Calpesta il potere

Anche quest’anno il banchetto di Umanità Nova era presente a Roccatederighi in occasione del suo festival dei canti popolari in ricordo di Sante Caserio organizzato dai compagni del coro SedicidAgosto. Questa volta però molt* sono stati i/le compagn* che da tutta Italia sono arrivati alla Rocca per divertirsi, stare insieme e ascoltare il bel canto. Ebbene sì! Ci siamo proprio divertit* abbiamo cantato e ballato sulle note di Stazione Rossa, gli Sparpagliati, Brigata Anarkanti, De’ Soda Sisters, Alessio Lega e Lisetta Lucchini. Che dire poi dei cantori in ottava rima popolare toscana che, come novelli rapper, hanno improvvisato chiedendo l’argomento al pubblico, facendo invidia ai migliori freestyler. La serata è continuata con il coro che assieme a Bube ed i Mazzacani hanno suonato alcuni brani del cd che, ricordo, è ancora in distribuzione facendone richiesta alla mail amministrazioneun@federazioneanarchica.org. Senza nulla togliere a nessun* mi sono emozionata sentendo per la prima volta Lisetta che cantava “Bresci, l’anarchico tornato dall’America” – una moderna ballata composta da Dino Simone – e l’impareggiabile “Ode al moto perpetuo” interpretata da Alessio Lega: “La rivoluzione – compagni – arriverà in bicicletta / Suola e pedale / Questo è il vero ideale. / Senza fretta – compagno – boicotta il motore / Senza fare rumore / Calpesta il potere. / Occhio al ginocchio / È lo stinco che stendo. / La rivoluzione sta già pedalando!”

Ma, come sempre, il fascino della Rocca non va valutato solo sulla base di questa bella serata. Le giornate pre e post festival sono sempre le più belle, passate all’osteria a discutere di politica a scherzare o a parlare con i compagni delle lotte passate. Quest’anno grazie al Grifagnolo mi sono immersa nella storia di Ribolla, un altro luogo o meglio un non luogo perché di quel che è successo si sta perdendo la traccia fisica ma non si vuol certo perdere la memoria.

Dei minatori della Maremma, delle condizioni malsane, e della miniera di lignite di Ribolla non oso scrivere, perché non posso certo competere con Luciano Bianciardi. Vorrei solo condividere con voi una riflessione che questa storia così lontana ma così fortemente attuale mi ha suscitato. È una storia costellata di lotte, rivendicazioni, scioperi e resistenza che si è scontrata con una dura repressione padronale. Basti pensare che negli anni ‘50 le strade erano pattugliate da coppie di gendarmi con i mitra imbracciati mentre dagli altoparlanti venivano lette le multe e le punizioni.

Come simbolo della violenza del potere ho scelto l’ingegner Padroni che appena preso possesso della sua carica si premurò di far sapere che era venuto in Maremma “a mettere a posto gli operai”. Punizioni e ritorsioni divennero quotidiane, come licenziamenti per qualsiasi futile motivo. C’è chi è stato licenziato per aver parlato, in assemblea, dell’azione della Celere o semplicemente per aver parlato ai compagni di lavoro all’interno della miniera, per aver preso la parola in un’assemblea (fra l’altro autorizzata dalla direzione).

Largamente usata era anche l’arma del trasferimento da un cantiere all’altro e da una miniera all’altra. Agli attivisti politici e sindacali erano riservati i lavori peggiori oppure erano confinati tutti nello stesso cantiere, per isolarli dal resto della maestranza. La Montecatini favoriva, per contro, gli operai remissivi con premi antisciopero, lavori migliori, gite turistiche, concessione di case. Vennero vietate le riunioni, l’affissione di manifesti, l’introduzione di volantini o giornali; venne concesso l’ingresso in miniera solo ai dirigenti sindacali “graditi.”

Alle guardie venne affidato un compito di vero spionaggio politico, sul lavoro e fuori del lavoro. Ogni segretario della Commissione Interna aveva alle calcagna una guardia che lo seguiva come un angelo custode. In questo clima fu accentuato il supersfruttamento: la misura del cottimo non venne più discussa ma imposta. L’arrivo di Padroni segnò anche l’introduzione di nuovi sistemi di lavorazione all’interno della miniera, sistemi che suscitarono reazioni negative e preoccupate fra i minatori e fra i loro rappresentanti. Egli ottenne, infatti, dal distretto minerario di Grosseto l’autorizzazione a introdurre in via sperimentale un nuovo sistema di estrazione, quello per “franamento” del tetto.

Questo sistema faceva risparmiare tempo, uomini e materiali… alla Montecatini. Mentre per i minatori significava deficienza di ventilazione, formazione di notevoli quantità di pulviscolo di carbone, risentimenti generali nella struttura della miniera, formazione di grisou nei fondi ciechi, aumentato il pericolo di esplosioni ed incendi. Con questo nuovo metodo la produzione, effettivamente, aumentò, ma ogni minatore sapeva che la miniera di carbone “non vuole vuoti”.

Alle 8 e 40 del 4 maggio 1954 il destino della miniera fu deciso nella sezione Camorra sud. Il primo turno era appena sceso, quarantasette persone, compreso il sorvegliante, avevano da poco iniziato a lavorare. L’esplosione fu di una violenza incredibile, morirono tutti. Fu la classica tragedia annunciata che da quando esistono le fabbriche e i padroni fa capolino quotidianamente tra le pagine dei giornali di tutto il mondo. Come nelle migliori tradizioni poi il 27 novembre 1958 dopo 20 udienze il processo ai colpevoli della strage si concluse: Tutti assolti per “non aver commesso il fatto.” Nessun colpevole per quei morti e nemmeno per quelli che erano morti prima perché dall’apertura della miniera il susseguirsi delle tragedie ha avuto una cadenza ritmata.

Ciò che spaventava i minatori era questa specie di sortilegio, quasi un appuntamento con la morte ogni dieci anni; come se fosse qualcosa di inevitabile da pagare per poter continuare a lavorare e a vivere, nella speranza di non essere proprio quelli reclamati dalla Sorte.” Quasi ogni famiglia della zona ha un parente morto nella miniera eppure i più, non i compagni e le compagne si intende, ricordano quelle tragedie come se fosse colpa di “madre natura” non di aguzzini in carne ed ossa che continuano a mettere al primo posto il profitto, mentre i lavoratori e le lavoratrici sono solo carne da macello.

Non bisognerebbe poi mai dimenticare che c’è chi ha deciso di mettersi al servizio del potere calpestando tutto e tutt* e soprattutto avendo la consapevolezza di rimanere impunit* e di poter lavarsi la coscienza pagando un consistente obolo alla chiesa; non è certo un caso che nella chiesa di Roccatederighi ci sia una targa che ricorda come questa sia stata restaurata grazie anche al contributo della Società Montecatini nell’anno 1956, nello stesso anno “s.e. Mons. Paolo Galeazzo, vescovo di Grosseto, riapriva al culto dedicando il nuovo altare in memoria e suffragio delle vittime del lavoro.” Ecco compiuto l’ennesimo miracolo che trasforma i potenti da vili assassini a incontestabili benefattori. È molto meglio perdere la memoria della strage altrimenti si dovrebbe arrivare alla conclusione che per “difendersi” dal padrone bisogna continuare a lottare, a reagire ai soprusi, non certo ad affidarsi alla giustizia borghese o sperare in una giustizia divina. Ed allora… “Senza fretta – compagno – boicotta il motore / Senza fare rumore / Calpesta il potere.”

Cristina Tonsig

Per approfondimenti: Luciano Bianciardi, Carlo Cassola, I minatori della Maremma; http://www.ribollastory.net

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