Sintesi della relazione presentata al Convegno di Carrara (11-12 ottobre 2025) nell’80° della FAI
Non essendo dotato di visioni profetiche, sarà difficile ipotizzare quali forme assumerà l’anarchismo nel XXI secolo, dipendendo ciò dal contesto geografico, culturale, politico, sociale, temporale. Senza dubbio, le lotte per l’allargamento degli spazi di libertà, di eguaglianza nelle differenze, di solidarietà – individuale e collettiva – (anche e soprattutto tra estranei) costituiranno sempre gli assi intorno ai quali ruoteranno le forme specificamente idonee e le modalità conflittuali in base ai contesti dell’anarchismo, meglio degli anarchismi.
Mi soffermerò in sintesi su tre scenari globali, affatto alternativi, bensì intersecantisi ma non gerarchicamente discendenti, al cui interno anarchiche e anarchici del XXI secolo si sforzeranno di individuare le migliori forme di azione. Con tutta evidenza ce ne è un quarto, legato alle questioni di genere, ma saranno altri contributi a prospettarci fisionomie generali e specifiche e obiettivi contestuali di lotta. Beninteso, tali scenari non escludono o ridimensionano gli ambiti di lotta più comuni, più quotidiani, forse maggiormente locali, la cui importanza è cruciale per il nostro radicamento sui territori in cui viviamo. Tuttavia, a mio parere, saranno gli scenari globali a “sovra-determinare” anche i conflitti locali o tradizionali, mutandone forme e modalità e imprimendo torsioni a mio avviso non irrilevanti.
Il primo è il cambiamento climatico che muta le condizioni di vivibilità sul pianeta, mettendone a rischio la sopravvivenza eco-sistemica, con i rischi di deflagrazione di conflitti demografici, di spostamenti migratori, di accaparramento violento di risorse (terra fertile, acqua), ecc. Il nomadismo tipico (e persino originario) della specie umana non potrà essere arrestato dalle frontiere statuali o dai confini “naturali”, tale sarà la pressione migratoria alla ricerca di migliori condizioni di vita. Se non si inverte il ritmo di sfruttamento delle risorse utili all’umanità (terra ed acqua, in primis), scoppieranno sempre più conflitti cruenti, considerando che metà della popolazione mondiale risulta in età lavorativa ed un quarto di essa in contesti rurali dove insiste l’80% della povertà mondiale. Senza contare il lavoro informale, oscuro e invisibile, che sfugge alle statistiche dell’ILO o della World Bank. In tali condizioni, che sarebbe indegno definire “emergenziali”, talmente sono endemiche e reiterate dalle dinamiche di potere e di disuguaglianza su scala mondiale, l’approccio ai problemi non potrà che agganciarsi all’auto-organizzazione dal basso, per mitigare gli effetti distruttivi delle attuali politiche climatiche portate avanti da élites statuali e imprenditoriali senza scrupoli di sorta. È da questa pratica solidale e auto-organizzata che si forgia un ethos anarchico: una palestra di creatività nella soluzione orizzontale di problemi che man mano si estenderà sino alla completa ri-organizzazione della vita associata secondo pratiche e attitudini libertarie. È quindi tempo che la vivibilità del e nel nostro pianeta entri con determinazione nell’agenda politica dell’anarchismo sociale, non potendo affatto contare di rientrare nel novero dei super-eletti che trasmigreranno sulla Luna o su Marte al seguito di Elon Musk & soci…
Il secondo scenario globale è il ricorso alla guerra come sfida per l’egemonia planetaria nel XXI secolo, con i rischi di annientamento nucleare e di sterminio di massa. Già al calare dello scorso millennio, molti studiosi americani si interrogavano su quale sarebbe stata la potenza egemone nella seconda metà del XXI secolo, intravedendo nella Cina e nei paesi suoi alleati (Russia inclusa) il competitor più accreditato contro cui tessere politiche di contenimento e di contro-bilanciamento aggressivo. Non è difficile immaginare lo stesso in Cina, solo che analisi e studi non sono facilmente accessibili e per di più leggibili. Del resto, nella storia non si sono mai date successioni di egemonia globale in maniera tranquilla e pacifica, tutt’altro. Non a caso, quindi, e non da oggi, assistiamo ad una militarizzazione crescente delle società che già ha per effetto diretto una disgregazione dei “diritti”, a suo tempo duramente conquistati, pur senza perdere la finzione della rappresentanza (pseudo)democratica, con la riduzione degli stati di diritto ad autocrazie elettorali-parlamentari. Libertà di azione, di parola, di espressione, di stilizzare la propria vita come meglio si crede, di adottare usi e costumi non conformistici, sono tutte pratiche strappate con fatica dalle generazioni precedenti e, in taluni casi, da quelle viventi. Che siano costituzionalizzate o tradotte in norme giuridiche, poco importa: il diritto positivo concede e toglie in base a maggioranze parlamentari più o meno rafforzate. Sarà la strada a fare la differenza.
Con militarizzazione non dobbiamo né possiamo solo evocare la presenza visibile dei segni del potere armato (esercito, forze di polizia, armamenti, industrie belliche, ecc.). Dobbiamo curarci dell’interiorizzazione di una cultura bellicista e bellicosa, che arma le coscienze sin dalla più giovane età, incalzandole con modelli violenti di risoluzione dei problemi quotidiani e di superamento degli ostacoli in cui la vita ci fa imbattere ad ogni passo. Modelli culturali in cui la violenza viene esaltata perché simulata – game over, e si ricomincia -, la vita come un video gioco in cui si uccide e si viene uccisi, ma poi si risorge in un combattimento illimitato e infinito. Non a caso il video-gaming di intrattenimento alimenta e si alimenta a sua volta dalle simulazioni militari, dagli armamenti autonomi e automatici che trasformano la guerra nelle sue forme, anestetizzandone le ferite e i traumi corporei per trasferirli in una sfera psichica. Questo almeno per chi attacca da una posizione di supremazia tecnologica, non per chi ne subisce gli effetti, come sa ogni vittima di guerra.
Non dobbiamo sottovalutare o minimizzare la militarizzazione ibrida che dal cyberspazio si insinua sin nelle nostre tasche attraverso i dispositivi digitali. Da questi ultimi passa non solo la sorveglianza capitalistica a fini di marketing commerciale, ma anche e soprattutto il controllo operato da governi e imprese private che ormai dispongono di una infinità di conoscenze legate ai nostri gusti, alle nostre azioni, alle nostre esperienze fisiche e virtuali, che sono trasformate in dati numerici facilmente elaborabili dagli algoritmi sino a pervenire ad una profilazione singolare di massa – non suoni contraddittoria – utile a predire e addirittura a orientare i nostri comportamenti futuri.
Il che ci porta al terzo scenario globale, l’avvento delle tecnologie digitali, e dell’IA in specifico, che rivoluziona letteralmente la forma-di-vita delle nostre società, non soltanto negli ambiti del lavoro vivo, sostituibile da robot e macchinari vari, non soltanto nelle modalità di incanalamento delle opinioni “politiche” in occasioni di appuntamenti elettorali. Lo sdoppiamento tra sfera corporea, “reale”, e dimensione “virtuale”, i cui effetti sono ben altrettanto reali, si intrecciano a vicenda delineando la formazione di una soggettività ben diversa da quella cui siamo stati abituati sul terreno materiale delle classi sociali e dell’equilibrio di forza tra poteri. In un’era di individualismo estremizzato, propugnato e favorito dalle politiche neo-liberali di questi ultimi decenni, la sfera collettiva si è frantumata per “risuscitare” nel rapporto io-schermo del mio dispositivo digitale; la socialità fisica è per certi versi evaporata a tutto vantaggio di una “socialità” virtuale, gestita da piattaforme proprietarie, al cui interno si attua una finzione di comunicazione e di dialogo con altrettanti altri io, ognuno connesso con il proprio schermo. Finzione di possedere un seguito di followers, di avere un sacco di amici: in effetti siamo immersi senza saperlo in una bolla, al cui interno risuonano le mie opinioni che diventano convincimenti non appena le vedo confermate da altri che la pensano esattamente come me. Fine del pluralismo di idee, escluse dalle camere dell’eco, fine dell’emergenza del dissenso, fine del confronto dialettico tra diversi. E quando queste espulsioni virtuali ritornano in vita nello spazio-tempo dell’esistenza corporea, la disabitudine a relazionarsi con altri differenti si trasforma in violenza gratuita, insensata, inaspettata se non come forma “difensiva” di una psicologia monca di socialità reale, proprio perché imbevuta di surrogati “social”.
L’individualismo neo-liberale, traslocato per di più nell’universo digitale, produce individui conformi, repliche diversificate di una matrice macchinica di cui siamo diventati probabilmente protesi che ne testano sperimentalmente i limiti ed i progressi tecnologici. Pensiamo di essere noi ad utilizzare gli apparecchi, ma forse è esattamente il contrario. Al di fuori di ogni comunità di riferimento, spaesati e sballottati da una piattaforma ad un’altra, che tipo di soggettività finirà per consolidarsi? Quale comunanza potrà dare luogo al comunismo di beni e servizi? Quale soggetto critico e difforme potrà darsi nel rapporto ormai sempre più incalzante tra umano e macchinico?
I nuovi modi attraverso i quali ci sentiamo soggetti di noi stessi, consapevoli e critici della realtà, ci spingono ad approfondire e diversificare gli strumenti di analisi, per cogliere nuove opportunità di legami “social(i)” a partire dai quali poter ricostituire una forte comunità destituente che sappia immaginare e pertanto sperimentare utopie collettive organizzate sul perno dell’assenza di potere.
Salvo Vaccaro