“La scienza è l’unico campo dell’esperienza umana che costituisce, nel complesso, un enorme, quasi assoluto, successo epistemologico”.
Questa citazione del matematico americano Norman Levitt (1999) (1) difficilmente potrebbe oggi incontrare obiezioni: il trionfo del metodo scientifico come strumento di conoscenza e di progresso sociale è sotto gli occhi di tutti.
Ma allora, se è così, come si spiega il dilagare in questo scorcio di inizio millennio di tutta una serie di discipline o di credenze di varia natura, dall’antivaccinismo alle medicine alternative, dai movimenti anti-OGM alle mode dietetiche, dall’omeopatia al negazionismo del riscaldamento globale, dalle teorie cospirative alle scie chimiche, che con il metodo scientifico poco o nulla hanno a che fare?
C’è innanzitutto da dire che in una società nella quale le conoscenze scientifiche e tecnologiche si moltiplicano senza interruzione e in cui la loro divulgazione non è sempre così trasparente (per usare un eufemismo), formarsi in modo autonomo una opinione, in particolare su questioni pratiche che molto spesso hanno ricadute concrete sulla nostra vita quotidiana, può diventare un’impresa difficile per molti. Del resto, anche affidarsi ai cosiddetti “esperti” può essere altrettanto avvilente, in quanto gli stessi si trovano spesso in disaccordo tra loro o, peggio, asserviti a interessi di parte.
Come libertari e anarchici, in che modo dobbiamo allora affrontare autonomamente il problema della demarcazione di popperiana memoria tra scienze e pseudoscienze? Attenzione, questo non è un problema che, come molti pensano, interessa solo i filosofi, ma ha invece conseguenze pratiche molto importanti: si tratta di decidere per esempio se l’omeopatia possa essere praticata negli ospedali o se il creazionismo possa essere insegnato o meno nelle scuole pubbliche. In altre parole: come dobbiamo “fissare le nostre credenze” (Peirce, 1877) (2)? La scienza basta a spiegare tutto o è diventata, come oggi una parte significativa del movimento anarchico ritiene, una fede intollerante incapace di trarre ispirazione da o semplicemente di lasciare spazio a ipotesi o tradizioni alternative?
Già nel 1975 l’epistemologo libertario Paul K. Feyerabend (3) sosteneva che “la scienza ha cessato di essere un’alleata per l’anarchico”: la fede nella scienza e nella ragione naturale dell’uomo, che aveva caratterizzato l’anarchismo politico post-illuminista tardo-ottocentesco di matrice positivistica e riferito prevalentemente alle cosiddette scienze naturali (di cui Pëtr Alekseevič Kropotkin fu il più illustre rappresentante), veniva messa in dubbio dal fatto che l’attività scientifica, oltre ad essersi convertita da indagine filosofica a impresa commerciale, non sarebbe in grado di produrre risultati solidi in quanto non esiste un unico metodo scientifico, un sistema di regole generali per ricavare teorie dai fatti, in quanto nella storia della scienza qualsiasi criterio metodologico è stato prima o poi violato. Secondo Feyerabend qualsiasi criterio può andare bene, “anything goes”.
Il punto di vista di Feyerabend è chiaramente provocatorio ed è stato interpretato come l’idea che la scienza non debba seguire nessuna regola. Niente di più falso: l’epistemologo austriaco riconosce che esistono buoni e cattivi metodi di fare ricerca scientifica, tanto da distinguere i pensatori rispettabili dai ciarlatani. I suoi strali sono rivolti non tanto alla scienza quanto alla filosofia, che pretende di ingabbiare la creatività degli scienziati in schemi metodologici universali e restrittivi; l’intento è di criticare semmai l’istituzionalizzazione della scienza, che in passato ci ha sì liberato dai dogmi e dalle superstizioni ma che ora ha assunto un’egemonia culturale e sociale che sfocerebbe in una sorta di “imperialismo scientifico”.
Malgrado nelle comunità scientifiche non vi sia un rischio così evidente di un nuovo dogmatismo, si è appurato che lasciare spazio al disaccordo intellettuale, a posizioni eterodosse, a problemi “esotici” che non abbiano immediate ricadute applicative è importante per il progresso della scienza stessa, tanto quanto la variabilità genica è una risorsa per l’evoluzione biologica. In altre parole Feyerabend, nonostante le sue esagerazioni (cui non credeva fino in fondo neppure lui) aveva ragione a insistere che è impossibile ridurre la ricerca scientifica ad una serie di regole prestabilite da seguire che permettano di passare dall’osservazione dei fatti alla formulazione di teorie: la ricerca scientifica non è un’attività perfetta, in quanto realizzata da esseri umani, non è monolitica (vi sono differenze importanti tra discipline per quanto riguarda ad esempio il ruolo degli esperimenti, i formalismi matematici da utilizzare, le tecniche; l’idea della scienza che ha un fisico teorico è diversa da quella di un paleontologo o di un neurobiologo, molto più di quanto si possa immaginare) e dovrebbe inoltre tener conto non solo degli aspetti metodologici ma anche di quelli storici, psicologici, sociali.
Alla luce di tutto questo l’approccio dei libertari nei confronti dell’impresa scientifica dovrebbe essere, a parere di chi scrive, all’insegna del pluralismo epistemologico. Esiste una preoccupazione fondata, che deve essere quella di combattere il monismo scientista con i suoi corollari riduzionistici, meccanicistici e deterministici come ideali regolativi, il che significa che nell’attività scientifica non dovrebbe esserci spazio per nessuna ortodossia o autoritarismo ma per un pluralismo che, oltre a non demonizzare pregiudizialmente ipotesi, tradizioni o conoscenze alternative, si avvalga anche di teorie che tengano conto del contesto sociale o ambientale nel quale si sviluppano. Poiché però l’attività scientifica ha un essenziale rilievo sociale, pluralismo non significa che dobbiamo accettare qualsiasi idea o ipotesi senza sottoporla ad uno studio preliminare: come sostiene giustamente il filosofo della scienza Giulio Giorello (2015) (4) “la spiegazione scientifica è riduzione dell’arbitrario nella descrizione di qualsiasi corpus di dati empirici”. Se un’ipotesi non è sostenuta da evidenze sperimentali e osservative essa rimane una credenza, ovvero una convinzione cui ognuno, in virtù della sacrosanta libertà individuale, può fare liberamente riferimento come guida all’azione personale, ma che non può ottenere lo status di teoria scientifica ed essere adottata a beneficio di una intera comunità. Come Scrive (Peirce, 1877) (5): “Se non ci facciamo eremiti, noi influenzeremo necessariamente le nostre rispettive opinioni; di guisa che il problema diviene quello del modo di fissare le nostre credenze non meramente nell’individuo, ma nella comunità”. Ribadire, giustamente, che la scienza è un processo di accumulo di conoscenze che, per quanto sia condizionato da dispositivi economici e politici, esige di libertà per progredire (e questo la differenzia da ogni forma di integralismo religioso o ideologico) dimenticando la dimensione sociale del processo di formazione e giustificazione delle credenze scientifiche sarebbe infatti un errore gravissimo.
Se è innegabile che il sistema della ricerca tecnico-scientifica abbia prodotto e continui a produrre enormi benefici per le masse in ogni campo, bisogna però anche riconoscere che tali ricadute positive rimangono ben al di sotto del vero potenziale della scienza e della tecnologia contemporanee, in quanto parte dell’establishment scientifico, così com’è strutturato nella società capitalistica, funge da baluardo a difesa degli interessi del blocco di potere rappresentato dal monopolio di stati e multinazionali e che, anche come conseguenza di questo, all’incirca una metà della popolazione mondiale non ha oggi pieno accesso a tali benefici. Al contrario, in una società che si voglia spontaneamente organizzata in federazioni di piccole comunità autogestite di liberi produttori, pienamente integrate nei rispettivi territori di riferimento, questa forma di totalitarismo dell’attività tecnico-scientifica contemporanea non avrebbe ragione di esistere. Una volta liberata la ricerca dai vincoli del profitto e dell’organizzazione statuale, gli scienziati sarebbero mossi soltanto dall’obiettivo di favorire il progresso delle loro comunità e ciascuno opererebbe secondo criteri emersi dalla specificità dei problemi concreti emersi di volta in volta. Per una tale società liberata, solo una scienza liberata potrà fornire le risposte più adeguate.
Come scriveva Errico Malatesta (6): “La scienza è un’arma che può servire per il bene e per il male; ma essa ignora completamente l’idea di bene e di male. Dunque noi non siamo anarchici perché la scienza ci dice di esserlo; lo siamo invece, fra le altre ragioni, perché vogliamo che tutti possano godere dei vantaggi e delle gioie che la scienza procura”.
Riferimenti bibliografici
- Levitt N., 1999, Prometheus Bedevilled: Science and the Contradictions of Contemporary Culture, Rutgers University Press, New Brunswick (N.J.)
- Peirce C.S., 1877, The fixation of belief, in “Popular Science Monthly”, 12, pp. 1-15; trad. It. Il futuro della credenza, in Scritti di filosofia, Cappelli, Bologna, pp. 137-158
- Feyerabend, P.K., 1975, Against Method, New Left Books, London (trad. It. Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 2002)
- Giorello G., 2015, Libertà, Bollati Boringhieri
- Ibid.
- Malatesta, E., “Volontà”, n. 29, 27 dicembre 1913