Sabato 21 gennaio il primo giorno della presidenza di Donald Trump è stato salutato dalle proteste di milioni di persone che hanno partecipato alla “Marcia delle donne”. La manifestazione principale è stata quella di Washington a cui hanno partecipato almeno 250mila persone secondo la polizia (ma più di mezzo milione secondo le organizzatrici), ma ne sono state organizzate altre 672 in tutto il mondo, di cui più di cinquecento solo negli Stati Uniti, con tra l’altro più di 150mila manifestanti a Chicago e più di 100mila a Boston. Settantacinque ci sono state in Europa, con cortei che hanno raccolto decine di migliaia di persone a Londra, a Parigi, a Berlino, a Madrid e ad Amsterdam. A Sydney sono state circa 3mila le persone che hanno marciato dal parco di Hyde fino al consolato americano, mentre in Nuova Zelanda, si erano raccolte dinanzi al consolato americano e nelle strade di Auckland circa 2mila persone. Anche una squadra di ricercatori che attualmente si trovano nell’oceano Antartico ha aderito alla Women’s March.
La Marcia Delle Donne è stato solo l’ultimo atto delle proteste che hanno accompagnato l’elezione di Trump da quando il miliardario ha annunciato la sua partecipazione alle primarie repubblicane. Le proteste si sono naturalmente intensificate dopo la sue elezione a presidente con decine di manifestazioni grandi e piccole che si sono tenute praticamente ogni giorno nelle località più disparate degli Stati Uniti. Leggendo gli annunci pubblicati sui siti, non si poteva non notare che la maggior parte delle proteste locali erano organizzate da piccole coalizioni di “movimento” che comprendevano sezioni sindacali, associazioni ambientaliste e per i diritti civili, attivisti di Black Lives Matter e dei movimenti per il salario minimo e per la legalizzazione della cannabis e gruppi anarchici e della sinistra radicale, qualche volta i Verdi mentre quasi mai i Democratici, le associazioni più vicine a loro o i loro “alleati”. Dal giorno dopo le votazioni le proteste non si sono mai interrotte fino all’Inauguration Day del 20 gennaio quando il passaggio di consegne alla Casa Bianca è stato accompagnato da scontri ed azioni di protesta contro il corteo presidenziale poco partecipato, ma super protetto dalla polizia che ha caricato duramente i manifestanti col lancio di migliaia di candelotti lacrimogeni ed ha effettuato 257 arresti. I democratici si sono fatti rivedere alla manifestazione di Washington della Marcia Delle Donne dove sul palco hanno parlato le icone della cultura progressista Made in Usa come il regista Michael Moore, ma anche la sindaca di Washington Muriel Bowser tutti indossando, come moltissimi altri uomini e donne, un berretto fucsia chiamato pussy-hat (cappello-figa) che è diventato il simbolo della protesta anti-Trump. Per chi crede ai poteri dei social network e a quello che scrivono i giornali, l’idea della marcia sarebbe stata di Teresa Shook, avvocato delle Hawaii in pensione, che aveva lanciato l’appello su Facebook: “E se le donne marciassero a Washington durante l’investitura?”. Insomma, una cornice abbastanza pop e buonista che ha permesso di farsi rivedere in giro anche ai Democratici che nei due mesi che hanno separato l’elezione di Trump dal suo arrivo alla Casa Bianca hanno accettato il risultato senza fare uno straccio di ricorso, a differenza di quello che era successo nel 2000 con Al Gore che aveva perso contro Bush pur avendo preso mezzo milione di voti in più: E, sopratutto, non hanno fatto nulla di quello che avrebbero potuto fare per contrastarlo (ad esempio, nonostante un appello firmato da 6 milioni di persone, i senatori democratici negli ultimi giorni in cui avevano la maggioranza al Senato si sono rifiutati di nominare un nuovo giudice progressista alla Corte Suprema).
Donald Trump, che il 20 gennaio è diventato il presidente degli Stati Uniti (in teoria l’uomo più potente del mondo), come ha detto Stephen King, è “la perfetta rappresentazione di un incubo diventato realtà”. Misogino, autoritario, miliardario figlio di miliardario, costruttore colluso con la mafia italo-americana, amico di Putin e ammiratore del presidente-killer filippino Duterte, talmente famoso per le sue sfuriate e per perdere il controllo che è diventato il protagonista di un talk show televisivo in cui lo spettacolo era lui che alla minima occasione faceva le piazzate. Dopo aver tentato una carriera da attore che gli ha fruttato solo decine di piccole e piccolissime parti in film da lui stesso finanziati, per diventare Presidente degli Stati Uniti ha avuto l’appoggio di un’inedita alleanza di estrema destra che va dai complottisti e dai negazionisti del clima ai suprematisti bianchi, dai sudisti del Ku Klux Klan agli intellettuali scimmiottatori della destra europea di Zero Hedge e della National Policy Foundation (dove l’elezione di Trump à stata festeggiata a colpi di Sieg Heil e saluti romani). Ha preso quasi tre milioni di voti in meno della sua avversaria (che, come avevano puntualmente previsto i sondaggi, ha vinto il “popular vote” col 2,5% in più), ma ha vinto le elezioni dopo aver conquistato la maggior parte degli Stati. Alcuni giorni dopo la vittoria di Trump, il New York Times ha pubblicato “The Map of Two Americas” che fotografa spietatamente contea per contea quella che il quotidiano newyorkese definisce “la più grande divisione politica all’interno degli Stati Uniti dalla fine della Guerra Civile”. Le aree dove ha vinto Trump corrispondono al 85% del territorio americano. Nelle aree dove ha vinto la Clinton, però, vi vive il 54% della popolazione statunitense e vi viene prodotto il 72% della ricchezza nazionale con un reddito medio di 55-60mila dollari l’anno contro i 36-42mila dellaTrump’s America. Trump è un presidente impopolare che nel giorno del suo insediamento ha subito anche l’onta di venire accompagnare alla Casa Bianca dal corteo presidenziale più striminzito di sempre, peraltro dopo aver annunciato ai quattro venti che sarebbe stata la più grande manifestazione della storia americana. Al tempo stesso è, però, forte dell’appoggio di un’estrema destra aggressiva e militante dentro e fuori degli Stati Uniti che ha l’occasione di riassettare l’orologio della storia.
Per questo oggi, ad essere in prima fila nelle proteste contro Trump non ci sono tanto gli elettori della Clinton (se non in parte alle educate manifestazioni della Women’s March) quanto i movimenti. A partire dalla seconda metà degli anni negli Usa è iniziato un lungo e ininterrotto processo di radicalizzazione che è partito dalle delusioni per la presidenza Clinton (che avrebbe dovuto chiudere l’era reaganiana e che invece ha segnato la sua presidenza coi trattati internazionali neoliberisti, la guerra del Kosovo e la legge dei tre colpi che condanna all’ergastolo i responsabili recidivi di reati minori) e che ha affrancato i movimenti dalla politica istituzionale. A partire da Seattle nel ‘99 gli Stati Uniti sono stati attraversati da mobilitazioni di massa come Occupy Wall Street e Black Lives Matter, ma anche da una miriade tanto di lotte locali per fermare lo scempio ambientale, quanto di vertenze di lavoro e sindacali e di iniziative incentrate su singoli temi come il movimento per la legalizzazione della cannabis o quello per il salario minimo di quindici dollari l’ora. Negli anni molte di queste lotte hanno prodotto anche dei risultati importanti, di cui la più recente e significativa è stata quella degli attivisti Sioux che dopo tre mesi di scontri durissimi a Standing Rock sono riusciti ad ottenere il blocco dell’oleodotto Dakota Access Pipeline. Nella stessa notte in cui Trump ha vinto le lezioni sono stati approvati i referendum per la legalizzazione della marijuana ad uso ludico in California, Maine, Massachusetts e Nevada, mentre in Florida, Arkansas, North Dakota e Oklahoma sono state approvate quattro proposte per rendere legale la produzione e l’accesso alla cannabis ad uso terapeutico. In California e nell’Oregon sono stati approvati invece referendum sul salario minimo che grazie a scioperi e mobilitazioni è già in vigore in molti stati e contee. Tutte queste conquiste con l’arrivo di Trump potrebbero facilmente saltare. Il Dakota Access come altri oleodotti è stato bloccato con decreti dell’amministrazione Obama che possono essere facilmente annullati dalla nuova amministrazione Trump. Allo stesso modo Trump può intervenire contro gli Stati dove ora la marijuana è legale, visto che per le leggi federali è ancora proibita. Trump promette inoltre di fare una legge federale che proibisca accordi sul salario minimo a livello locale o per contratto nazionale. Per far capire di che pasta è fatto, nel suo primo giorno da presidente Trump ha fatto sparire dal sito della Casa Bianca le pagine sui diritti civili, il cambiamento climatico e i diritti Lgbt. La sezione sul cambiamento climatico è stata sostituita da An American First Energy Plan, in cui non si parla di clima e si afferma che il presidente “è impegnato a eliminare le politiche non necessarie e dannose come il Climate Action Plan”. La pagina sui diritti civili è stata rimpiazzata dalla sezione Standing Up for Our Law Enforcement Community, in cui i timori su come la polizia agisce vengono sostituiti dalla richiesta di aumentare il numero delle forze dell’ordine.
Alla fine del 1983 la rivista americana High Times (all’epoca la più importante pubblicazione del mondo dedicata alla cannabis culture) ripubblicò col titolo “One Million Of Prisoners Ago”, cioè “Un milione di detenuti fa”, l’editoriale con cui nel marzo del 1982 aveva commentato le dichiarazioni del Presidente Reagan in cui aveva annunciato una nuova fase della “war on drugs” segnata da una politica di “tolleranza zero” nei confronti di tutte le sostanze proibite ed in particolare della marijuana. Secondo High Times, questa politica sarebbe stata un fallimento anche e semplicemente perché questo avrebbe significato raddoppiare il numero dei detenuti e nelle carceri americane (che alla fine del 1981 ospitavano poco meno di 400mila persone) non ci sarebbe stato posto per così tanta gente. La realtà, però, superò presto le peggiori previsioni e a settembre dell’anno dopo c’erano un milione di persone in più in galera e, visto che le prigioni erano sovraffollate erano state riaperte quelle che erano state chiuse, i vecchi manicomi e in Texas e in Arizona persino i campi di concentramento utilizzati durante la Seconda Guerra Mondiale. Così High Times decise di ripubblicare l’articolo originale a monito di quanto sia sbagliato sottovalutare le minacce anche quando potrebbero sembrare improbabili.
L’articolo di High Times è stato spesso citato nei siti e nelle pubblicazioni “di movimento” statunitensi in queste settimane dopo l’elezione di Donald Trump che per la sua presidenza ha promesso di fare molto di peggio di quello che ai suoi tempi era riuscito a fare Reagan. Per non riportare indietro un’altra volta l’orologio della Storia, i movimenti statunitensi stanno scendendo in campo contro Trump in uno scontro di cui non è possibile prevedere l’esito ma che comunque sarà fondamentale per il futuro degli Stati Uniti e non solo.
robertino