Ci vogliamo viv3. Mettere fine al dominio sui corpi

Martina Carbonaro aveva quattordici anni, è stata uccisa a pietrate da quello che i media hanno continuato a chiamare il fidanzato, ostinandosi a rimarcare proprio quel legame che Martina aveva voluto spezzare. Il ragazzo poco più grande di lei che l’ha ammazzata, ricoperta di spazzatura e gettata sotto un armadio quando ancora era agonizzante, era solo uno che pretendeva di essere padrone di un corpo e di una vita.

Nello stesso giorno in cui è stato ritrovato il corpo di Martina, una donna di 61 anni è stata ammazzata dal marito, a Grugliasco, vicino a Torino. Si chiamava Fernanda Di Nuzzo e faceva la maestra in un asilo nido comunale. Di lei si è parlato pochissimo, è stata nominata solo in un breve passaggio di cronaca, il suo nome non ci risuona nella testa e nelle orecchie come quello di Martina, è una delle tante, quelle che sembrano non meritare minuti di silenzio, striscioni, puntate di talk show. Nei giorni successivi altre donne sono state uccise. Sarebbe grottescamente fuori luogo la polemica su un primato così atroce, ma una riflessione invece va fatta, perché la narrazione gerarchica dei femminicidi messa in atto dai media è insopportabile, come se alcune vite contassero di più ed altre di meno.

Quando ad essere uccisa è la ragazza perbene, la studentessa modello, oppure la madre irreprensibile, il caso ha una risonanza enorme. Se si tratta di una ragazzina un po’ sbandata, di una lesbica, di una donna libera nelle sue relazioni, o addirittura di una sex worker, c’è una risonanza di segno opposto, intrisa di disapprovazione, quasi che il femminicidio fosse un inconveniente da mettere in conto. Se si tratta poi delle tante, tantissime, che non rientrano in queste “categorie”, l’interesse non si attiva nemmeno, il loro nome viene fatto una volta appena e presto dimenticato.

Il criterio narrativo mediatico è quello della spettacolarizzazione, che concede più visibilità ad alcuni casi rispetto ad altri, favorendo in qualche modo la percezione ordinaria e normalizzata, ad esempio, dei femminicidi in contesto familiare “ordinario”, che rappresentano la maggioranza dei casi.

Da qualche anno è stato attivato l’Osservatorio contro femminicidi lesbicidi e transcidi (FLT) di NonUnaDiMeno, uno strumento molto importante, gestito da un gruppo di lavoro che sta svolgendo il censimento delle morti in maniera indipendente e secondo criteri diversi da quelli ufficiali. I dati vengono aggiornati ogni 8 del mese e il conteggio non risulta allineato con quello fornito da Istat e Ministero dell’Interno. Dai censimenti ufficiali mancano spesso, ad esempio, dati relativi a sex workers, frequentemente inquadrati come morti sul lavoro, o a persone omosessuali, trans o intersex, ascritti spesso alla cronaca nera e irrispettosamente identificati con i nomi anagrafici che non ne rappresentano la storia e i percorsi. Quello attuato dall’Osservatorio non è solo un diverso criterio di calcolo, che include tutte le morti indotte da violenza di genere ed eterocispatriarcale (femminicidi, lesbicidi, transcidi, suicidi indotti e, in apposite sezioni, tentativi di assassinio e casi ancora in corso di accertamento). Il lavoro dell’Osservatorio esprime innanzitutto la volontà di occupare uno spazio e un ruolo nella misurazione di un fenomeno, uscendo dal commento sull’evento individuale e sul caso singolo per affrontare una questione che ha evidenti caratteristiche sistemiche. La raccolta dei dati è affiancata da una messa in discussione della narrazione mediatica frequentemente basata su una romanticizzazione dei fatti e sulla vittimizzazione dell’assassino, dalla rottura dello schema di censimento rigorosamente impostato sul binarismo di genere, dal rifiuto del criterio spettacolare che concede più visibilità ad alcuni femminicidi rispetto ad altri.  Sicuramente la rilevazione operata dall’Osservatorio FLT non segue i criteri gerarchici che condizionano le cronache e le narrazioni ufficiali.

Tuttavia, di Martina Carbonaro si è sicuramente parlato molto, per l’inevitabile coinvolgimento emotivo dovuto alla giovanissima età, ma non solo. Il caso di Martina fa anche comodo a chi vuole orientare i riflettori esclusivamente sui giovani, su quella che viene definita una loro incapacità di gestire le emozioni, le relazioni, l’affettività, la sessualità. Come se la violenza riguardasse solo loro. Tra gli autori dei quarantotto femminicidi avvenuti dall’inizio del 2025 al momento in cui scriviamo, abbiamo solo un 22enne e un 23enne, gli altri sono più grandi. I femminicidi avvengono prevalentemente nell’ambiente domestico, nella relazione di convivenza che riguarda una ben precisa fascia d’età, statisticamente identificata attorno alla cinquantina, in quel contesto violento che è la famiglia patriarcale. C’è poi l’inquietante fenomeno dell’aumento di uccisioni di donne anziane da parte di figli o mariti evidentemente incapaci di assumere un ruolo di cura ritenuto naturale per una donna ma non per un uomo. È chiaro che la violenza di genere non è un fenomeno giovanile. Nessuno nega l’evidenza di una cronaca che mostra aggressioni, risse, regolamenti di conti etc, in cui spesso i giovani, soprattutto nei luoghi di socialità, sono coinvolti. Ma non si tratta solo di giovani. E non si tratta solo di brutalità individuale. Senza nulla togliere alla responsabilità individuale, guardiamoci attorno e cerchiamo di capire cosa è che ci nutre, che ci viene trasmesso. Tutto intorno a noi è violenza, dominio, sopraffazione, sia nella dimensione della realtà concreta che in quella culturale. Dalle guerre, alle politiche aggressive esercitate da svariati governi, all’aggressività dei linguaggi e degli stili utilizzati nell’ordinaria comunicazione anche istituzionale, alla brutalità della repressione e dell’esclusione sociale: viviamo immersi in una generale cultura della violenza e in una specifica cultura dello stupro, ma questo sembra non essere rilevante, il problema pare essere solo dei giovani.

È una soluzione comoda, la società patriarcale e sessista generatrice di violenza non viene messa in discussione. E la risposta, come sempre, è quella securitaria.

È stato recentemente presentato un disegno di legge che inasprisce le pene per gli autori di femminicidi introducendo l’ergastolo in modo generalizzato. Un provvedimento che farebbe seguito ad altri proliferati negli ultimi anni e dimostratisi privi di efficacia. Basti pensare al Codice rosso varato del 2019, poi rafforzato nel 2023: un inasprimento di pene in un quadro comunque vessatorio della vittima, che deve essere ascoltata entro tre giorni dai fatti denunciati. Per non parlare delle varie iniziative sanzionatorie attuate (l’inutile braccialetto elettronico) o vagheggiate (la castrazione chimica). Tutto questo mentre si tagliavano risorse per i centri antiviolenza o si dirottavano verso enti preposti alla rieducazione di uomini maltrattanti che in questo modo ottenevano sconti di pena e accesso alla condizionale. Ora il disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso 7 marzo – data non casuale ai fini propagandistici – introduce l’ergastolo per i femminicidi, di fatto riproponendo quanto già disposto dagli ordinamenti vigenti per gli omicidi, con un provvedimento quindi inutile. Una iniziativa criticata anche da molt* giurist* per il fatto che la pena fissa dell’ergastolo non permetterebbe di considerare le circostanze attenuanti o aggravanti e sarebbe quindi contraria ai principi stessi del diritto penale. Da più parti quindi viene rilevato l’intento esclusivamente “populista” e simbolico di questo provvedimento e la mancanza di iniziative di carattere preventivo.

Tuttavia la prevenzione attorno alla quale ragiona l’opposizione politica istituzionale, nonché quei settori che occasionalmente si autoproclamano “società civile”, ma anche ampi e variegati strati di movimento, ci riporta sempre lì: la scuola, i giovani. Un’educazione affettiva e sessuo affettiva che educhi alla cultura del consenso e del rispetto fino dai primi anni di scuola. Senz’altro è una buona cosa, ma siamo sicure che questo sia risolutivo per abbattere la cultura patriarcale e sessista generatrice di violenza? E ancora prima, siamo sicure che sia possibile?

Valditara è il ministro che ha negato l’esistenza del patriarcato, ritenendolo un’ubbia ideologica delle femministe; è quello che ha messo in diretta relazione le violenze sessuali con “l’immigrazione illegale” quando il 94% dei femminicidi è commesso da italiani. Valditara è il ministro che con la risoluzione Sasso ha bloccato progetti di educazione alle differenze e addirittura contro la violenza di genere ritenendoli veicoli della pericolosa ideologia gender; è quello che ha definito la violenza di genere una “triste patologia”, un germe isolato che coglie disgraziatamente e casualmente qualcuno. Riteniamo possibile andare in una direzione di rottura per disposizione ministeriale? E quando Valditara se ne andrà e magari anche l’attuale governo farà altrettanto, siamo sicure che il superamento del patriarcato avverrà per eventuale revisione dei programmi ministeriali di qualche governo più “progressista” in una struttura gerarchica come quella scolastica? E a chi sarà affidata questa educazione? Essere una figura docente non significa non essere sessista, non avere una cultura patriarcale, non essere omofobo, non essere misogino. Altre figure? Formate da chi? Ma soprattutto: è credibile che una società patriarcale e sessista voglia rinunciare ad esserlo o voglia anche semplicemente modificare un pezzo importante come quello della scuola, in cui viene riprodotto quell’impianto culturale che le consente di perpetuarsi?

Di una cosa siamo sicure: quando le cose cambiano, e si è visto che i cambiamenti sono possibili, è perché il fermento sociale è potente, perché la spinta verso la libertà ha una forza, una capacità di elaborazione e di produzione di esperienze che riesce a sovvertire l’esistente mettendo nell’angolo le istituzioni, costrette in qualche modo, loro malgrado, a recepire il cambiamento.

Dobbiamo sfruttare in pieno questo potenziale, collegarci alle lotte rivolte, negli obiettivi e nei metodi, ad una radicale trasformazione, alimentarle, liberarci dalle scorie e dalle incrostazioni che agiscono anche su di noi, soprattutto quando siamo sul terreno scivoloso delle relazioni interpersonali. Dobbiamo mettere fine al dominio sui corpi, liberarci davvero dalla violenza.

P.C.

Related posts