La vicenda dei due marò della Marina Militare Italiana accusati di aver ucciso due pescatori del Kerala, durante un’azione di pattugliamento a bordo della petroliera italiana Erika Lexie, forse si chiuderà a tarallucci e vino. E’ di qualche giorno fa la decisione della corte suprema indiana di affidare la risoluzione della vicenda ad un arbitrato internazionale.
Su questa vicenda le forze politiche istituzionali, con accenti più o meno marcati, sono state sostanzialmente unanimi nella pretesa che i “nostri” marò tornino a casa.
I due pescatori morti ammazzati sono scomparsi da una scena nella quale era loro riservato il ruolo di comparse. Eppure, a pochi giorni dall’inizio della missione navale europea Eunavfor, la vicenda della quale sono stati protagonisti i due fucilieri di marina dovrebbe indurre a qualche riflessione sulle possibili conseguenze di un’avventura militare, che è stata paragonata ad Atalanta, la missione antipirateria, durante la quale i due militari hanno sparato a due lavoratori del mare, scambiandoli per pirati. Quanti pescatori libici rischiano di essere presi per scafisti?
Sappiamo bene che omicidi, stragi, massacri compiuti da uomini e donne in divisa si trasformano in servizio alla Patria. L’uccisione di civili è sempre un increscioso incidente di percorso. Nulla più.
Nella neolingua dei politici e dei media main stream due persone accusate di omicidio, due assassini, si trasformano nei “nostri” due marò da portare a “casa”. “Nostri” e “casa” sono le parole chiave di un’operazione di falsificazione che trova la propria ragion d’essere nella nuance sentimentale familistica che viene declinata per mostrare l’uomo sotto la divisa. Meglio se padre e marito, figlio, fratello. Uno di noi, uno che è lontano da casa per noi. Quasi un eroe.
I due pescatori che a “casa” non torneranno più sono estranei, lontani, incivili.
In questi anni i media italiani registrano ogni caso di stupro, omicidio, femminicidio nel subcontinente indiano. All’improvviso la condizione delle donne indiane, le mogli che muoiono in incidenti domestici a base di alcol e fuoco, le ragazzine dalit stuprate e impiccate, la studente stuprata a morte su un bus sono saliti agli onori delle cronache main stream. In ogni dove le femministe sanno che in India, la condizione femminile, tradizionalmente durissima, è peggiorata con la modernità e con le meraviglie che la tecnica mette a disposizione di una cultura misogina. Gli aborti selettivi delle bambine hanno creato un enorme gap tra il numero delle donne e quello degli uomini, specie tra i giovani.
Probabilmente appena i “nostri” marò saranno tornati a “casa”, la condizione delle donne indiane uscirà dalla scena mediatica.
In compenso il militare di Marina che ha stuprato una ragazzina di 15 anni ha goduto di una cortina fumogena densissima. Sebbene la sua identità fosse nota, tuttavia il suo “mestiere” è rimasto in ombra.
Sin dalle prime ore è stato scritto che era “dipendente del ministero della difesa”. Una definizione che ci dice poco o niente. I più hanno pensato ad un impiegato. Alcuni media imprudenti hanno aggiunto che si doveva imbarcare per una missione un paio di giorni dopo lo stupro.
A questo punto i più scaltri tra i lettori della stampa main stream hanno capito che era un militare di professione della Marina militare italiana. Un marò. La parola non è stata usata dai quotidiani.
Usarla poteva gettare un’ombra sulla Marina Militare. Un’ombra sui “nostri” da portare a “casa”. Un marò che si comportava a Roma, come in una qualunque ben retribuita missione umanitaria in giro per il mondo, poteva appannare l’immagine di tutti i “nostri” ragazzi. Mica siamo in India!
La palma del peggio tocca al segretario di Rifondazione Comunista di Rimini, che, con fastidiosa verve giustizialista, scrive su facebook “Non è ora che impicchino i due marò? E subito si pente, si straccia le vesti, cancella il post e si dimette da segretario, per non rovinare ulteriormente l’immagine del suo partito.
L’immagine. L’ombra proiettata dalla lanterna magica, attraverso un foro strettissimo. Lo sguardo si fissa al centro e intorno c’é il buio.
m. m.
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