Alle origini
Il Movimento per la Vita (MpV) prende forma a Firenze nel 1975, in pieno fermento sul tema dell’aborto. Nasce attorno a un gruppo di giovani cattolici, “Iniziativa e collegamento”, che lancia una raccolta firme con il documento Dichiarazione in difesa del diritto alla vita. Il MpV si sviluppa inizialmente senza appoggi partitici, ma con il sostegno di volontari legati al mondo ecclesiale, ed è guidato da figure come Carlo Casini. È in questo contesto che viene fondato il primo Centro di aiuto alla vita, segnando l’inizio di un’attività strutturata e persistente sul territorio. Dopo il disastro di Seveso, che accende i riflettori mediatici sul tema, l’aborto entra stabilmente nel discorso pubblico e in particolare l’attività del movimento si intensifica proprio contemporaneamente all’ammorbidirsi delle posizioni della DC nel 1977. Con l’avvicinarsi del dibattito parlamentare e il progressivo ammorbidimento della linea della Democrazia Cristiana, il Movimento intensifica il proprio impegno e avanza una propria proposta di legge su “accoglienza della vita umana e tutela sociale della maternità” nella quale era prevista «la costituzione di centri di accoglienza e difesa della vita umana», con lo scopo di rimuovere le cause sociali, psicologiche ed economiche dell’aborto.
Il 22 maggio 1978 infine viene approvata la legge 194 che soli due anni dopo si trova di fronte alla sfida di ben due referendum, uno da parte del MpV e uno da parte del Partito Radicale. Con il referendum all’orizzonte, il Movimento formula due proposte: una “massimale”, che punta all’abrogazione totale della legge sull’aborto, e una “minimale”, che consente solo l’interruzione terapeutica di gravidanza, previa decisione medica. La Corte Costituzionale esclude la prima, provocando la reazione critica della Chiesa ma trovando il consenso di molti intellettuali cattolici, che rivendicano la legittimità del dissenso interno alla dottrina. La CEI, pur ribadendo la contrarietà all’aborto, finisce per accettare un compromesso di tipo politico: meglio la proposta minimale del Movimento che la legge vigente, e meglio ancora la 194 rispetto all’alternativa radicale.
Dopo la sconfitta al referendum del 1981, il Movimento per la Vita rivede la propria strategia. Comprende che l’opposizione assoluta non paga in una società ormai favorevole alla legge e decide di operare all’interno delle possibilità offerte dalla normativa, tra cui l’art.2, che permette a consultori e ospedali di avvalersi della possibilità di collaborare con organizzazioni che si occupano di “aiuto alla maternità”, puntando pertanto sull’azione sociale dei Centri di aiuto alla vita, non a caso in forte espansione proprio in quegli anni. A metà degli anni Novanta, Carlo Casini e il Movimento rilanciano un dialogo più proficuo con la politica chiedendo al governo un impegno concreto a favore del diritto alla vita e della famiglia, sulla scia dell’enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II, che aveva condannato l’aborto come negazione del diritto fondamentale alla vita e chiamato per un maggiore impegno e attivismo cristiano sul tema.
Dal Nuovo Millennio: cosa cambia
Gli anni Duemila segnano una svolta nella retorica di coloro che ormai sono chiamati pro-life, sempre più integrata nei discorsi politici globali. Un episodio emblematico arriva dagli Stati Uniti: il 22 gennaio 2002, pochi mesi dopo l’attacco alle Torri Gemelle, il presidente George W. Bush proclama la “Giornata nazionale della santità della vita”, ribadendo un legame sempre più esplicito tra sicurezza, identità nazionale e difesa della vita sin dal concepimento. In quegli stessi anni, anche in Italia il fronte anti-abortista si riorganizza, dando vita a una galassia di movimenti che evolve rispetto al passato: accanto al Movimento per la Vita – che nel frattempo conta oltre 600 sedi e circa 20mila iscritti – emergono nuove sigle e alleanze trasversali, capaci di unire gesuiti, membri di Comunione e Liberazione e dell’Opus Dei, religiosi, politici di partiti di centrodestra e centrosinistra, fino a formazioni neofasciste come Forza Nuova.
Il focus non è più solo la legge 194, ma si estende alla bioetica e alla difesa dell’embrione, soprattutto in relazione alla fecondazione assistita. Cambia anche il linguaggio: termini come “genocidio” o “crimine contro l’umanità” entrano nel lessico pro-life, mentre la condanna dell’aborto si appoggia a presunte basi “scientifiche”, come il riferimento alla sofferenza fetale o alle tecnologie di imaging prenatale.
Questo nuovo attivismo si manifesta in modo visibile al Congresso Mondiale delle Famiglie di Verona nel 2019, un evento che riunisce esponenti e finanziatori di un fronte internazionale sempre più coordinato. Tra gli sponsor figurano Toni Brandi, fondatore di ProVita (nata nel 2012), il gruppo spagnolo ultraconservatore CitizenGo e personalità di spicco della destra religiosa americana. Tra questi Brian Brown, presidente dell’Howard Center for Family, Religion and Society e vicino a Donald Trump, ma anche Allan Carlson, già membro dell’amministrazione Reagan. Il caso Verona conferma la piena transnazionalizzazione del discorso antiabortista: un’alleanza globale capace di connettere movimenti locali, ideologie religiose e attori politici di varia provenienza sotto una comune battaglia “in difesa della vita”.
Rinnovato dal nuovo clima internazionale delineato dalla sentenza Dobbs contro Jackson – una vera e propria vittoria antiabortista – che ha eliminato il diritto all’aborto riconosciuto a livello federale dal 1973, anche in Italia il nuovo governo Meloni ha riconosciuto una serie di ulteriori “privilegi” ai gruppi pro-life.
Il 23 aprile scorso il Senato ha approvato un emendamento al Decreto legge 19/2024. Questo emendamento consente di finanziare, attraverso i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), le associazioni antiabortiste affinché operino all’interno dei consultori. Le Regioni potranno infatti «avvalersi della collaborazione di soggetti del terzo settore con comprovata esperienza nel sostegno alla maternità» per organizzare i servizi consultoriali. In pratica, ciò apre le porte ai gruppi contrari all’aborto. Non è una novità assoluta, ma ora questa possibilità gode di un appoggio politico ufficiale, sancito per iscritto.
La presenza di associazioni antiabortiste nei consultori, dunque, non contrasta formalmente con i frequenti richiami di Giorgia Meloni al rispetto della legge 194, che in Italia disciplina l’interruzione volontaria di gravidanza e che da tempo è oggetto di critiche da parte del movimento transfemminista. L’articolo 2 della legge stabilisce infatti che «i consultori, sulla base di specifici regolamenti o convenzioni, possono avvalersi della collaborazione volontaria di formazioni sociali di base e associazioni di volontariato idonee, anche per il sostegno alla maternità difficile dopo il parto». È in base a questo articolo che, nel tempo, i gruppi antiabortisti hanno potuto trovare spazio nei consultori, spesso sotto diverse denominazioni. Oggi, però, il sostegno governativo è palese: cambiano i finanziamenti e soprattutto chi decide quali associazioni potranno operare nei consultori — non più l’équipe multidisciplinare interna, ma direttamente le Regioni.
Di conseguenza, questi spazi dedicati alla salute subiranno una decisione imposta dall’alto. È prevedibile, inoltre, che aumenteranno le disparità territoriali, con differenze significative nell’accesso e nella qualità dei servizi offerti da una Regione all’altra, a seconda degli orientamenti politici locali.
Un presente/futuro inquietante
Negli ultimi due anni, il fronte anti-abortista italiano ha trovato nuovo slancio, favorito da un clima politico nazionale e internazionale che ne legittima narrazioni e iniziative. Alcune proposte legislative e prese di posizione istituzionali mostrano una strategia sottile ma efficace: dalla proposta di attribuire personalità giuridica al feto, al riconoscimento del “doppio omicidio” nei casi di femminicidio di donne incinte, fino alla recente proposta di adozione degli embrioni avanzata dalla ministra Eugenia Roccella. Questi interventi, pur presentati come misure di tutela, implicano tutti una ridefinizione dello statuto giuridico dell’embrione o del feto, con il rischio concreto di minare trasversalmente il diritto all’aborto. È proprio questo il punto: nessuna di queste iniziative tocca formalmente la legge 194, coerentemente con quanto dichiarato più volte anche dal governo in carica. Eppure, agendo ai margini del dispositivo legislativo, queste proposte finiscono per indebolirne l’efficacia e metterne in discussione i presupposti.
D’altra parte, è la 194 stessa – con il suo impianto compromissorio, i margini interpretativi e l’ambiguità tra diritto e tutela – ad aver aperto spazi di ambivalenza che oggi vengono sfruttati per colpire l’autodeterminazione senza abrogare nulla. In questo scenario, il futuro che si delinea non è quello di un attacco frontale, ma di un’erosione sistematica e silenziosa, in cui il diritto all’aborto resta formalmente intatto ma progressivamente svuotato di senso e di applicabilità.
Questa strategia non è isolata: anche a livello internazionale si assiste a una simile dinamica di riarticolazione normativa e culturale. Negli Stati Uniti, dopo la sentenza Dobbs contro Jackson molti Stati hanno introdotto divieti totali o restrizioni severe sull’aborto. Tuttavia, anche lì, accanto alla repressione diretta, si moltiplicano le misure indirette: criminalizzazione delle donne e dei medici, restrizioni all’uso della pillola abortiva, sorveglianza digitale. In entrambi i contesti, si delinea un presente/futuro inquietante in cui l’aborto resta formalmente possibile – negli Stati Uniti non in tutti gli Stati – ma sempre più difficile da praticare. Si tratta di un’offensiva che unisce nazioni diverse in una comune strategia di controllo delle capacità riproduttive, agendo non tanto con divieti assoluti ma con un lento e meticoloso svuotamento del diritto.
La risposta è e sarà sempre la stessa: la risposta è dal basso!
In un contesto in cui il diritto all’aborto viene eroso con strumenti normativi indiretti, stretto tra proposte legislative insidiose e narrazioni paternalistiche, la risposta più radicale e necessaria continua a venire dal basso. È da qui che nasce Facciamo da noi – un festival sull’aborto, che si terrà il 9, 10 e 11 maggio a Pisa negli spazi di Exploit e della Casa della donna, organizzato dalla nostra collettiva Obiezione Respinta (OBRES). Siamo un gruppo nato dal basso e da un’esperienza concreta di mutualismo – la mappatura degli obiettori e l’accompagnamento all’IVG – che nel corso degli anni è cresciuto, così come il lavoro per la costruzione di nuove pratiche per garantire un aborto libero, sicuro, gratuito, trasformandosi in un vero laboratorio politico transfemminista, capace di creare reti, pratiche e immaginari oltre l’emergenza.
In particolare, il 10 maggio alle ore 18, la tavola rotonda ospitata a Exploit vedrà dialogare alcune tra le realtà più attive nella lotta internazionale per un aborto libero, sicuro e gratuito: Shout Your Abortion dagli Stati Uniti, Socorristas en Red dall’Argentina, Le Planning Familial dalla Francia e l’Ad’iyah Collective dal Regno Unito. Un momento di scambio fondamentale per riconoscere che l’attacco ai corpi riproduttivi è globale, ma globale può e deve essere anche la risposta. Dall’Argentina agli USA, dalla Francia all’Italia, l’aborto non è solo un diritto: è una pratica politica che afferma autonomia, crea alleanze e immagina mondi radicalmente diversi. In un presente segnato da regressioni istituzionali, incontrarsi, raccontarsi e organizzarsi rimane l’unico antidoto possibile. Perché lo abbiamo sempre fatto e continueremo a farlo: lo facciamo da noi!
Obiezione Respinta