bolla queste lotte come “cittadiniste”, magari perché adotta un punto di vista avanguardistico, ignora la grande potenzialità popolare che risiede nelle lotte urbane, ed il lavoro concreto di rigenerazione sul campo che è possibile realizzare. Ricordiamo che una grande parte delle pur numerose pubblicazioni di Colin Ward sono state dedicate proprio all’urbanistica, alle “città giardino”, ma anche a temi molto pratici come i sistemi di distribuzione dell’acqua, gli orti urbani, la posizione de* bambin* nella città, etc… Un lavoro volto ad illustrare le pratiche di trasformazione per accrezione, autogestita e quasi spontaneistica e “inconsapevole”, senz12a pianificazione centrale pesante. Se non è anarchia questo…

Destinata al pubblico militante, questa raccolta è un’utile “cassetta degli attrezzi” che permette anche di comparare attraverso molte discipline approcci talvolta distanti tra loro, e dà esempi concreti di quanto siano pervasive lotte di questo genere, di casi di successo da imitare, e di alcune trappole da evitare.

L’architettura, e l’urbanistica, nella misura in cui si pone come “ciò che pone fine a un inesorabile processo di peggioramento delle condizioni della città e del territorio presi in esame e come inizio di un virtuoso processo del loro miglioramento.» (Bernardo Secchi) se fecondamente contaminata da nozioni anarchiche può diventare un’interessante forma di progettazione concreta del possibile.

 

Recensione a cura di Julissa

Related posts