Con il termine “freezing” (congelamento) alcuni autori definiscono la situazione che si venne a determinare, dopo la fine della seconda guerra mondiale, con la divisione del mondo in due “campi”: il “campo capitalista” (liberale) ed il “campo socialista” (meglio definibile come capitalismo di stato). Questa situazione, sommata alle lotte di liberazione nazionale nelle ex colonie, è stata la causa per settanta anni di una limitazione dell’espansione del mercato mondiale capitalistico, che è una caratteristica permanente ed ineliminabile del modo di produzione capitalistico, pur con le sue diverse fasi. In particolare, per quanto riguarda il mercato mondiale della forza lavoro, il freezing ha determinato un blocco, relativo ma importante, della possibilità di delocalizzare la produzione in paesi a costo del lavoro più basso e/o delle migrazioni, a livello mondiale, della forza lavoro (fatta eccezione per le migrazioni dei contadini del sud Italia verso il nord e dei lavoratori turchi in Germania).
Il prolungarsi di questa situazione, che ha reso più rigido il mercato del lavoro, limitando così al minimo l’esercito industriale di riserva e, di conseguenza, anche la concorrenza fra i lavoratori, fino a raggiungere quasi la piena occupazione, ha reso più difficile per i capitalisti occidentali (Stati Uniti, Canada, Europa occidentale + Giappone) fare affidamento sulla riduzione dei salari operai e sull’aumento dell’orario di lavoro (plusvalore assoluto) per massimizzare i loro profitti.
In seguito a tutto ciò i capitalisti occidentali sono stati costretti dalla concorrenza ad operare forti investimenti in capitale fisso (nuove industrie e macchinari, catena di montaggio, macchine a controllo numerico, primi robot) allo scopo di aumentare in maniera esponenziale la produttività del lavoro, da una parte per aumentare la massa dei profitti e, dall’altra, per ridurre il valore delle merci che rientrano nel consumo della forza lavoro e, di conseguenza, ridurre il tempo di lavoro necessario alla riproduzione della forza lavoro stessa (plusvalore relativo).
Questo insieme di circostanze, a dir poco eccezionali, sono state all’origine dei “trenta anni gloriosi”, ovvero della “golden age”, il periodo di più intenso sviluppo nella storia del capitalismo, che ha avuto come conseguenza una integrazione, parziale ma rilevante, della classe operaia occidentale entro i limiti delle compatibilità capitalistiche permessi dallo straordinario aumento della produttività del lavoro.
Successivamente però l’aumento incontrollabile del capitale costante (impianti, macchinari, ecc.) ha reso progressivamente più difficile la valorizzazione del capitale investito, nonostante l’aumento della massa del plusvalore, portando alla inevitabile caduta sempre più grave del saggio di profitto medio ed al conseguente rallentamento, o blocco, degli investimenti. Il che, unito ad alcuni fenomeni di “profit sqeeze”, ovvero di erosione dei profitti determinata dai contemporanei forti aumenti salariali, ha portato alla grave crisi capitalistica degli anni ’70, le cui conseguenze sono ancora oggi lontane dall’essere risolte.
Controtendenze Capitalistiche nella Crisi
La prima risposta capitalistica alla crisi degli anni ’70 è stata di tipo monetario. Nel 1971 l’amministrazione Nixon ha abolito la parità dollaro/oro stabilita dagli accordi di Bretton Woods nel 1944: in seguito a ciò la Federal Reserve ha potuto stampare una gran quantità di dollari per tamponare i costi della crisi. Questa gran quantità di denaro ha contribuito alla formazione di un numeroso ceto medio, non più legato alla produzione ma ai servizi, alle infrastrutture, alla finanza. Inoltre i paesi con una economia capitalistica più debole, con la fine dei cambi fissi, hanno potuto svalutare la propria moneta in modo che le proprie merci diventassero più competitive sui mercati internazionali. Questo ha prodotto inflazione sui mercati interni ed un rapido aumento del debito pubblico: ora, l’inflazione punisce i lavoratori a reddito fisso (operai, impiegati, pensionati) mentre favorisce chi può scaricare l’inflazione sui clienti (commercianti, figure professionali, ecc.)
La crisi degli anni ’70 ha scatenato un processo impressionante di concentrazione e centralizzazione dei capitali che si è tradotto in una catena di fusioni e acquisizioni che ha portato alla formazione di potenti multinazionali che oggi dominano il mercato mondiale. Conseguenza di questo processo è stata la liberazione di ingenti quantità di capitale monetario che è andato a gonfiare i mercati finanziari dando il via alla speculazione finanziaria fino allo scoppio della bolla dei mutui subprime nel 2007/08.
Negli anni ’80 poi cominciano i decentramenti produttivi e le delocalizzazioni nei paesi a basso costo del lavoro, a cominciare dalla Cina, dove in quegli anni venivano istituite le prime “Zone economiche speciali” e dai paesi del sud est asiatico, le cosiddette “tigri asiatiche”, dove però si ebbe presto una prima crisi finanziaria nel 1987. Questo processo, detto poi globalizzazione, si incrementa negli anni ’90 con la caduta del muro di Berlino e la fine delle lotte di liberazione nazionale nei paesi ex coloniali, con l’apertura alla penetrazione capitalistica nei paesi dell’est europeo ed africani.
Conseguenza di questa apertura è anche un nuovo inizio della mobilità mondiale della forza lavoro, altrimenti detta emigrazione, nonché la formazione di un immenso esercito industriale di riserva e di una sovrappopolazione che da relativa è diventata assoluta. Tutto questo ha portato a vastissimi processi di precarizzazione della forza lavoro ed a un calo dei salari dei lavoratori anche nei paesi capitalistici più sviluppati (negli Stati Uniti di circa la metà) con il conseguente affermarsi dei movimenti e dei partiti cosiddetti “populisti” o “sovranisti”.
In Italia in particolare tutte queste controtendenze si sono affermate in maniera virulenta. Chi non ricorda l’inflazione a due cifre della seconda metà degli anni ’70, che ebbe come contrappeso l’emissione di BOT al 20% e più, con la formazione del cosiddetto “BOT people” in cui si imbarcarono anche molti operai, fino all’abolizione della “scala mobile” nel 1983.
I processi di ristrutturazione capitalistica hanno assunto in Italia un carattere di vera e propria deindustrializzazione con la chiusura di grandi fabbriche (a Milano la Innocenti, Alfa Romeo, Breda, Falck, Pirelli, Faema, Motta/Alemagna ecc. a Ivrea la Olivetti) o con il loro importante ridimensionamento, a cominciare dalla Fiat. A ciò ha contribuito anche lo smantellamento o la privatizzazione del settore industriale pubblico, a cominciare dall’IRI, che aveva caratterizzato la crescita del sistema misto dell’economia italiana dagli anni del fascismo agli anni del dopoguerra e del boom economico. Le privatizzazioni hanno interessato i settori economici di base (siderurgico come l’ILVA, elettrico, ecc.), le infrastrutture (autostrade, ferrovie, ecc.), i servizi (poste e telecomunicazioni, sanità, ecc.), svendendo i pezzi migliori dell’industria pubblica al fine di aumentare i profitti di discutibili investitori privati, i cosiddetti “capitani d’industria”, da Tronchetti Provera a Colaninno.
Piccolo Era Bello negli Anni ’80
Il formarsi della piccola–media impresa in Italia ha avuto diverse cause: 1) la tradizione delle piccole botteghe artigiane cittadine, di buona qualità, risalenti al Rinascimento; 2) negli anni della formazione della grande industria nazionale il diffondersi dell’“indotto” dipendente dai poli industriali; 3) la formazione di “zone” specializzate in particolari produzioni, come Prato per il tessile o Vigevano per le scarpe, con larga diffusione del lavoro in piccole officine o a domicilio; 4) da un punto di vista giuridico, più recentemente, il fatto che lo Statuto dei Lavoratori non si applicava alle fabbriche con meno di 15 dipendenti, quindi con possibilità di licenziare liberamente, ecc.; 5) la conduzione spesso su base familiare delle piccole imprese con i relativi rapporti di auto sfruttamento camuffato.
Inoltre è abbastanza noto che il boom delle (finte) “partite iva” mascherava o forme di lavoro parasubordinato i cui costi venivano scaricati sul lavoratore o esternalizzazioni di servizi all’industria (manutenzioni, pulizia ecc.) arrivando a forme estreme di autosfruttamento del lavoratore. Come poi si è fatto con le cooperative e gli appalti. Ciò non toglie che tutto questo è stato usato per ideologizzare ed esaltare il “lavoro autonomo” di prima o seconda generazione allo scopo di svalorizzare il lavoro operaio ed il cosiddetto “posto fisso garantito”. Non con l’entrata dell’euro, ma con la crisi del 2007/2008 è venuta in piena luce la manovra che ha portato alla piena flessibilità e precarietà del lavoro.
Negli anni ’80 con le chiusure delle grandi fabbriche, le delocalizzazioni, il decentramento produttivo, le PMI assurgono a “modello produttivo” tipicamente italiano, sistema della cosiddetta “imprenditorialità diffusa”, con la creazione dei “distretti produttivi” sostenuti dalle istituzioni locali. È il trionfo di quello che venne chiamato “modello veneto”, un modello basato su: 1) salari in declino ed alta intensità del lavoro, anche qui sul modello familiare o di comunità locale; 2) un sistema di detassazione sostenuto dalle istituzioni locali e nazionali, quando non di evasione fiscale; 3) la dipendenza dal finanziamento delle banche più o meno “cooperative” o “popolari”, finanziamento comunque piuttosto facile all’epoca; 4) una politica monetaria nazionale basata sulla “svalutazione competitiva” e su un robusto tasso di inflazione. Tutto questo contribuiva al formarsi di una “classe media” di nuovi ricchi arroganti, di nuovi imprenditori, intrecciati profondamente con banchieri, politici locali e nazionali, portaborse, procacciatori di affari, public relations men, ecc., che nonostante i colpi subiti ai tempi dei decretoni di Amato e di tangentopoli, si è riprodotta comunque in peggio per tutto il ventennio berlusconiano. Per non parlare dell’economia criminale.
Tuttavia nel frattempo si producevano degli sconvolgimenti sostanziali in campo economico: 1) l’introduzione dell’euro quale espressione monetaria del grande capitale finanziario sovranazionale; 2) la grande crisi avviata negli USA nel 2007/2008 con i mutui subprime; 3) la “globalizzazione” dei mercati internazionali con l’irrompere di competitors a basso costo del lavoro come la Cina e altri. Di fronte a questi fenomeni la risposta delle PMI è stata la più varia ma comunque disastrosa: 1) la chiusura della fabbrica con spostamento dei capitali nel settore finanziario e speculativo; 2) la delocalizzazione in nazioni a più basso costo del lavoro come Polonia, Romania, Albania ecc.; 3) il calo dei salari in Italia con l’uso del lavoro precario, degli appalti, delle cooperative, del lavoro sottopagato degli extracomunitari, ecc.; 4) solo una parte minoritaria delle PMI riesce a diventare competitiva a livello mondiale attraverso innovazioni tecnologiche rivolte soprattutto a produzioni di lusso o di nicchia tradizionali del “made in Italy”.
Rimangono comunque immutati i punti di debolezza della PMI, cioè essenzialmente: 1) la dipendenza da un sistema bancario, oggi profondamente mutato, molto centralizzato e rivolto soprattutto alle operazioni finanziarie, piuttosto che al finanziamento dell’“economia reale”; 2) una difficoltà permanente all’innovazione tecnologica, persistendo invece il sistema di bassi salari, precarietà del lavoro, prolungamento della giornata lavorativa, alta intensità del lavoro ecc., quindi bassa produttività e basso livello di occupazione, oltre che carenza di formazione dei dipendenti e di risparmio energetico; 3) una politica monetaria nazionale allineata alle esigenze del grande capitale finanziario che passa sotto il nome di “austerità”. I tempi quindi sono molto difficili per la PMI, all’interno del declino strutturale del capitalismo italiano che è parte, comunque, del declino generale del capitalismo nel suo complesso.
Visconte Grisi