Chimamanda Ngozi Adichie, scrittrice nigeriana, ci mette in guardia dai rischi derivanti dalla ‘storia a senso unico’ e segnala come questa sia funzionale agli scopi del potere e dell’autorità: “Mostrate un popolo come una cosa, come solo una cosa, più e più volte, ed è così che esso diventerà questa cosa”.
Al contrario, ci suggerisce come una molteplicità di narrazioni sia in grado di incrinare stereotipi e pregiudizi e di rimandare alla dignità spezzata dei popoli.
La frontiera di Alessandro Leogrande (Feltrinelli, 2015) si pone proprio nel solco di questa riflessione, ricomponendo un mosaico di storie ed esperienze raccolte direttamente dalla voce dei migranti. Solo un pluralismo di voci può riportare la complessità del reale, solo se ci poniamo in ascolto possiamo arrivare a intravvedere le cause di quello che accade intorno a noi.
Le voci sono indispensabili per uscire dalla sterile contabilità dei morti che ormai digeriamo assuefatti. Raccontano l’unicità di ogni singola esperienza e la riportano a galla, strappandola dalle ombre dell’oblio. Le voci risuonano nel tempo, compongono un pannello di vissuti che uno accanto all’altro disegnano un contesto, che noi, spesso, non ci sforziamo nemmeno di vedere, figuriamoci di capire. E quando ci voltiamo e cerchiamo di tradurlo, siamo portati a semplificare. O ancora, tendiamo a filtrarlo attraverso le nostre categorie, il nostro personale filtro interpretativo. Perché così diventa quasi intelligibile. Le testimonianze sono importanti, perché ci mostrano una realtà che non siamo ancora disposti a leggere. Ci ricordano che sotto il contesto ci sono individui e vite, racconti, progetti, speranze e il desiderio di agire sulla propria vita e sulla geografia che il destino assegna.
Il presente è tutto intorno a noi, si dispiega mentre siamo seduti a leggere un libro o al supermercato a fare la spesa. Ci circonda silenzioso. Silenzio è la parola topica attorno a cui si raccoglie il tema dei profughi e delle migrazioni. Silenzio è la condizione cui sono costretti. E allora le voci assumono un senso irrinunciabile.
All’inizio del tuo libro presenti un personaggio, Shorsh, che poi ritornerà nel corso della narrazione, che tu incontri alla fine degli anni ‘90, e che fa vedere a te e ad altri studenti un video di testimonianza delle violenze subite dai curdi ad Halabja. Di quelle immagini racconti: “Mi appariva quasi pornografica nella lenta successione di corpi inermi di uomini e animali, perché nulla sapevo della loro storia, nulla sapevo degli omicidi di massa perpetuati dal regime di Baghdad. O meglio, non ne sapevo abbastanza. Non abbastanza da poter decifrare quei fotogrammi.” Ed è questa presa di coscienza che mi pare sia alla base del progetto da cui nasce La frontiera, la necessità di capire e conoscere e di farlo attraverso l’ascolto di chi quegli eventi li ha vissuti in prima persona.
Quella sensazione di non capire niente, che in quel momento risultava essere paralizzante, nasceva innanzitutto dalla violenza delle immagini in quanto tale. E’ curioso quando tu cresci in un’epoca in cui ti convincono che ‘la storia è finita’ e invece scopri che in parti del mondo prossime questo assunto è radicalmente smentito e che tale smentita sta alla base della partenza e della fuga di migliaia e centinaia di migliaia di persone. Noi possiamo capire molto poco della vita, delle motivazioni e dei desideri di chi parte se non indaghiamo le loro biografie individuali e poi le loro biografie collettive, cioè la storia e il contesto di partenza. Il paese di Halabja, di cui accenno nel libro in funzione della riflessione su quelle immagini, venne gasato all’epoca perché si trovava in una zona di confine durante la guerra Iran-Iraq, gli abitanti vennero percepiti come collaborazionisti e questo fece scattare una punizione collettiva.
Credo sia profondamente impolitico e pericoloso ridurre queste crisi a ‘crisi umanitarie’ o affibbiare loro la categoria di violenza assoluta; spesso, quando si fa riferimento alla vita dei profughi e alle cause alla base della richiesta di asilo politico, si riduce il discorso ad una generica fuga da guerre e dittature. Non vuol dire niente una frase del genere; va indagato cosa sono le dittature, come si sono costruite, come hanno preso il potere e come lo difendono. Il conflitto tra Iran e Iraq, ad esempio, è stato complesso e si dovrebbe riuscire a raccontare quelle guerre e quelle dittature, che spesso sono alla base dell’esodo dei profughi, con lo stesso sguardo storico e politico con cui guardiamo la complessità degli eventi novecenteschi.
Attorno al tema dei migranti ruotano due diverse retoriche: da una parte quella xenofoba, le cui parole d’ordine ormai conosciamo bene, dall’altra, invece, un atteggiamento più compassionevole, che tende a leggere l’esperienza dei profughi attraverso il paradigma delle vittime, privilegiando un approccio di tipo emozionale che non è però in grado di riportare la complessità che sta alla base delle vite dei singoli soggetti.
Nel libro riporti le parole di Syoum, un eritreo che vive ormai da molti anni in Italia:
“Il viaggio è molto lungo, per capire quello che è successo devi sapere perché siamo partiti”.
Risalire al contesto di partenza, dunque, ed è quello che tu cerchi di fare nei giorni successivi al tragico naufragio al largo di Lampedusa del 3 ottobre 2013, quando ti accorgi che la quasi totalità delle vittime e dei superstiti è eritrea (su 366 vittime ufficiali accertate, 360 provenivano dall’Eritrea).
È evidente il rischio della doppia retorica: è chiaro che il cattivismo è peggiore del buonismo, che non sono equivalenti, ma il problema è che la risposta più efficace al discorso razzista e xenofobo non è la contrapposizione di uno sguardo pietistico, da carezza sulla spalla, che tende a guardare l’altro come un povero cristo o un bisognoso cui dare una coperta o un brodino e a chiudere la pratica lì, perché questo modo di fare è anzitutto disumanizzante, perché non rappresenta un incontro con l’altro, reale e paritario, ma un approccio a qualcuno che si considera inferiore. C’è un proverbio africano che dice che la mano che dà qualcosa sta sopra alla mano che riceve. Inoltre, ridurre la condizione dei profughi esclusivamente a quella di vittime disumanizza l’altro perché non tiene conto della complessità politica ed esistenziale che sta alla base della vita di un esule.
Il viaggio di cui parla Syoum inizia molto prima di quello per mare e capire e raccontare questo è fondamentale per inquadrare le ragioni della fuga. Quando ho iniziato a raccontare la strage del 3 ottobre per me era importante narrare questa come una vicenda di mare, liberandola dalla cronaca in bilico tra emergenza e constatazione assuefatta di quello che stava accadendo. Quella vicenda era la somma di una serie di vicende umane potentissime.
Nel momento in cui mi sono reso conto che i morti e i sopravvissuti erano quasi tutti eritrei ho capito che bisognava partire da lì, da quell’interrogativo. Di fronte alla domanda sul perché fossero per lo più eritrei, mi sono trovato poverissimo di risposte, anche guardandomi attorno, e questa mancanza di spiegazione era indicativa del fatto che di Eritrea non si parla, e tra le ragioni di questo silenzio c’è anche la questione che è stata una colonia italiana e c’è una difficoltà oggettiva nell’affrontare il presente e l’intreccio con il passato.
Le storie che riporti nel libro hanno tutte un comune denominatore: il viaggio. Che diventa non tanto uno spostamento da un punto A a un punto B, ma una dimensione dell’esistenza.
Come dicevo, il viaggio inizia molto prima, geograficamente e chilometricamente, del viaggio in mare. Spesso, anche quando riconosciamo la complessità e la lunghezza del viaggio, tendiamo a non associare a questa dimensione quella temporale.
I viaggi sono sicuramente fatti di attraversamenti di spazi, di frontiere, di peripezie, di andate e ritorni, di punti di arresto, di pericoli di morte e di morte concreta, e tutto questo dura mesi se non anni, e avviene spesso in un momento cruciale della vita di ragazzi e ragazze.
Il viaggio non è un passaggio lineare tra due punti, ma finisce per essere tempo di vita e in alcuni casi vita stessa.
Nel libro c’è la storia di Hamid, un ragazzo somalo che racconta una serie incredibile di eventi che gli sono accaduti in un pugno di anni: arrivato in Italia a 19 anni, era partito dalla Somalia a 13.
Il suo non è un caso isolato e il viaggio medio può durare anche due anni, di sicuro non settimane.
È chiaro che per un ragazzo di diciannove anni, cinque o sei anni di viaggio non sono un segmento di vita, ma sono la sua vita e questo è il dato basilare con cui fare i conti. Noi tendiamo a sottovalutare questo nucleo esperienziale che è radicale nella vita delle persone e che ridefinisce la propria soggettività in maniera fondante.
Ritorniamo all’Eritrea e al rapporto tra l’esodo proveniente dall’Africa e il colonialismo italiano, che rappresenta ad oggi un grande rimosso del discorso pubblico, frutto di una mancata elaborazione del ventennio fascista, conseguenza, fra l’altro, del sempreverde mito di “italiani brava gente”.
E’ difficile stabilire un legame diretto, di causa ed effetto, tra il colonialismo italiano in Eritrea e le fughe di massa dal paese. Yvan Sagnet, un personaggio che attraversa il mio libro e che è stato leader della lotta dei braccianti del sud Italia dice: “A differenza dell’Africa occidentale, dove c’erano i tedeschi e i francesi, gli italiani non hanno lasciato uno stato. Alla base delle tragedie del corno d’Africa c’è il vuoto istituzionale creato in Somalia o in Eritrea. La decolonizzazione distorta, le nuove dittature, l’integralismo, l’emigrazione di massa nascono da qui.”
Nel complesso, il colonialismo italiano, oltre a perpetrare massacri ed eccidi, specie in Libia e in Etiopia, non ha lasciato un assetto istituzionale come altre realtà coloniali. E se è vero che ha sviluppato in parte l’urbanistica, e che vi è stata una comunità italiana economicamente rilevante fino ai primi anni ‘70, ha lasciato queste aree del tutto sfasciate.
L’altro dato oggettivo che dobbiamo considerare è che, nell’arco di un ventennio, le aree che hanno prodotto emigrazione di massa, al di fuori delle zone di conflitto come quella siriana o in casi di carestie e violenze come per il Darfur, sono state per lo più ex colonie italiane.
Anzitutto l’Eritrea e la Somalia che rappresentano tuttora i due paesi di provenienza di un’ampia fetta di coloro che si imbarcano verso l’Italia e verso l’Europa – e tale sarà anche nella prossima estate quando i viaggi aumenteranno – e che attraversano un’altra ex colonia che è la Libia. A queste aree aggiungiamo l’Albania, se consideriamo che la nostra percezione dei boat people aumenta bruscamente con la crisi albanese degli anni novanta.
L’atteggiamento dell’Italia rispetto a queste vicende è quello di una rimozione del proprio passato coloniale che punta a sminuire le responsabilità del nostro paese.
Nel libro cerco di mettere in luce come si possano individuare, rispetto ai rapporti tra colonialismo italiano ed Eritrea, tre grandi fratture storiche: la prima risale al passato coloniale, la cui vicenda viene vissuta e poi sepolta, e riemerge nel corso del tempo nel panorama italiano come fantasma indefinito.
La seconda avviene durante gli anni ‘70 quando l’Eritrea, occupata dall’Etiopia, comincia a ribellarsi a quel giogo oppressivo (che è a sua volta una forma di neocolonialismo) e viene a organizzarsi un movimento di liberazione nazionale egemonizzato da subito da un fronte popolare che ha tutte le caratteristiche dei fronti popolari socialisti anticolonialisti. Questo movimento, la cui guerriglia era ben radicata e forte in patria, si organizza politicamente anche tra gli eritrei in esilio e stringe legami piuttosto saldi, sia con il partito comunista italiano, che con una parte della sinistra extraparlamentare. Questa fase, ad oggi quasi completamente dimenticata, si conclude negli anni ‘90 con l’indipendenza dell’Eritrea.
Oggi da questo paese scappano decine di migliaia di persone perché quel movimento rivoluzionario si è tramutato in una dittatura, seguendo una logica stalinista, e nemmeno questo nesso viene messo in chiaro, perché non mi pare di aver visto molte di quelle persone che all’epoca giustamente avevano appoggiato il fronte di liberazione nazionale porsi il problema della sua evoluzione in regime totalitario.
Anche in questo fatto vi è una depoliticizzazione dello sguardo e dell’analisi del conflitto sociale nella questione eritrea. I profughi scappano da una dittatura che ha, ad esempio, imposto il servizio militare obbligatorio a vita e che ha creato uno stato caserma. Non si tratta di un regime oligarchico reazionario, ma della degenerazione di un governo rivoluzionario di liberazione. I primi a rendersene conto sono proprio quegli esuli che, dopo aver partecipato alla guerriglia e aver contribuito alla liberazione del paese, hanno capito che il nuovo potere stava mutuando le peggiori forme oppressive di quello precedente.
Questa complessa analisi politica, che qui ho semplificato, e che provo a ricostruire nel libro, manca. Senza questa contestualizzazione, poco si può capire del perché questo paese si stia svuotando, e del fatto che la fuga dall’Eritrea coinvolge un terzo degli approdi sulla rotta Libia-Europa. Senza una adeguata ricostruzione storica e politica, la situazione attuale sembra galleggiare in aria, priva di reali riposte.
Perché è grave continuare a non porre queste questioni?
Perché in questo modo si arriva a credere che in Eritrea non si viva poi così male, in funzione del fatto che non c’è una vera e continua campagna di denuncia dei crimini perpetrati dalla dittatura eritrea.
Questo atteggiamento non fa che legittimare il processo di Karthoum, sostenuto dal governo Renzi e anche dallo stesso partito socialista europeo, che promuove la regolarizzazione dei flussi attraverso la collaborazione degli stati africani. Ma questo cosa significa? Collaborare con l’Eritrea, dare soldi all’attuale regime affinché alzi ancora di più le barriere?
Se i soprusi quotidiani perpetrati dalla dittatura eritrea fossero di dominio pubblico, forse, una proposta del genere non sarebbe argomentabile.
Rispetto a questo punto non si fa che alimentare la retorica dell’“aiutiamoli a casa loro”.
Si tratta di un confronto fra le diverse retoriche di cui dicevamo prima: da parte dei governi europei, c’è una sorta di articolazione più raffinata del concetto brutale di “autiamoli a casa loro” che, però, nella realtà, vuol dire legittimare l’accordo con le dittature militari in Turchia e in Egitto, paesi di transito, perché creino un primo sbarramento. L’Egitto e la Turchia, il paese che non ci fa sapere niente della morte di Giulio Regeni, e quello che mette bombe di stato. Noi li finanziamo per arginare il flusso, ma ci poniamo il problema, ad esempio, di come questo blocco verrà organizzato?
Nel libro, ma anche nel dibattito da esso scaturito, ho detto spesso cose chiare in proposito: “aiutiamoli a casa loro” è evidentemente una frase senza senso. Io sono dell’idea che se la gente scappa va accolta. Una volta che uno si pone il problema storico e politico delle cause che generano la partenza, ci si dovrebbe interrogare su come risolvere le questioni di quel paese, il che vuol dire, nel concreto, abbattere un regime.
Entriamo però in un terreno minatissimo ed è importante non prestare il fianco al cosiddetto interventismo militare.
Al momento se cade il dittatore eritreo, è difficile immaginare un’alternativa, peraltro in una zona di mondo molto complicata; e questo è uno degli elementi di forza della retorica del dittatore, com’era un elemento di forza, per fare un altro esempio, di Gheddafi.
Io credo che un pensiero libertario, antimperialista, e internazionalista debba allo stesso tempo criticare gli interventi occidentali e non legittimare quei dittatori che rimangono tali. E ritengo che l’unica soluzione sia quella di dare voce e spazio a quell’opposizione laica e progressista, come quella eritrea presente oggi in Europa, che cerca di ragionare su un superamento di quella situazione.
Viene quindi richiesto un pensiero internazionalista che è la negazione dell’“Aiutiamoli a casa loro”, che potrebbe essere formulato in termini del tipo: cominciamo ad occuparci di che cosa accade dall’altra parte del Mediterraneo.
Nomini più volte la necessità di ripoliticizzare il discorso sui migranti, che cosa significa?
Significa un po’ tutto quello che abbiamo detto finora. Partiamo dalla premessa che c’è un pensiero xenofobo che è completamente depoliticizzato, alla cui radice vi è l’identificazione di un capro espiatorio come alternativa all’analisi politica della crisi e delle fratture europee. Dall’altro lato, come si diceva, non credo che la contrapposizione giusta ed efficace sia quella di uno sguardo buonista e incentrato sulla figura della vittima che scappa dalla crisi umanitaria, perché ci permette di capire molto poco, e perché questa prospettiva non sviluppa un racconto politico, bensì umanitario, non dà a questo fatto dignità politica quando esso invece lo richiede. Ignorando il discorso politico, non riconosciamo ai profughi pienezza di persona; si dà dignità a qualcuno quando si ascolta la sua voce e si guarda il suo volto.
Il discorso pubblico sulla questione migranti riduce gli individui ad una massa silenziosa, quando invece esiste un modo in cui questi soggetti descrivono quello che accade loro. Bisogna andare oltre la codificazione giornalistica in cui spesso il discorso cade, ricostruire le singole storie, la loro complessità, costruire sguardi incrociati, analisi, cause.
E poi, più semplicemente, ci sono delle persone cui va riconosciuta e restituita dignità umana, e lo possiamo fare solo partendo da una ricostruzione delle cause delle loro partenze, e comprendendole come cause politiche, altrimenti tutto diventa un calderone astorico, da cui l’unico discorso che emerge è quello oggi erogato in funzione della parola “flusso”, e le uniche domande ad esso relative sono: come lo regoli, come lo organizzi, come lo arresti, come tenerlo fuori dalla ‘fortezza Europa’?
a cura di Silvia Antonelli