Lo scorso 31 ottobre si è svolto uno sciopero del pubblico impiego proclamato con proprie indizioni da flc CGIL per il solo comparto scuola e da Unicobas e USB per il pubblico impiego, inclusa quindi anche la scuola, con manifestazione dei sindacati di base convocata a Roma presso il Ministero della Funzione Pubblica.
Nelle motivazioni dello sciopero innanzitutto la rivendicazione salariale. Le risorse che il Governo vuole mettere in campo per il rinnovo dei contratti dei dipendenti pubblici prevedono aumenti irrisori, attestati al 5.78% a fronte di un’inflazione che nel triennio di riferimento si aggira attorno al 18%, con una pesantissima e inaccettabile perdita del potere di acquisto dei salari, schiacciati peraltro da un pesante carico fiscale. Ma la protesta è rivolta anche contro condizioni di lavoro in cui vige un sistema poliziesco di valutazione delle performances dei lavoratori e un aziendalismo sfrenato centrato sul raggiungimento di obiettivi di produzione, oltre ai carichi di lavoro sempre maggiori anche a causa di assunzioni insufficienti e blocchi del turn over.
A questi generali problemi di tutto il Pubblico Impiego si aggiungono quelli specifici del settore scuola, su cui Unicobas ha concentrato la sua protesta. La legge di bilancio che ha avviato il suo iter prevede per il prossimo anno scolastico un taglio organico di 5660 docenti e 2174 ATA: significa mettere a casa tanta gente, a partire dai precari, che sostengono una grossa fetta del lavoro nelle scuole, significa avere classi ancora più numerose col conseguente aumento di difficoltà e di selezione per gli studenti. Un processo di esclusione dal lavoro e dallo studio che sarà alimentato anche da alcune riforme attualmente in discussione: la quadriennalizzazione di tutta la scuola superiore, con riduzione di un anno di scuola (processo anticipato dalla istituzione della filiera dei tecnici e dei professionali); l’introduzione dell’apprendistato duale a 15 anni, vero e proprio appalto degli studenti al mondo dello sfruttamento lavorativo precoce. Si tratta di provvedimenti pesantissimi che configurano una radicale ristrutturazione del sistema scolastico e che si accompagnano con una gestione repressiva insopportabile, di cui sono esempio il codice disciplinare dei dipendenti pubblici, introdotto anche nella scuola dall’estate 2023, e la riforma del voto di condotta per gli studenti. In un sistema scolastico che va allo sfascio la risposta è quella repressiva, così come in un sistema sociale che va allo sfascio, la repressione, ora incarnata dal DDL 1660, è lo strumento di governo ordinario di chi cerca di reprimere il malcontento diffuso, in qualunque forma voglia esprimersi, da quelle più radicali alla semplice manifestazione di dissenso.
Questi sono solo alcuni dei punti che hanno caratterizzato la piattaforma dello sciopero del 31 ottobre.
La risposta della categoria è stata molto positiva. Al momento in cui scriviamo le rilevazioni disponibili sono quelle aggiornate al 7 novembre, corrispondenti al 20%, e indicano nel settore scuola una percentuale di adesione allo sciopero del 5,32%, con una ragionevole previsione, a rilevazione completata, di giungere almeno al 7%.
Un dato assai significativo, considerando che in occasione di passati scioperi proclamati dall’insieme di sigle “rappresentative” nella scuola (Cgil, Cisl, Uil, Snals, Gilda, Anief) la percentuale di adesione è stata inferiore all’1%. Evidentemente nella scadenza del 31 ottobre a fare la differenza è stata la presenza del sindacato di base e la risposta data in particolare da lavoratrici e lavoratori della scuola rispetto al resto del pubblico impiego.
Sul 20% delle rilevazioni ad oggi disponibili infatti, su un totale di 73.558 lavoratori del pubblico impiego che hanno scioperato, abbiamo ben 57.771 scioperanti tra il personale scolastico, corrispondenti appunto al 5.32% (dato provvisorio).
Va detto che alla riuscita dello sciopero non ha purtroppo corrisposto una adeguata gestione della piazza della manifestazione romana, guastata da logiche egemoniche e gestioni escludenti del tutto estranee alle esigenza di lotta della categoria e alle responsabilità che il momento storico impone; ad ogni modo i sindacati di base che hanno un solido radicamento, come Unicobas, sanno bene come curare e mantenere il legame con i lavoratori, come mettere a frutto e rilanciare un risultato di sciopero così significativo proprio nel settore di maggior presenza: questo è il vero impegno, aldilà delle diatribe intergruppi poco interessanti e ancor meno fruttuose.
Perché sicuramente c’è da rilanciare e proseguire la mobilitazione, soprattutto dopo uno sciopero sentito e partecipato, riconosciuto come un reale momento di lotta. Del resto non potrebbe essere altrimenti, almeno per quelle lavoratrici e lavoratori consapevoli che sanno ben distinguere fra percorsi credibili e proclami vuoti. Proclami vuoti sono quelli della CGIL che indice uno sciopero generale con la UIL dopo aver assecondato i peggiori processi di ristrutturazione intervenuti nel mondo del lavoro negli ultimi decenni; che starnazza di recuperare il potere d’acquisto dopo aver siglato trent’anni fa e mantenuto nel tempo il famigerato accordo interconfederale sulla contrattazione, ancora vigente, che blocca gli aumenti contrattuali sotto il tetto di inflazione programmata. Proclami vuoti sono quelli di Landini, che chiama pateticamente alla rivolta sociale, quando i suoi predecessori hanno tacciato di terrorismo e definito provocatori masse di lavoratori che protestavano in piazza lanciando uova e bulloni, ma soprattutto staccando i microfoni al segretario CGIL di turno, responsabile di politiche concertative e della abolizione della scala mobile.
A Landini e ai tanti che usurpano con scarsa perizia termini e concetti a loro ignoti (rivolta, insurrezione) consigliamo di fare l’unica cosa utile, lui che è rappresentativo, che può accedere al tavolo giusto e che ha una bella penna a sfera pronta ad ogni firma: disdica l’accordo interconfederale che blocca i rinnovi contrattuali. Al resto ci pensiamo noi.
Patrizia Nesti