Cresciuto come sono a pane comune con dentro fette grosse tagliate male di pop e rock, contaminazioni sperimentazioni e ibridi, succede che uno di questi giorni mi si incastra fra le orecchie questa “cosa” tra virgolette così pura, luminosa e tranquillizzante che ne sono rimasto colpito nel profondo. Oddio pura: la confezione è grigia scura color antracite e dagli altoparlanti quando ascolto il disco viene fuori polvere grigia che si attacca alle dita, alle orecchie, alle pareti interne della testa. Oddio luminosa: metto su il disco e improvvisamente fuori della finestra è come quella volta dell’eclissi, o come quella sera che era andata via la luce e in casa ci siamo orientati a memoria. Oddio tranquillizzante: l’album è stato preceduto da un video suggestivo e tombale che ti striscia le unghie e i denti sulla nuca, roba che fa drizzare il pelo e accende pensieri grossi, che rimbombano. Si chiama Fogo Nero (info: www.tonibruna.com) ed è il lavoro recente di Toni Bruna, musicista e autore istriano che segue un precedente cd di nome Formigole di circa dieci anni fa, figo sì ma non figo come questo.
Diciamocele subito un po’ di cose. Questo non è certo il disco che ti si inchioda al cuore e magari ti cambia la vita: Fogo Nero non è Unknown Pleasures né i diciassette secondi dei Cure ma ci va vicino. Siamo in tutt’altre zone rispetto al cantautorato tradizionale normale e anche altrove rispetto a tutto questo cantautorato gggiovane e triste spettinato bene e con la barba a posto che pare bisogna farsi piacere oggi. È però un disco importante perché ha tutte le parole giuste per dire dello spaesamento di oggi, dei pezzi di vetro in fianco alla strada, della pioggia che non cade, degli sguardi vuoti dietro le mascherine FFP2, della gente rimasta sola e dei posti rimasti soli senza la gente. Toni non è uno che si mette in mostra ma pare fiero di essere quel che è, ha una voce che ti si aggrappa ai ventricoli e ti viene dentro a scaldare gli ossi come quelle primavere finte di febbraio con la neve che sta ancora a imbiancare le cime.
Toni sembra un ragazzino dei quartieri a rischio armato di fionda e sassi sorpreso a rimuginare davanti alle vetrate di una cattedrale del benessere. Secondo me, se vi piace Nick Drake vi piace anche Toni Bruna – sto dicendo una cagata gigantesca lo so ma ormai mi è partito il colpo e vabbè. Chiaro che sto parlando di affinità sottili: Nick e Toni sono due bestie diverse, li accomuna però quella maniera imprecisa di suonare, quegli arpeggi irregolari come se le linee sul pentagramma fossero mosse dal vento, quella chitarra che in giro di meglio si trova senza spendere cifre, quelle canzoni che invece di finire si interrompono improvvisamente e comunque troppo presto. Forse poi tutt’e due hanno scritto quei loro testi che nessun altro ha scritto né saputo scrivere proprio così, le parole messe insieme a raccontare gli acquerelli dell’anima – uno l’ha fatto in inglese, l’altro lo fa in triestino.
Altra cosa che mi ha rovinato: quella maniera di cantare. Che è come se Toni ti invitasse a casa e poi invece che per te eccolo lì che se ne sta a cantare le sue cose voltato verso il muro, come se le canzoni fossero cazzi suoi e tu solo una parte dell’arredamento, un invisibile. Come se tra lui e il mondo si fosse scavata una buca di cui non si capiscono né margini né fondo. Tu inevitabilmente di qua, senza ponti da attraversare, senza scarpe, senza biglietto. Eppure accade che le canzoni sanno miracolosamente prendere il volo al di sopra del buio. Volano, restano in aria sopra il mare e le barche sperse, sopra ogni singola piccola luce che punteggia la costa, sopra le montagne e le guardie di confine, alte anzi altissime sopra i grumi di case e sopra le fucilate e i reticolati e i cani che abbaiano.
Che strane poi queste canzoni. Sono finestre spalancate, fruscii di gonne e piscio di compagni ubriachi, ricordi da due soldi, vasi con dentro piante morte. Ho sentito il cd una dozzina di volte e ancora non capisco come facciano ma queste canzoni riescono a parlare direttamente al cuore – ecco come fanno: scavalcano i ragionamenti, se ne fottono di disciplina metodo e consuetudini, non si fanno scrupoli.
Io il Toni Bruna sono riuscito a incontrarlo, per dire: la settimana scorsa sono andato a sentirlo cantare e suonare in un teatro a Trieste. Una cosa che mi è piaciuta parecchio della serata è come ha fatto crollare presto il palco a livello terra, come parlava con quelli seduti davanti e intorno, come giocava a fare il juke box e la cover band di se stesso ma senza mai tirarsela e soprattutto mi è piaciuto immensamente come si è preoccupato di quelli rimasti fuori perché senza biglietto e anche senza green pass, a un certo punto ha smesso di suonare dentro il teatro per mettersi a fare il busker là fuori. Sulla riva del mare, sotto la luna e il borino. Presto è arrivato il freddo, ma c’erano più di cento persone che si sono strette per tenere acceso il suo fuoco, adesso finalmente condiviso, adesso più nero che prima. Le canzoni rimbalzano di bocca in bocca e oltre che canzoni girano birre, vino, canne, sguardi, strette di mano, abbracci – tutti segni della complicità e della fratellanza che ci hanno unito in quella notte. Poi vi dirò sono stato addirittura a casa sua, abbiamo mangiato insieme, abbiamo parlato di cose che non c’entravano niente, così adesso so meglio com’è fatto, ho visto come si muove e come si guarda intorno. Alcune cose di lui non le ho capite ma le ho imparate comunque – mi sono rimaste dentro a mettere radici.
Il cd è autoprodotto e registrato in maniera superba. Entrarci dentro per me è stato un po’ ritrovarmi dentro una galleria di ascolti occidentali lunga oltre cinquant’anni e prestare improvvisamente attenzione agli scricchiolii di questo conglomerato sonoro che è il mio bagaglio culturale, ai ricordi americani, alle infiltrazioni, alla pavimentazione sconnessa, alla luce che traballa, va e viene. Alla musica non chiedo niente di meglio: che mi faccia riflettere e che mi faccia sbandare, che mi induca a meditare e mi metta dei dubbi – possibilmente belli grossi e questo lavoro ci riesce, mi viene da pensare a quante cose sbagliate mi sono passate attraverso le orecchie. Dico meglio: a quanti sogni mi sono stati venduti, quanta propaganda, quante illusioni, quante copertine con dentro niente. Bello, sì. Bello perdersi qui in mezzo a smettere di subire la tristezza che avvelena questi anni opponendole la voglia di vivere e di ridere. Ridere sì e sguaiatamente, nonostante il buio, nonostante l’odore nero della guerra. Risate come volo di rondini, come un acquazzone estivo improvviso, come fango che accoglie a braccia aperte, caldo, che sa di terra, che sa di te come quando non ti lavi, che sa di buio come quando viene sera e le bestie vanno a dormire.
Marco Pandin
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