Sono iniziati gli attacchi aerei francesi sulla Siria. Il 27 settembre il Presidente della Repubblica Francese Hollande ha annunciato che sono stati effettuati dei bombardamenti nell’est della Siria presso Deir Ezzor, contro campi di addestramento dello Stato Islamico.
Secondo il quotidiano Le Monde però i primi attacchi sono stati lanciati giovedì 24 settembre contro postazioni nei pressi di Raqqa, città siriana sul medio Eufrate, capitale dello Stato Islamico.
Gli attacchi francesi sarebbero i primi compiuti in Siria nel quadro dell’operazione “Chammal”, lanciata un anno fa contro lo Stato Islamico e che finora avrebbe però limitato gli interventi al solo Iraq.
Nei giorni in cui la tragedia dei profughi siriani causata dalla destabilizzazione creata dalla potenze mondiali era al centro dell’attenzione mediatica, il 7 settembre, nel corso della conferenza stampa semestrale all’Eliseo, Hollande aveva dichiarato che la Francia si preparava a colpire lo Stato Islamico in Siria e aveva riconfermato la posizione nei confronti di Assad, affermando che “deve andare via”. I Mirage francesi hanno iniziato a sorvolare la Siria sin dal 9 settembre per ricognizioni in preparazione di un attacco contro lo Stato Islamico, che secondo la versione ufficiale avrebbe dovuto proteggere la Francia da attacchi terroristici.
Ma per contestualizzare l’attacco francese è bene riepilogare alcuni dei principali eventi degli ultimi mesi.
Nel luglio scorso accordi tra Stati Uniti e Turchia avevano stabilito la creazione di una zona cuscinetto militarizzata lungo il confine tra il territorio turco e quello siriano e la possibilità per gli USA di utilizzare la base aerea turca di Incirlik. Il 28 dello stesso mese il governo di Ankara iniziava a bombardare con l’appoggio della NATO postazioni del PKK in Iraq e Turchia e postazioni dello Stato Islamico in Siria, dove i carri armati turchi colpivano però anche le YPG curde.
Il 7 settembre il Primo ministro britannico Cameron ha annunciato che il 21 agosto la RAF avrebbe compiuto su Raqqa un raid aereo congiunto con l’aviazione USA per colpire i membri di un “complotto jihadista” che pianificava di compiere “atti ignobili e barbarici sul suolo britannico”.
In questo contesto, il 9 settembre, è esplosa la questione dell’intervento russo in Siria. L’invio di mezzi blindati e di alcune decine di soldati presso l’aeroporto di Bassel al Assad nella regione di Latakia, vicino al confine con la Turchia, ha fatto emergere ufficialmente e in modo chiaro l’impegno russo in Siria a difesa dei propri interessi ed in appoggio alle forze governative.
La Russia infatti in territorio siriano dispone della base navale di Tartus, stabilita negli anni settanta, e nel corso di questi anni di guerra in Siria ha appoggiato e supportato sul piano tecnico e militare il Presidente Assad.
Siamo di fronte probabilmente ad una tappa significativa della guerra che devasta la Siria da ormai tre anni. Anche se nel momento in cui scriviamo non possiamo sapere quali saranno gli sviluppi successivi all’assemblea generale delle Nazioni Unite del 28 settembre, è chiaro che i bombardamenti francesi, i raid britannici, l’intervento russo e le operazioni militari dell’Iran e di altri paesi influiranno sulle manovre diplomatiche in atto in questi giorni a New York e saranno poste sul piatto delle trattative.
Nell’aspro confronto pubblico tra le potenze per la creazione di una nuova coalizione “contro il terrorismo” l’oggetto del contendere è la sorte del presidente siriano Assad.
Da una parte infatti la Russia si propone alle potenze occidentali quale mediatore per una coalizione fondata sulla collaborazione con il governo siriano assieme all’Iran e all’Iraq, mentre dall’altra Stati Uniti e Regno Unito, ma soprattutto la Francia puntano alla deposizione di Assad.
Secondo alcuni commentatori la negoziazione sarebbe ormai sul quando si dovrebbe verificare una ormai sicura uscita di scena di Assad. Certo non possiamo sapere quali siano le trame della diplomazia né possiamo seguire le voci della propaganda e della disinformazione sparse dai media ufficiali, ma è chiaro che la questione vera non è se Assad deve o meno restare al potere.
Le potenze che da anni alimentano la sanguinosa guerra siriana certo non si fanno scrupoli morali, la questione non è deporre un tiranno o difendere l’autodeterminazione contro un’aggressione imperialista, ma chi conterà di più nella nuova spartizione della Siria e più in generale del Medio Oriente.
Lo stesso Stato Islamico contro il quale ora starebbero per coalizzarsi tutti i paesi vincitori della Seconda Guerra Mondiale, lo “stato canaglia” perfetto, passa in secondo rispetto al braccio di ferro tra USA e Russia per la spartizione della Siria. Diviene allora ancor più chiaro che lo Stato Islamico, che appare ora come il grande nemico dell’umanità, nuova versione del male assoluto che giustifica ogni guerra, non è che il prodotto di quelle politiche imperialiste che necessitano di forze di sfondamento per creare destabilizzazione e assicurare la penetrazione degli interessi capitalistici. Dopo essere state foraggiate e sostenute anche dalle potenze “occidentali” assieme ad altri gruppi come Al Nusra per combattere contro Assad e contro i curdi della Rojava, le truppe dello Stato Islamico hanno creato un regime autoritario che trova il proprio fondamento ideologico nella religione, e che fonda la propria economia sull’esportazione di petrolio e la guerra.
Nato dalla sopraffazione e dal saccheggio, fondato sul terrore e la superstizione, lo Stato Islamico ci dice molto sulla natura dello Stato.
Questa guerra quindi non si combatte né contro Assad né contro lo Stato Islamico, ma è parte di un più generale scontro tra potenze imperialiste. Certo in Siria la posta in gioco è alta sul piano degli interessi economici e strategici, ma forse la scommessa più grossa è quella politica.
Infatti in gioco non c’è solo la gestione del potere in Siria e la possibile uscita di scena di Assad, ma c’è anche la gestione della questione curda.
Lo Stato Islamico sembra non costituire più, dopo le sconfitte subite negli ultimi mesi, almeno sul piano militare, una concreta minaccia controrivoluzionaria per i cantoni della Rojava, in cui continua la sperimentazione di forme di autogoverno e autogestione, con i contributo attivo di compagni rivoluzionari. La Turchia ha scatenato nei mesi scorsi la guerra nei propri confini contro la popolazione insorta contro la nuova brutale ondata repressiva del governo nelle città delle regioni a maggioranza curda. Chi guiderà una eventuale coalizione in Siria, farà quello che ha fatto finora la Turchia con il consenso della NATO: combattere con ogni mezzo ogni possibile sviluppo rivoluzionario nella Rojava e altrove.
Dario Antonelli