Un vecchio adagio popolare sostiene che quando si ferma la cazzuola ci sono guai in vista. La saggezza popolare – seppur formatasi negli ultimi settant’anni, epoca dell’affermazione della crescita urbana – ha un suo fondamento: difatti quando si ferma l’economia legata al settore immobiliare è sempre un brutto segno. Non indugerò molto oltre sul significato strutturale del valore immobiliare dei terreni e quello che implica il settore della speculazione nelle costruzioni per una quota parte del settore finanziario. Fatto sta che il “cemento” o “il mattone”, giusto per condensare in un nome tutto un settore economico molto complesso, muove non solo interessi ma sostiene ovunque una quota più o meno significativa del PIL nazionale.
Non serve ricordare che la più grossa crisi del nuovo millennio è stata innescata dalla bolla speculativa gonfiatasi sul mercato immobiliare a stelle e strisce; qui sembrerebbe proprio di trovarsi davanti a una crisi innescata nuovamente dalla speculazione immobiliare. C’è però una profonda differenza sulle conseguenze di una crisi che appare sempre più probabile per la Repubblica Popolare Cinese ma che, per il resto del mondo, non porterebbe le medesime conseguenze della bolla dei sub-prime. Il sistema finanziario cinese è isolato e funziona a compartimenti stagni, con la moneta non convertibile, il che da un lato non permette fughe di capitali e dall’altro non consente alle crisi di propagarsi.
Anche se gli input fondamentali della crisi non possono essere comparati, la spinta speculativa rimane la radice di entrambe le crisi; mentre però la prima in fase di collasso ha chiesto aiuto ai fondi pubblici per ammortizzare la caduta e, almeno formalmente, la Federal Reserve era allo oscuro del default imminente, la crisi cinese è un parto della volontà espansiva del governo. Le politiche immobiliari sono state considerate una sorta di volano per stabilizzare la crescita ridistribuendo parte degli introiti statali all’interno di catene di valore locali che avrebbero sostenuto investimenti esteri e portato valuta estera all’interno dell’economia cinese che, essendo “semipermeabile”, soffre di sussulti inflattivi con un aumento del costo del denaro ed un apprezzamento dello yuan molto fluttuante. L’inflazione non danneggia solo le imprese ma un vasto strato della popolazione che non vede aumentare il proprio salario. Per abbattere e sgonfiare la bolla edilizia il governo cerca di limitare le transazioni finanziarie, mettendo così in difficoltà le aziende che devono ripagare le banche: così il cerchio si chiude.
Per tenere attiva la macchina cinese quale miglior volano del cemento? Gli indotti smossi dai clusters delle costruzioni sono e rimangono tra i più variegati: energia, materiali da costruzione, macchinari, movimentazione terra, industria siderurgica, e manifattura di ogni genere. Il tutto ovviamente sostenuto dal consueto modello cinese di defiscalizzazione, zone franche, privilegi per le aziende di bandiera a condimento di mirabolanti azzardi debitori.
La bolla si inserisce in un meccanismo assai complesso generato dalle riforme e dalla modernizzazione forzata del paese. Da un lato il governo che adotta strategie macroeconomiche demandando ai governi regionali l’applicazione delle direttive ma, in buona sostanza, questi devono trovare i fondi necessari per l’attuazione dei programmi. Per delineare la situazione bisogna partire dalla riforma del sistema immobiliare del 1994 che, vietando l’emissione di debito alle amministrazioni locali, ha fatto sì che queste abbiano optato per la vendita di terreni. Tra il 1999 e il 2007, la quantità di terreni convertiti in suolo edificabile ha raggiunto un tasso annuo di circa il 23% e le “vendite” di terreni pubblici sono aumentate del 31%.
Un’altra risorsa è stata la gestione dei debiti con la creazione di società intermediarie che acquistano prestiti dalle banche e ottengono debiti da altre fonti di investimento. Nella crisi finanziaria globale del 2008, gran parte dell’iniezione di liquidità di circa 586 miliardi di dollari in Cina proveniva da prestiti degli investitori e fondi bancari. Per come è strutturato il meccanismo, un improvviso stop all’edilizia danneggerebbe le banche che hanno prestato ingenti fondi ai costruttori e gli interessi di chi ha comprato una casa a 10 e scopre che un anno dopo vale solo 7, se non 5. Le case, quindi, rimangono invendute e quelle poche che sono state acquistate sono vuote, i costruttori non riescono a ripagare i propri debiti con le banche, innescando così la reazione a catena delle insolvenze che si ripercuote a vari livelli, interrompendo alcune filiere e rallentando di fatto la corsa del PIL cinese con conseguenze anche per l’economia globale. Come se non bastasse, la legge cinese non consente ai gruppi immobiliari di patteggiare con i creditori, rendendo estremamente complicato risanare i propri debiti.
L’evidenza della crescita senza uno scopo apparente che non sia la crescita stessa era visibile già da un pezzo. La questione delle città di nuova costruzione rimaste deserte e ribattezzate ghost cities, non sono passate inosservate neanche ai profani della speculazione finanziaria. In questi anni si sono succeduti svariati rapporti e studi sulle “città fantasma” in Cina, dai report televisivi agli studi più attenti di Bloomberg e di una folta schiera di ricercatori. Le immagini di migliaia di grattacieli residenziali vuoti hanno fatto il giro del mondo e, molto spesso, i rotocalchi etichettavano la cosa come una delle tante stravaganze cui la Cina ci ha oramai abituati negli ultimi decenni.
Oltre al dato della stravaganza, però, c’è chi ha avuto sentore che qualcosa non poteva quadrare. Un gioco rischioso si è innescato grazie al capitalismo statale del Partito Comunista Cinese (PCC), un coacervo di economia pianificata e libero mercato che ha scatenato le fantasie più ardite degli speculatori. Nel paradosso rappresentato dall’economia speculativa di stato che, pur in barba alle ortodossie del libero mercato, si sta configurando come l’economia con il più alto tasso di crescita reale degli ultimi tre lustri, lo spazio offerto alla speculazione appare perfettamente incasellato nella strategia politica della Cina. Per mantenere l’elevata crescita economica nazionale, le migliaia di residenze, senza acquirenti, sono state edificate da prestiti governativi o da agevolazioni uniche come la quasi totale assenza di imposte sugli immobili. Un’occasione ghiotta per investire, speculare e avere sempre la garanzia di una copertura fornita dalla potenza di fuoco delle casse statali, almeno fino a questo momento.
La Cina si è così riempita di nuovi quartieri o addirittura nuove città, le quali sono state interamente edificate per specifica volontà dei vari governi regionali. Queste nuove aree urbane cresciute dal nulla sono state realizzate con edifici, infrastrutture, parchi e ipotetici posti di lavoro: un’utopia del capitale, descritta dal New York Times come le città fornite di tutto, tranne delle persone.
Ordos ad esempio, una città della Mongolia, rappresenta forse il paradigma estremo di ghost city, essendo un tempo un villaggio nel deserto con solo duemila abitanti. Grazie alla scoperta di enormi giacimenti di carbone e petrolio, la città ha generato immense quantità di ricchezza e sono stati spesi miliardi per l’urbanizzazione. Tuttavia, l’illusione finì abbastanza presto allorquando l’industria del carbone crollò dieci anni dopo a causa del calo dei prezzi. La nuova città era stata progettata per una capacità di un milione di residenti: in questo momento, conta circa 500.000 abitanti con solo 100.000 residenti.
Ciò a cui assistiamo ora sono enormi piani di sviluppo interrotti e strutture abbandonate. Comprendendo il meccanismo economico e sociale delle ghost cities, è possibile ricostruire i sintomi di un tracollo annunciato. Sembra infatti che il gruppo Evergrande non sia in grado di rimborsare tutti i 572 miliardi di yuan (circa 89 miliardi di dollari) che deve alle banche e ad altri obbligazionisti – questo è ciò che affermano le agenzie di rating e di analisi economica. Ciò potrebbe scuotere l’economia nazionale ma gli analisti affermano, con un buon margine di certezza, che Pechino interverrà per prevenire danni più ampi se Evergrande non riuscisse a gestire una risoluzione ordinata dei suoi debiti.
L’eventualità che un default turbi il mercato immobiliare, interrompendo in modo significativo le vendite e gli investimenti, potrebbe avere effetti macroeconomici di più ampia portata visto e considerato che da solo vale il 29% del PIL cinese. Evergrande ha avuto una acuta crisi di liquidità dopo che il suo debito si è scontrato con le pressioni del PCC per ridurre i carichi del debito aziendale che sono visti come una minaccia per l’economia del paese. Pechino ha fatto della riduzione del rischio finanziario una priorità già dal 2018, in conseguenza di un avvenimento storico: nel 2014, le autorità hanno consentito il primo default delle obbligazioni societarie dalla rivoluzione comunista del 1949. I default sono stati gradualmente autorizzati ad aumentare, nella speranze di costringere i mutuatari e gli investitori a essere più disciplinati; se puoi non pagare i creditori questi cominceranno a temere per i loro denari.
Nonostante ciò, il debito totale delle imprese, del governo e delle famiglie è passato dall’equivalente del 270% della produzione economica annua nel 2018 a quasi il 300% lo scorso anno, inusitatamente alto per un paese del genere. Gli economisti continuano ad affermare che una crisi finanziaria è improbabile: non serve però un vero e proprio crack per fare danni, perché il debito potrebbe trascinare la crescita economica deviando denaro dai consumi e dagli investimenti. La condizione di Evergrande ha innescato una serie di preoccupazioni dal momento che una stretta finanziaria sul settore immobiliare – un’industria che ha di fatto sostenuto lo sviluppo cinese del 1998-2008 – potrebbe portare a problemi per le banche e un crollo improvviso e politicamente pericoloso della crescita economica. La situazione si è venuta a determinare in conseguenza di scelte particolarmente “market friendly” operate dal PCC. Gli edifici e le infrastrutture non vengono costruiti seguendo logiche di pianificazione, cioè in funzione di una domanda reale legata ad uno sviluppo programmato per migliorare le condizioni generali del paese, ma sono regolati dai governi locali, i quali agiscono in maniera randomica, senza una strategia integrata le une alle altre. La motivazione delle azioni apparentemente schizofreniche dei governi locali trova una spiegazione nella modalità di finanziamento regionali: la bolla edilizia ne ha praticamente alimentata un’altra, quella della riscossione fiscale dei comuni, che oggi in molti casi ricavano dalla “vendita” dei terreni più del 50% del totale degli introiti, venendosi così a creare una collusione di fatto tra i costruttori e gli amministratori locali.[1]
In tutto questo va rammentata una delle scelte epocali del PCC ovvero il controllo delle nascite e l’industrializzazione forzata di Deng Xiao Ping degli anni ’70. Se da un lato sono state strategicamente scelte alcune aree da implementare a scapito di zone meno interessanti dal punto di vista economico, il controllo delle nascite, introdotto col duplice scopo di ridurre il peso demografico e la povertà, ha manifestato il suo duplice effetto se misurato su una crescita urbana dettata dalla speculazione. Quindi si giunge alla crisi. Per controllare l’inflazione si congelano i salari e si cerca di portare in casa valuta estera, concedendo la convertibilità a senso unico – ossia si può passare da euro, dollari o sterline in yuan ma non il contrario.
Per evitare scoperti mastodontici si opera per tenere bassi i debiti o si spinge per un rientro, il che può avvenire solo se le imprese più indebitate riescono a piazzare i prodotti – in questo caso vendere case. Il guaio è che le case sono state acquistate in gran parte come investimento ma la svalutazione immobiliare ha frenato tali investimenti: il cittadino medio quelle case non può permettersele o anche quando potesse non gli interessano, essendo inserite in zone magari distanti dal posto di lavoro o assolutamente deserte. L’inflazione residenziale fa i conti con il rallentamento demografico voluto dal PCC, che sta facendo retromarcia su questo aspetto, dato che pare proprio che ci siano più case di quella che è l’effettiva necessità. Da qui la bolla che sta dando grattacapi non solo al governo cinese ma a chi sulla crescita cinese sta agganciando la speranza di restare a galla, Europa in prima fila.
Come accennato poc’anzi, un default del settore immobiliare non genererebbe un effetto domino tipo quello dei sub-prime vista la struttura del sistema economico cinese. Avrebbe però sicuri effetti su investimenti in altri settori, dal momento che la Cina è impiegata su più fronti commerciali e infrastrutturali in tutti i continenti: un depotenziamento dei suoi investimenti in una fase di stagflazione diffusa avrebbe conseguenze in quelle economie già deboli e non interessate dagli investimenti green di USA e UE. Anche le stesse economie delle due Unioni che tanto fanno affidamento sugli investimenti cinesi potrebbero però cominciare a capire di aver fatto i conti senza l’oste. Ad esempio, se per rientrare della crisi la Cina esigesse alcuni crediti pregressi ad esempio con lo Zio Sam? In una situazione nella quale Biden non si fa scrupoli a dire che difenderebbe Taiwan con ogni mezzo, esigere dei pagamenti porterebbe a una crisi di portata globale. Noi, come sempre, siamo presi tra due fuochi grazie alla sgradevolissima presenza militare a stelle e strisce nel Mediterraneo, dietro l’uscio di casa e in cielo.
Ecco come le scelte strategiche di un paese hanno effetti sul resto del globo, ecco in parte spiegato come un fenomeno quantitativamente esteso possa riverberarsi negativamente sulla qualità di altri fattori. La speculazione locale cinese quantitativamente spropositata rischia di inasprire situazioni create da altre amministrazioni statali altrettanto spregiudicate. Come sempre a farne le spese è la popolazione, che nella migliore delle ipotesi pagherà il conto della crisi digerendo le solite manovre lacrime e sangue.
J. R.
NOTE
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In realtà non vi è alienzione permanente di suolo pubblico ma una concessione onerosa a lungo termine (fino a 90 anni) il cui costo non è rateizzato ma viene corrisposto in unica soluzione all’atto della stipula.