La pandemia ha reso più difficile attuare l’IVG in Italia, perché, nonostante si tratti di interventi non differibili, numerosi reparti ginecologici hanno chiuso per mesi e mesi, obbligando le donne a rimbalzare da un ospedale all’altro e persino da una regione all’altra per riuscire ad abortire entro i limiti imposti dalla legge.In Piemonte la Regione cui spetta la gestione della sanità, anziché mettere in campo misure atte a porre rimedio alla situazione, il 2 ottobre 2020 ha emanato una circolare che limita ulteriormente la libertà delle donne di scegliere se e quando avere figli. Viene fatto esplicito divieto di somministrare la pillola abortiva RU 486 nei consultori, in opposizione a quanto era stato stabilito nell’agosto 2020 dal ministero della sanità. Da quel momento, in piena pandemia, in Piemonte l’aborto farmacologico è stato effettuato soltanto nelle strutture ospedaliere.La stessa circolare, utilizzando l’articolo 2 della Legge 194, ha disposto che all’interno degli ospedali piemontesi siano attivati sportelli informativi gestiti da «associazioni del volontariato», tra cui il Progetto Gemma di sostegno prenatale a distanza e il servizio telefonico Sos Vita, entrambe emanazioni del Movimento per la vita.
In pratica la giunta Cirio ha dato il via libera alle associazioni antiabortiste perché facciano propaganda negli ospedali. Sappiamo che in alcune strutture, come il Sant’Anna di Torino viene fatta una sorta di silente resistenza passiva, opponendosi all’ingresso di persone che non hanno il dovere professionale di tutelare la privacy, perché volontari senza qualifiche mediche. Difficile dire quanto potrà essere efficace una tattica che rifugge la denuncia politica, scegliendo di ricorrere a cavilli legali.
Sempre in Piemonte dal primo giugno di quest’anno la ASL ha dato l’accredito per l’ingresso nei consultori a tre associazioni antiabortiste: il Centro di aiuto alla Vita Mirafori Nord Torino, il Movimento per la Vita di Torino e Promozione Vita. Tutte avevano partecipato al bando della Regione per selezionare trenta associazioni anti abortiste a cui garantire uno spazio all’interno dei consultori, con una presenza fisica almeno due volte alla settimana.
Queste misure hanno ben poco di “sanitario”, ma sono squisitamente politiche.
L’iniziativa, il cui patron è l’assessore fascista Maurizio Marrone, mira a rendere sempre più difficile per le donne attuare l’interruzione volontaria di gravidanza. Ci considerano incubatrici smarrite, da controllare e convincere. Prive di reale volontà, possiamo essere riportate sulla retta via dagli stessi fasciocattolici che sostengono le guerre che uccidono tanti bambini e bambine, ma pretendono che le donne continuino a fare figli per la patria e la nazione.
Le donne sono uno dei tanti confini sui quali viene combattuta la guerra per la purezza etnica, la restaurazione del patriarcato, l’imposizione di un ordine gerarchico, fondato su un approccio essenzialista, che pretende di inchiodare le donne al ruolo di madri.
Far nascere un bambino o una bambina è una scelta individuale importante, che solo in un’ottica patriarcale si può considerare variabile dipendente dalle sole possibilità economiche. Nove mesi di gestazione e diversi anni di accompagnamento all’acquisizione dell’autonomia, specie in un contesto culturale e sociale che ne affida il compito al nucleo familiare, sono un impegno del quale è necessario essere convint* sino in fondo. In ballo c’è la felicità e la libertà di un essere umano. Libertà e felicità che non interessano affatto ai Provita, che mirano solo alla piena restaurazione dell’ordine del padre.
Oggi i percorsi della libertà femminile sono sotto il costante attacco di chi vorrebbe riproporre una visione naturalizzante dei generi, che individua nella maternità un destino da cui le donne non dovrebbero sottrarsi, tornando docili nella gabbia familiare. La negazione delle identità non conformi, l’asservimento delle donne libere è indispensabile alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini. La famiglia è la fortezza intorno alla quale i raggruppamenti identitari e sovranisti pretendono di ri-fondare un ordine politico e sociale gerarchico ed escludente.
I femminismi hanno attraversato, scuotendoli alle radici, i tempi fermi, ripetuti, ossessivi del femminile. Una vera rivoluzione, tanto potente che il blocco politico e culturale cattolico ha tentato di mitigarne la portata, imprigionandola nella sfera del costume, delle relazioni interpersonali, della famiglia. Il femminile ha frantumato lo specchio in cui si rifletteva un ruolo sociale considerato immutabile, perché determinato da una sorta di destino biologico investito da sacralità, senza dimensione culturale. Chi lo rifiutasse era (è) contro natura, contro dio, contro le regole di un gioco fissato per sempre.
Il femminile è quanto di più simile alla natura sia stato prodotto dalla cultura. La differenza segnata dalla biologia viene assunta come dato immutabile, programmato per sempre. Il percorso della libertà femminile spezza le catene simboliche e materiali dell’ordine patriarcale. La libertà sessuale, riproduttiva, di rimodellamento del proprio stesso corpo rimescola le carte e spezza la gerarchia tra i sessi. Le donne libere generano se stesse, si rimettono al mondo, vivono un tempo nuovo.
La giunta Cirio mira a cancellare questi percorsi, ponendo le donne sotto tutela, soggetti deboli, incapaci di decidere, bisognosi di un sostegno.
Il sostegno, nel caso della Regione Piemonte, arriva da associazioni pro-vita, che agiscono da decenni come soggetti privati, ma da giugno hanno facoltà di entrare nelle strutture sanitarie con il finanziamento della Regione e in osservanza alla legge 194.
“Il presidente della Regione e gli assessori alla Sanità e agli Affari legali precisano che tali indirizzi rispondono alla volontà, unanimemente condivisa dalla Giunta regionale e dai presidenti dei gruppi consiliari di maggioranza, di garantire il pieno rispetto delle disposizioni della legge 194 poste a garanzia della piena libertà di scelta della donna se interrompere volontariamente la gravidanza o se proseguirla”.
Nella neolingua del governo regionale piemontese, per difendere “la libertà di scelta della donna”, si finanziano gli sportelli delle associazioni antiabortiste e si consente loro di entrare in ospedali e consultori.
La legge 194 del 1978, che stabiliva le procedure legali per l’aborto, viene usata come un grimaldello per rendere difficile quando non impossibile la libera scelta delle donne.
In Piemonte la 194 viene utilizzata per limitare l’aborto farmacologico e per dare spazio ai cattofascisti in ospedali e consultori.
Le leggi sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Tante leggi, a posteriori definite “conquiste”, sono state limitate concessioni a movimenti che miravano a ben di più.
Il vero nodo è proprio la legge 194, la legge che, dopo la depenalizzazione dell’aborto, pose dei limiti alla libertà di scelta delle donne.
La 194 è una gabbia normativa, che i nemici della libertà femminile hanno imparato a usare.
Due anni fa l’Avvenire indicava nell’obiezione la strada maestra per rendere impossibile scegliere di abortire. In Piemonte oltre il 60% dei medici si dichiara obiettore. Il Molise, balzato agli onori delle cronache perché solo di recente i non obiettori sono passati da uno a due, la percentuale è del 92,3.
La percentuale non è alta solo in Molise. Per quanto riguarda l’Italia settentrionale, il numero maggiore di ginecologi obiettori lo registra Bolzano (87,2%). Nelle regioni centrali il primato è del Lazio con il 74,5% e delle Marche con il 69,3%. Le isole presentano dati diversi tra loro: l’82,7% in Sicilia, il 57,7 in Sardegna.
Tenete contro che questi dati, diffusi dal Ministero il 20 giugno di quest’anno, risalgono al 2018, nonostante la normativa preveda che il monitoraggio per l’attuazione della 194 sia effettuato ogni anno.
Intendiamoci. La questione non è la libertà dei medici di rifiutare di agire contro la propria coscienza, ma che si diano le condizioni perché nessuno limiti la libertà di scelta delle donne, perché nessuno ne metta a repentaglio le vite, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci. Eravamo fuorilegge, siamo state messe sotto l’ombrello della legge, è tempo che si lotti per essere davvero libere, senza legge.
Cacciare i cattofascisti dagli ospedali e dai consultori è un concreto ed urgente orizzonte di lotta.
(questo testo riprende e sistematizza l’intervento fatto in piazza Castello durante il Free(k) Pride del 10 luglio di quest’anno)
Wild C.A.T. Collettivo anarcofemminista torinese