All’arrembaggio del futuro – 3^ parte

Prima parte

Seconda parte

La trasformazione economica nei paesi sottosviluppati

La necessità di una fase legata ai temi dell’indipendenza nazionale e allo sviluppo di un capitalismo interno sono i temi spesso usati dagli autoritari (marxisti leninisti delle varie sfumature, maoisti, stalinisti, terzomondisti) per escludere la possibilità della rivoluzione sociale, e quindi dell’abbattimento dello stato e dell’abolizione della proprietà privata, nelle aree controllate da questi stati.

Riprendiamo il nostro percorso sulla trasformazione del modo di produzione seguendo ancora una volta le riflessioni di Ernest Mandel a partire dal capitolo XVI del suo “Trattato marxista di economia”.

Nel paragrafo dedicato a questo problema, dal titolo “Fonti dell’accumulazione nei paesi sotto sviluppati”, viene preso in esame il concetto di “circolo vizioso della misera”, sintetizzato dall’economista estone Ragnar Nurske, per il fatto di avere un basso reddito pro-capite, gli stati sottosviluppati non dispongono di un adeguato risparmio, senza risparmio il fondo di investimento rimane inadeguato; la mancanza di investimenti ha per conseguenza che la produttività del lavoro rimane bassa e così il livello del reddito. Inoltre la miseria ostacola la crescita del mercato interno, in tal modo gli eventuali risparmi privati si orientano verso l’estero, verso la speculazione o l’usura. Infine la povertà porta con sé l’emigrazione del personale più qualificato, rendendo impossibile aprire un’impresa là dove manca la forza lavoro capace di farla funzionare.

Paul A. Baran ha dimostrato la falsità di questo ragionamento, basato su una confusione tra fondo di accumulazione produttivo e quello che Baran chiama «surplus potenziale». Di fatto si tratta del sovrapprodotto sociale. Il sovrapprodotto sociale negli stati sottosviluppati costituisce una percentuale del prodotto nazionale lordo più elevata e non meno rispetto a quella dei paesi industrializzati. La miseria non deriva tanto dall’insufficienza di questo sovrapprodotto quanto dal suo cattivo impiego.

Baran elenca varie parti del prodotto sociale degli stati sottosviluppati che vanno praticamente perdute per il fondo di investimento produttivo. Innanzi tutto il sovrapprodotto agricolo accaparrato dai proprietari fondiari: la maggior parte di questo sovrapprodotto viene sperperata in modo improduttivo (residenze in luoghi di villeggiatura esclusivi o frequentazione dei casinò) o tesaurizzato (l’enorme tesaurizzazione dell’oro in India). A questo è da aggiungere quella parte accaparrata dagli usurai e dai commercianti che vivono nelle regioni agricole. Viene generalmente usata per l’acquisto di terre (il che significa che provoca semplicemente un rialzo artificiale del prezzo della terra e della rendita), per un aumento del capitale usurario e mercantile, per la tesaurizzazione o per il consumo di lusso. La parte più importante poi del sovrapprodotto sociale viene esportata dal paese tramite le società straniere, fenomeno che riguarda tutti gli stati del cosiddetto Sud globale. A questo va aggiunta la parte del sovrapprodotto sociale accaparrata (e trasformata in consumo improduttivo) dalla burocrazia statale, dai circoli militari e dallo strato borghese che li circonda, con la corruzione, con il crimine, con la scostumatezza. Anche questa parte può acquistare proporzioni spesso insospettate in Occidente.

Accanto a questo prodotto reale c’è un enorme sovrapprodotto potenziale che molti stati sottosviluppati possono mobilitare; si tratta del potenziale di lavoro non utilizzato a causa della sottoccupazione delle campagne.

Così si esprime Mandel. “Constatare che la massa della popolazione rurale dei paesi sottosviluppati densamente popolati lavora come media annua solo qualche giorno alla settimana, significa ammettere implicitamente che una massa enorme di prodotti e di servizi potrebbe essere messa a disposizione della comunità nazionale, se questa popolazione venisse regolarmente occupata da cinque a sei giorni alla settimana.

Certo bisogna guardarsi dalle semplificazioni. Innanzitutto, una buona parte di questa produzione accresciuta si manifesterà sotto forma di produzione agricola, soprattutto data la mancanza di strumenti di lavoro tali da consentire la sua utilizzazione in modo redditizio nella piccola industria rurale. Di questa produzione agricola accresciuta, una parte considerevole sarà consumata dai produttori stessi; sarà appunto il modo più sicuro per migliorare il loro livello di vita. Questo aumento del consumo contadino è d’altronde una necessità fisiologica, poiché le razioni miserabili di sussistenza di cui dispongono oggi questi contadini permettono solo un lavoro poco produttivo, a un ritmo molto lento.

Inoltre questa mobilitazione di migliaia di contadini per un lavoro regolare che sconvolga i loro usi ancestrali, esige l’esistenza di una forza politica e (o) sociale mobilitatrice, in grado di ottenere questo sforzo volontario dei contadini; qualsiasi tentativo di trasformare questa mobilitazione in un sistema di lavoro forzato porterebbe rapidamente ad una diminuzione del rendimento e apparirebbe in larga misura come uno sperpero dal punto di vista dello sviluppo economico.

Infine, le possibilità di aumento della produzione agricola non sono infinite (superficie coltivabile limitata; disponibilità di strumenti di lavoro, di concimi, ecc.; impossibilità di sconvolgere la tecnica senza nuovi strumenti di lavoro ecc.). Di conseguenza, la piena occupazione della massa rurale può comportare la necessità di mobilitarla in parte per lavori di infrastrutture (strade, canali, ferrovie), di costruzione immobiliare e anche di industria primitiva, se manca l’attrezzatura per il suo impiego nell’industria.

In quest’ultima eventualità, il carattere volontario e l’entusiasmo di questa mobilitazione sarà più difficile da mantenere, come ha dimostrato l’esempio delle comuni cinesi. La soluzione del problema consiste nell’esecuzione prioritaria di lavori che consentano un immediato miglioramento del livello di vita delle comunità rurali stesse, per esempio, la costruzione di case contadine, di scuole, di infermerie e di ospedali ecc.”

La normalizzazione della durata del lavoro nelle campagne come strumento di aumento del reddito disponibile per la popolazione degli stati sottosviluppati è subordinata alla rivoluzione sociale nell’agricoltura. Senza abolizione della proprietà privata, continua Mandel, “la mobilitazione dei contadini si avvicina inevitabilmente al lavoro forzato. Inoltre, la presenza di una classe di proprietari terrieri fa sì che questi proprietari si approprino di gran parte del nuovo sovrapprodotto sociale e lo trasferiscano da un fondo di accumulazione produttiva potenziale al loro fondo di consumo improduttivo”.

Quanto siano attuali queste considerazioni sul sovrapprodotto trasferito dai paesi sottosviluppati a quelli avanzati ce lo dimostra un articolo del 2022 pubblicato sul sito Valori (https://valori.it/scambio-ineguale-nord-sud-mondo/). Valentina Neri ci dà conto di uno studio pubblicato su una rivista scientifica (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S095937802200005X) che conferma quanto sostenuto da Mandel con i dati del 1960:

L’articolo, pubblicato nella rivista scientifica Global Environmental Change, traccia i flussi finanziari tra le nazioni basandosi sul modello MRIO (Multi-Regional Input Output). Da qui, attraverso una metodologia originale, fa una stima delle risorse e del lavoro di cui il Nord si è appropriato. Per poi parametrarle sui prezzi di mercato e quindi calcolarne il controvalore monetario.

Cosa ne emerge? Che nel 2015 il Nord del mondo si è appropriato di 12 miliardi di tonnellate di materie prime, 822 milioni di ettari di terreno, 21 exajoule di energia, 188 milioni di anni di lavoro. Tutte risorse che sono incorporate nei beni e che, tradotte in denaro, avrebbero un prezzo di 10.800 miliardi di dollari. Abbastanza per porre fine alla povertà estrema; non una, ma 70 volte. Durante i 25 anni esaminati il drenaggio dal Sud del mondo è arrivato a un totale di 242mila miliardi di dollari, un quarto del Pil del Nord del mondo. È vero, sottolineano gli autori, che i Paesi industrializzati danno anche qualcosa in cambio attraverso gli aiuti allo sviluppo. Ma è vero anche che le perdite del Sud li superano di ben 30 volte. La conclusione degli autori è netta: «La nostra analisi conferma che lo scambio ineguale è un fattore determinante della disuguaglianza globale, dello sviluppo diseguale e del collasso ecologico»”.

Dalle note di Ernest Mandel emergono alcune indicazioni strategiche. Innanzi tutto la possibilità della rivoluzione socialista anche nel paesi sottosviluppati, senza alcun passaggio democratico o di liberazione nazionale. Inoltre la necessità di una mobilitazione spontanea dei contadini, stimolati dall’azione di una forza politica che li spinga ad una mobilitazione volontaria, che quindi non passi attraverso la conquista del potere politico e la irreggimentazione dall’alto.

Quanto siamo lontani dalle indicazioni che danno Marx ed Engels nel “Manifesto”: “8. Uguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l’agricoltura.”. L’uso della parola esercito non è casuale, ed è proprio l’espressione che ha portato Bakunin a definire la concezione marxista “comunismo da caserma”. Che Marx ed Engels facciano riferimento proprio ad un esercito, con il suo stato maggiore, con la sua pletora di marescialli, sergenti e caporali, lo dimostra l’applicazione che ne hanno fatta Lenin e Trotzkij all’indomani della Rivoluzione russa, con la militarizzazione delle forze del lavoro. Mandel al contrario mette in guardia contro ogni lavoro forzato ed insiste sul contributo volontario dei lavoratori. Ci troviamo ad una stridente contraddizione: a cosa servono il governo, lo stato se non può stabilire un piano fisso e unico di ricostruzione, da imporre per amore o per forza, ma deve contare sul contributo volontario, sull’azione di una forza politica ad esso esterna che “mobiliti” per usare le parole di Mandel le masse con la propaganda e con l’esempio, aggiungo io, e non con la forza? Che senso ha, allora, lasciare il sovrapprodotto sociale nelle mani dello stato che si è dimostrato, fino ad oggi, un centro di corruzione attraverso le malefatte della sua burocrazia, fenomeno che ha riguardato la stessa Unione Sovietica?

Scriveva Luigi Fabbri in “Dittatura e Rivoluzione”:

Noi siamo, come abbiamo ripetuto più volte, comunisti, perché crediamo che l’organizzazione comunista della produzione e del consumo sia il più perfetto tipo di socialismo attuabile, in armonia coi molteplici bisogni di benessere e di libertà di tutti gli uomini. Vorremo, quindi, per noi la libertà di organizzarci in comunismo dovunque ci sarà possibile e troveremo gente d’accordo con noi. Ma non pretenderemo imporre con la forza agli altri il nostro sistema, sicuri che l’esempio nostro sarà il miglior mezzo di persuadere gli altri a seguirci, – come l’esempio altrui potrà servire a noi per migliorare, modificare, perfezionare il sistema nostro.

Nulla impedirà che, accanto a noi, in certi rami di produzione, per certi generi di consumo, si esperimentino sistemi diversi, purché su noi e gli altri presieda lo spirito di appoggio reciproco, per gli scambi, per i servizi pubblici comuni, ecc., e purché nessun sistema permetta alcuna forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Tra i vari tipi di organizzazione ve ne potranno essere di più o meno accentrati, secondo il genere di lavoro, di servizio pubblico, di necessità d’ambiente, ecc. I sistemi e gli organismi si modificheranno man mano, secondo l’esperienza, sull’esempio di quelli che risulteranno migliori, e cioè meno costosi di lavoro e più utili e produttivi pel bene di tutti.

Anche in regime completamente anarchico è nostra persuasione che, mentre l’organizzazione della produzione e del consumo su basi comuniste sarà il tipo dominante e la regola generale, appunto perché sarà una regola libera e non coattivamente imposta a tutti, non impedirà il sussistere – o per volontà di singoli o per speciali necessità d’ambiente o di lavoro – di forme diverse d’organizzazione, collettiviste, mutualiste, ecc. e neppure di qualche forma di proprietà individuale, purché questa non implichi soggezione o sfruttamento di chicchessia.”

Sembra di sentire un’eco delle parole del Fabbri nelle riflessioni di Ernest Mandel sul lavoro forzato. Ma Mandel è stato un dirigente della IV Internazionale, l’organizzazione creata da Leone Trotzkij con i leninisti dissidenti dall’ortodossia stalinista, ma che leninisti si dichiarano ancora. Lo scritto di Mandel è un’altra testimonianza della confusione che regna nelle correnti autoritarie, soprattutto dopo la fine dell’Unione Sovietica, il ritorno del capitalismo nelle aree che ne facevano parte, e la crescita del capitalismo di stato in Cina. Di fronte alla prospettiva della prossima rivoluzione sociale, questo aumenta la responsabilità del movimento anarchico nei confronti delle classi sfruttate del mondo. Dobbiamo studiare, dobbiamo organizzare, dobbiamo diffondere le nostre proposte per la vittoria della rivoluzione prima, per orientare la società su nuove basi che escludano lo sfruttamento e il dominio dai rapporti fra le persone.

Tiziano Antonelli

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