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Contro la guerra, contro gli stati-Against the war, against all states

Contro la guerra, contro gli stati-Against the war, against all states

Eravamo stati facili profeti nel 1999 all’indomani dei bombardamenti sulla Serbia da parte degli aerei Nato – dei quali era parte la squadriglia italiana inviata dal governo D’Alema – nel prevedere che la politica d’espansione ad Est degli Stati Uniti avrebbe avuto, prima o poi, dei contraccolpi.

L’inserimento, a forza di bombe, nello scenario di una Yugoslavia in decomposizione, con la militarizzazione del Kosovo – le truppe italiane sono ancora lì – evidenziava l’inizio di una politica di avvicinamento militare a quello che rimaneva dell’ex Unione Sovietica approfittando della profonda crisi in cui versava dopo il suo scioglimento e il “libera tutti” alle varie repubbliche federative dal Baltico, all’Ucraina, alla Bielorussia, a quelle asiatiche e caucasiche. Non a caso è lo stesso 1999 che registra la prima entrata di paesi dell’ex Patto di Varsavia nella NATO: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca.

Affossando sul piano concreto le promesse, fatte a Gorbaciov, di non allargamento della NATO nei territori fino ad allora demandati al controllo sovietico – in seguito agli accordi seguiti alla fine della seconda guerra mondiale – con la difesa strumentale della minoranza albanese nei territori serbi, ma maggioranza nel Kosovo, l’alleanza atlantica, su spinta USA, dava inizio alla penetrazione nei paesi baltici, Polonia, Ungheria, Romania, Bulgaria, Cecoslovacchia (favorendone la scissione in due parti) e poi nei Balcani (Albania, Montenegro, Croazia, Slovenia, Macedonia del Nord) associandoli progressivamente sul piano militare.

Così facendo il baricentro delle basi militari USA si è spostato progressivamente ad Est mettendo sotto tiro la Russia, ansiosa a sua volta di ritornare a garantirsi la sua egemonia nell’area slava.

Nel 2008 l’attacco della Georgia – sostenuta dagli USA – alla provincia secessionista dell’Ossezia del sud per il controllo di quel territorio e dell’Abkhazia diede origine a un conflitto breve ma intenso con la Federazione Russa e fu il primo segnale di una ripresa di quest’ultima contro una politica atlantica intesa come di vero e proprio accerchiamento. Accerchiamento teso alla riduzione della Russia a semplice potenza regionale, come successivamente affermato da Obama, per permettere agli USA di concentrarsi sul nemico emergente, la Cina. In risposta, da allora Putin ha perseguito il suo obiettivo di dotare la Federazione di una dotazione bellica di tutto rispetto in grado di riportare la Russia a un ruolo di protagonista sul panorama internazionale, con risultati altalenanti (ricordiamoci della sconfitta dell’alleato armeno nella guerra del Nagorno-Karabakh) e con un’opposizione crescente sul piano interno.

A tutto questo gli USA hanno replicato ritirandosi, quasi tre anni fa, dall’accordo sui missili nucleari intermedi in Europa rilanciando di fatto il processo di riarmo in Europa e proponendo nuovi trattati costruiti sul principio che la Russia non può opporre il veto alla presenza di armi nucleari e convenzionali nei paesi aderenti alla NATO. Armando e sostenendo l’Ucraina, gli USA hanno sostanziato il progetto di ampliamento dell’alleanza atlantica fino ai confini della Federazione in modo ben più significativo di quanto già ottenuto con l’adesione dell’Estonia all’Alleanza nel 2004.

George Kennan, il padre della politica del contenimento dell’URSS ai tempi della guerra fredda, ispiratore delle iniziative di Truman nel dopoguerra, ebbe a dichiarare nel ’97: «L’allargamento della NATO è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda… questa decisione susciterà tendenze nazionaliste e militariste anti occidentali… spingendo la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo».

Quello che registriamo oggi è figlio di quella politica. La Federazione Russa è di fatto una combinazione di poteri oligarchici – l’energetico, il militare, il politico con Putin che fa da baricentro – artefice di massacri in Cecenia e in Siria a fianco di Assad, sostenitrice di dittatori come in Bielorussia e in Kazakistan dove è intervenuta militarmente per reprimere le lotte proletarie, finanziatrice di truppe mercenarie come il Gruppo Wagner, presente in Libia e ora in Mali; e foraggiatrice – e abbiamo avuto modo di vederlo questi giorni in varie città italiane – di gruppi della destra estrema nazifascista e di quella sovranista. Per non parlare degli assassinii di giornalisti e di oppositori, dei nostri compagni e delle nostre compagne in galera, delle condizioni di lavoro e di sfruttamento, delle grandi ricchezze accumulate dagli oligarchi, frutto anche della spoliazione della proprietà pseudocollettivizzata del regime sovietico.

L’Ucraina, dal canto suo, resasi indipendente dalla Russia a partire dal 1991, non ha mai saputo, né potuto sviluppare un’economia in grado di renderla sufficientemente autonoma. Tra i paesi resisi indipendenti dall’URSS è quella che ha pagato il conto più salato per le terapie di restaurazione capitalistica; un dato: tra il 1990 e il 2017 la sua ‘crescita’ economica è stata la quinta peggiore al mondo. Proiettata verso occidente e aprendosi al ‘libero’ mercato non è stata in grado che di vivere di aiuti sia statunitensi che europei, sul sostegno alla moneta del Fondo Monetario Internazionale, sulle rimesse del suo popolo migrante, e ai residui legami socio-economici con la Russia rispetto alla quale ha un debito che supera i tre miliardi di dollari e che difficilmente verrà mai saldato. Preda degli appetiti degli oligarchi ultranazionalisti installatisi al potere dopo la rivolta di Maidan, con la corruzione come dato strutturale della propria esistenza, oggi l’Ucraina è oggetto di quanti vorrebbero la ‘liberalizzazione’ del mercato della terra (il paese è il più grande produttore mondiale dell’olio di girasole e il quarto nella produzione di mais) e di quanto rimane delle imprese statali. L’insurrezione popolare del 2014, cresciuta sull’onda di una profondissima crisi economica, contro il governo filorusso al potere, e che ha visto il sopravvento delle componenti reazionarie e nazionaliste, ha inteso tagliare profondamente il rapporto storico, culturale, politico, economico con la Russia rilanciando nell’immaginario ucraino figure come il collaborazionista dei nazisti Stepan Bandera, o addirittura il nostro Nestor Machkno presentato come l’eroe nazionalista antirusso, spogliato di ogni progettualità comunista libertaria. L’obiettivo, da allora, è stato quello di dare forza alla ‘nazione’ ucraina imponendo una lingua unica in uno stato plurinazionale (significativa la presenza ungherese). Ma è complicato recidere questo rapporto come lo è stato per quello esistente tra la Serbia e il Kosovo. Kiev è considerata dai russi come un riferimento di primaria importanza per lo sviluppo della Russia moderna e per gli ortodossi russi Kiev è come Roma per i cattolici, la metà della popolazione ucraina parla russo (e l’esclusione del russo dall’insegnamento scolastico è stato vissuto come un attacco di marca razzista). Il conflitto che si è acceso nel Donbass affonda le sue radici in questo tentativo di sradicamento, registrando l’opposizione delle milizie russofone che, sostenute da Mosca, rivendicano l’indipendenza e il collegamento con quella che è considerata una sorta di madrepatria. Quattordicimila morti in otto anni sono il frutto di quel conflitto che non ha mai trovato una soluzione, stante la rigidità dei nazionalisti ucraini e gli appetiti delle milizie russofone armate da Mosca. La stessa occupazione della Crimea, con il conseguente controllo del Mar Nero, rientra nello stesso piano di risposta di Putin a quello che è vissuto come un progressivo accerchiamento e ha posto le basi per una progressiva spartizione del paese, come parrebbe capire dalla guerra d’aggressione in atto.

Dietro la crisi attuale c’è, in buona sostanza, una storia di violenza strutturale, di militarismo e di sopraffazione economica. Tutti i soggetti in campo (Russia, Stati Uniti, Nato, UE) hanno un modo di porsi imperialistico, all’esterno dei confini agendo con operazioni militari o economiche per condizionare e eterodirigere i territori e i paesi che ritengono all’interno della propria sfera d’influenza – concetto questo assai variabile e dipendente dalle necessità di approvvigionamento energetico e di conquista dei mercati – e all’interno dei confini reprimendo le proteste popolari, le minoranze critiche, le opposizioni politiche. Se la Federazione Russa oggi invade l’Ucraina, gli USA negli ultimi decenni hanno rovesciato governi solo se minacciavano i loro interessi, scatenando guerre in Iraq e Afghanistan, bombardando la Libia e la Siria, sostenendo Israele nella repressione dei palestinesi. Proporre l’Ucraina come bandiera della libertà e della democrazia a fronte dell’oligarchia russa, per mobilitare le masse (come stanno cercando di fare tutti i mass media al soldo della propaganda) fa semplicemente ridere se non ci fossero le povere vittime cadute sotto le bombe di un gioco delle parti, entrambe figlie del sistema di potere statalista e gerarchico.

L’Ucraina è stata spinta in un vicolo cieco dai suoi pelosi alleati per verificare fino in fondo dove le politiche espansionistiche dell’imperialismo statunitense ed europeo possono arrivare senza scatenare una guerra mondiale; perché per questa c’è ancora tempo e si tratta di verificare prima la reazione della Cina al rafforzamento del supporto a Taiwan. L’aggressione russa, tra l’altro, ha avuto come effetto quello di ricomporre il fronte NATO a tutto vantaggio delle politiche USA.

Pesano inoltre le scadenze elettorali in Russia e lo stato d’isolamento nel quale si trova Biden dopo gli insuccessi dei primi mesi della sua presidenza. Fare la voce grossa, mostrare i muscoli sembra l’unica via d’uscita alle difficoltà incontrate nell’esercizio del potere. Putin usa l’artiglieria per garantirsi il consenso della componente nazionalista della popolazione, Biden fa il duro con Cuba, in termini addirittura più sprezzanti di quelli usati da Trump, per assicurarsi i voti della Florida nelle elezioni di midterm di novembre. Fiumi di soldi USA (solo un miliardo di dollari nel mese di gennaio) ed europei vengono inviati a sostegno dell’armamento ucraino, per prolungare un conflitto che non può che assumere il volto di tutte le guerre: massacri e sofferenze di persone indifese.

E allora, che fare?

Dovremmo schierarci o con l’imperialismo russo o con quello occidentale, quando entrambi perseguono politiche di potenza e di sopraffazione, all’interno e all’esterno dei propri confini? I confini polacchi, ad esempio: strumenti di morte per tutto quel popolo migrante che, in fuga da altre guerre, si è visto respingere nel gelo dei boschi e che ora si aprono per accogliere i profughi ucraini, manodopera qualificata a basso costo per lo sviluppo economico del paese.

Dovremmo schierarci in quella che è una tragica, sanguinaria, guerra di spartizione imperialista dove il patriottismo e il nazionalismo vengono sbandierati per confondere le acque, per nascondere i reali obiettivi della lotta, ossia l’accumulazione capitalista e l’affermazione di potenza degli stati vittoriosi?

Dovremmo piegarci alla prospettiva di un’evoluzione dell’Unione europea in un blocco coerente dotato di un esercito unico e di una politica unica, per diventare parte sempre più attiva nella spartizione del mondo?

Siamo e rimaniamo internazionalisti, contro gli stati, contro il capitalismo, per la rivoluzione sociale.

Qualunque stato, anche quello rivestito delle forme più liberali e democratiche, è necessariamente fondato sul predominio, sulla dominazione, sulla violenza e quindi sul dispotismo. (…) L’imperialismo non è una deviazione dello stato, ma un suo elemento costitutivo: ove regna la forza questa deve senz’altro agire, e per non essere conquistato, lo stato deve farsi stato militare e indi conquistatore. (…) Lo stato, come soggetto astratto di cui si sono appropriati i dominatori, deve essere rovesciato sul piano concreto: il potere deve essere distrutto in modo irreversibile e perentorio, non è contemplabile altra via che la Rivoluzione Sociale per la conquista della libertà popolare”. (Michail Bakunin, Stato e anarchia)

L’unico schieramento possibile è con quanti lottano contro gli imperialismi di qualsiasi specie, gli interventi militari, il nazionalismo; con chi soffre sotto le bombe del potente di turno (in Ucraina, ma anche in Siria, in Yemen, in Etiopia, ecc.); con chi coraggiosamente – come in Russia – manifesta contro la guerra e la politica di distruzione e di morte.

L’unico impegno possibile è nella lotta contro il nostro imperialismo che manda soldati e mezzi a sostegno della NATO, in Lituania come in Romania e nel Mar Nero, oppure li invia nel continente africano a sostegno delle politiche di rapina delle ‘nostre’ imprese e dei ‘nostri’ oligarchi. Oppure ancora li sguinzaglia per le strade delle nostre città e li promuove in ruoli civili (come il generale Figliuolo).

Nessun individuo, nessuna risorsa per la guerra degli stati!

Massimo Varengo

 

AGAINST THE WAR, AGAINST ALL STATES

We had been easy prophets in 1999, in the aftermath of the bombing of Serbia by NATO airplanes (of which the Italian squad sent by the D’Alema government was a part) in predicting that the expansion policy to the East of the United States would have some setbacks at some moment.

The insertion of a decomposing Yugoslavia into international scenarios by force of bombs, with the militarization of Kosovo (where Italian troops still are) showed the beginning of a policy of military approaches to what remained of the former Soviet Union, taking advantage of the deep crisis in which it was sinking after its dissolution and the “free all” of the various federative republics from the Baltic, plus Ukraine, Belarus, and the Asian and Caucasian nations. It is no coincidence that 1999 saw the first adhesion to NATO of former Warsaw Pact countries: Poland, Hungary, Czech Republic.

By putting down the promises of a non-enlargement of NATO in the territories hitherto under Soviet control made to Gorbachev (following the agreements made at the end of Second World War), under the pretext of defending the Albanian minority in Serbia, yet majority in Kosovo, the US-led Atlantic alliance started its penetration in the Baltic countries, in Poland, Hungary, Romania, Bulgaria, former Czechoslovakia (favouring its split into two parts) and then in the Balkans (Albania, Montenegro, Croatia, Slovenia, North Macedonia) by gradually associating them on a military level.

In doing so, the centre of gravity of the US military bases has gradually shifted to the East, putting under fire Russia, which was in turn anxious to recover its hegemony in the Slavic area. In 2008, the US-backed Georgian attack to the secessionist provinces of South Ossetia and Abkhazia for the control of that territories, gave rise to a short but intense conflict with the Russian Federation, being the first sign of this latter’s reaction to an Atlantic policy understood as a real encirclement. This encirclement aimed at reducing Russia to a simple regional power, as Obama later stated, to allow US to focus on their emerging enemy, China. In response, since then, Putin has pursued his goal of providing Russia with a highly redoubtable military endowment capable of returning it to a leading role on the international scene, with mixed results (say the defeat of their Armenian ally in the war of Nagorno-Karabakh) and with growing internal opposition.

To all this, almost three years ago, the US responded by withdrawing from the agreement on intermediate nuclear missiles in Europe, which effectively relaunched the rearmament process in Europe, by proposing new treaties that were built on the principle that Russia could not veto the presence of nuclear and conventional weapons in NATO member countries. By arming and supporting Ukraine, the US substantiated their project to expand the Atlantic Alliance to the Russian Federation’s borders in a much more significant way than what they already achieved when Estonia joined the Alliance in 2004. George Kennan, the theorist of the USSR containment policy at the time of the Cold War who inspired Truman’s post-war initiatives, declared in 1997 that: “The enlargement of NATO is the most serious mistake of the American politics since the Cold War … this decision will raise anti-Western nationalist and militarist tendencies … pushing Russian foreign policy in the opposite direction to what we [the US] want”.

What we see today is the result of that policy. The Russian Federation is in fact a combination of oligarchic powers (the energetic, the military, the political of which Putin is the centre), which were the responsible of massacres in Chechnya, and in Syria alongside Assad. They are the supporters of dictators like in Belarus and Kazakhstan where Russian forces intervened militarily to suppress proletarian struggles. They are the funders of mercenary troops such as the Wagner Group, operating in Libya and now in Mali. They foster (and we have had the opportunity to see it these days in various Italian cities) of groups of the Nazi-Fascist and sovereignist Far Right. Not to mention the assassinations of journalists and opponents, the imprisonment of our comrades, the people’s conditions of work and exploitation, the great wealth accumulated by the oligarchs also as a result of the privatisation of the pseudo-collectivised properties of the Soviet regime.

After becoming independent from Russia since 1991, Ukraine never managed to develop an economy capable of making it sufficiently autonomous. Among the countries which gained independence from the USSR, it is the one that has paid the highest bill to capitalist restructurings. Only few data: between 1990 and 2017, Ukraine’s economic “growth” was the fifth worst in the world. Projected towards the West and opening up to the “free” market, this state was only able to survive on both US and European aid, on the International Monetary Fund’s support of its currency, on the remittances of its migrants and on the residual socio-economic ties with Russia, with which it has a debt exceeding three billion dollars that is unlikely to ever be paid.

A prey for the appetites of the ultranationalist oligarchs who seized power after the Maidan revolt, with corruption as a structural condition, Ukraine is today the object of the interests of those who would like the “liberalization” of the land market (the country is the largest world producer of sunflower oil and the fourth in corn production) and of what remains of state-owned industries. Following a very deep economic crisis, the popular uprising of 2014 against the pro-Russian government in power, resulted in the empowerment of the reactionary and nationalistic forces, which aimed at profoundly cutting historical, cultural, political, economic relationship with Russia. In the Ukrainian imagination, they relaunched figures such as the Nazi collaborator Stepan Bandera, or even our Nestor Machkno, who was presented as an anti-Russian nationalist hero, by withdrawing all anarchist and communist contents from such figure.

Since then, their goal has been to strengthen the Ukrainian “nation” by imposing a single language to a multi-national state (where the Hungarian presence is significant). Yet, like formerly in the case of Serbia and Kosovo, it is complicated to cut these relations. Kiev is considered by the Russians as a primary place for the development of modern Russia. For the Russian Orthodox, Kiev is like Rome for the Catholics, and half of the Ukrainian population speaks Russian (and the exclusion of Russian from school teaching has been experienced as a racist outrage).

The conflict that broke out in the Donbass found its origins in these attempts for uprooting, and saw the opposition of the Russian-speaking militias which, supported by Moscow, claim independence and a connection with what they consider a sort of fatherland. Fourteen thousand victims in eight years are the result of that conflict, which has never found a solution, given the rigidity of Ukrainian nationalists on the one hand and the appetites of Russian-speaking militias armed from Moscow on the other. Even the occupation of Crimea, with the consequent control of the Black Sea, is part of Putin’s own response to what they experience as a progressive encirclement. He wants to lay the ground for a progressive dishing out of the country, as it would seem to understand from the ongoing aggression war. Essentially, behind the current crisis there is a history of structural violence, militarism and economic oppression. All the subjects on the ground (Russia, United States, NATO, EU) have an imperialistic behaviour. Outside their borders, they act with military or economic operations to condition and rule from outside the territories and countries that they consider to be within their own sphere of influence. Influence is a concept that is highly variable and dependent on the need for energy supply and conquest of markets. Within their borders, they repress popular protests, critical minorities, political oppositions. While the Russian Federation invades Ukraine today, the US overthrew plenty of governments which threatened their interests, making war in Iraq and Afghanistan, bombing Libya and Syria, supporting Israel in its repression of the Palestinians. Proposing Ukraine as the representative of freedom and democracy in front of the Russian oligarchy to mobilize Western masses (as all mass media paid by governmental propaganda are trying to do) is simply ridiculous. Yet, there are poor victims falling under the bombs of a game which is led by two parts which are only two sides of the same statist and hierarchical power system.

Ukraine has been pushed into a dead end by its opportunistic allies to fully test where the expansionist policies of US and European imperialism can go without triggering a world war. Indeed, they consider that there is still time for this as they need first to check China’s reaction to the strengthening support for Taiwan. The Russian aggression, among other things, has the effect of recomposing the NATO front to the benefit of US policies.

The electoral deadlines in Russia and the state of isolation in which Biden finds himself after the failures of the first months of his presidency also weigh heavily. Screaming loudly, showing their muscles seems to be their only solutions to difficulties that they encounter in exercising power. Putin uses ordnance to secure the consent of the nationalist component of the population, Biden threatens Cuba in terms even more contemptuous than those that Trump used to secure Florida’s votes for the November midterm elections. Big amounts of US (one billion dollars only in January) and European money are being sent in support of Ukrainian armament, to prolong a conflict that can only result as all wars result: massacres and suffering of defenceless people.

So what to do? Should we take side with Russian or Western imperialism, which both pursue policies of power and oppression, inside and outside their borders? The Polish borders, for example, are instruments of death for all those migrant people fleeing other wars who have been pushed back into freezing woods. Yet, these borders are now opening up to welcome Ukrainian refugees as they are considered skilled and chap labour for the country’s development.

Should we take side in a tragic, deadly, imperialist splitting up war where patriotism and nationalism are heralded to confound ideas and to hide the real objectives of the struggle, namely the capitalist accumulation and the affirmation of power of the victorious states? Should we surrender to the perspective evolution of the European Union into a coherent military bloc with a single army and a single police, to become an increasingly active part in the division of the world?

Against all that, we are and we remain internationalists, we stand against states, against capitalism, for social revolution. “Any state, even when covered with the most liberal and democratic forms, is necessarily founded on hierarchy, domination, violence and therefore despotism (…) Imperialism is not a deviation of the state, but its constituent element: where force reigns, it must certainly act. To avoid being conquered, every state must become a militaristic state and then a conqueror (…) The state, as an abstract subject that the rulers have appropriated, must be overthrown on the concrete level: power must be irreversibly and peremptorily destroyed. For the conquest of popular freedom, no other way can be contemplated than Social Revolution” (Mikhail Bakunin, State and Anarchy).

Our only possible side is with those who fight against imperialisms of all kind, against all military interventions and nationalisms; with those who suffer under the bombs of the eventual powerful (in Ukraine, but also in Syria, in Yemen, in Ethiopia, etc.), with those (like in Russia) who bravely demonstrates against war and the policies of destruction and death. Our only possible commitment is in the fight against our imperialism that sends soldiers and vehicles in support of NATO, in Lithuania as in Romania and in the Black Sea, or that sends them to Africa to support the robbery policies of “our” companies and “our” oligarchs. The same imperialism that sends these soldiers in the streets of our cities and promotes them in civil roles (like General Figliuolo).

No individuals, no resources for the war of the states!

Massimo Varengo

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