Prima l’anarchia

I compagni e le compagne della Federazione Anarchica Italiana, riuniti a congresso dal 19 al 22 aprile a Massenzatico, hanno sviluppato un ampio e articolato dibattito sui temi all’ordine del giorno. Questa la sintesi, prodotta da una Commissione di Lavoro, che tiene conto dei documenti prodotti dai gruppi e dalle individualità. Il Dibattito Prosegue.

Le relazioni politiche e sociali che segnano il nostro presente dipingono l’orizzonte del capitalismo trionfante, del risorgere dei nazionalismi, della normalità della guerra. La violenza estrema dello sfruttamento e dell’oppressione relega miliardi di persone nell’inferno degli ultimi. Un inferno più fondo e più buio di un secolo fa. La piramide sociale è sempre più aguzza: la grande maggioranza delle persone è sempre più povera, mentre pochissimi sono sempre più ricchi. Le forme di ammortizzazione del conflitto sociale che hanno segnato l’era delle socialdemocrazie sono ormai tramontate: le logiche disciplinari si impongono a livello planetario, la devastazione ambientale colloca il pianeta su una china sempre più erta, il ritorno di fondamentalismi religiosi e, per altro verso, di istanze nazionaliste è la risposta alle promesse mancate della modernità.

L’immaginario sociale si dispiega in un eterno presente. Senza memoria, senza futuro. La cecità, l’assenza di prospettive che oltrepassino l’eterno ritorno dell’oggi, l’impossibilità di far fronte alla crisi ecologica, l’evidenza di quanto sia insostenibile e distruttiva una crescita inarrestabile, aprono vistose crepe in un’impalcatura che divora se stessa. Il capitalismo continua a promettere a ciascuno la propria chance ma le immagini che lo riflettono sono le enormi discariche su cui vivono milioni di persone senza speranza. Le stesse classi dirigenti non fanno progetti: neppure quelli che servirebbero a garantirne la sopravvivenza sino alle generazioni immediatamente successive. Il capitalismo e la democrazia paiono orizzonti intrascendibili e colonizzano stabilmente l’immaginario sociale.


Nel nostro paese i padroni hanno lavorato di fino, puntando sull’ardita narrazione di una comunità di interessi tra sfruttatori e sfruttati, cui viene imposto il dovere della solidarietà aziendale, perché il bene del ceto imprenditoriale è il bene di tutti.

Negli ultimi quarant’anni i padroni hanno attaccato con successo le condizioni di vita di chi, per vivere, deve piegarsi al lavoro salariato. Nel periodo tra il 1969 e il 1980 i lavoratori e le lavoratrici hanno fatto paura ai governi e agli imprenditori, che temevano per le loro poltrone e per i loro profitti, avevano timore che le lotte mutassero di segno, che si finisse con l’attaccare il diritto alla proprietà privata e la legittimità dello Stato.

Il Jobs Act renziano, come altri analoghi provvedimenti “suggeriti” dalla BCE, è stato il momentaneo punto di approdo di tre decenni di smantellamento di un sistema di tutele e garanzie, che fu il precipitato normativo di lotte le cui ambizioni erano ben più ampie. L’esaurirsi della spinta propulsiva di quelle lotte ha aperto la strada alla reazione.

Salute, istruzione, trasporti sono oggi un lusso, i salari sono diminuiti, le ore di lavoro aumentate, tanta gente finisce in strada perché non può pagare l’affitto. Il lavoro, quando c’è, è sempre più pericoloso, precario, malpagato. I giovani campano di lavoretti, gli anziani non possono andare in pensione, se non rinunciando ad un reddito decoroso. Non solo. Si è spezzato un immaginario per cui l’accesso a servizi e beni fondamentali e la riduzione della sperequazione normativa e salariale non è più parte delle libertà sociali, ma premio per chi merita. Le nuove generazioni, per la prima volta nell’ultimo secolo, hanno condizioni di vita e di lavoro peggiori di quelle precedenti.


È stato un processo lungo, che ha disarticolato le condizioni materiali e simboliche che davano forza alle lotte degli sfruttati. La quarta rivoluzione industriale, come le precedenti, ha l’obiettivo di ridurre la spesa per i salari ma anche, e non secondariamente, lo scopo di esercitare un controllo capillare, continuo, individualizzato su chi lavora. I chip sottopelle, i braccialetti dei facchini e magazzinieri sono l’ultima puntata di un reality cominciato con la polverizzazione territoriale delle unità produttive, con l’eliminazione della proprietà diretta dei luoghi e dei mezzi di produzione, con la frantumazione fisica e normativa delle grandi aggregazioni industriali o di servizio.

Un’innovazione tecnologica costante ed i conseguenti cambiamenti sui piani della vita lavorativa e sociale, sono ciò che continua a caratterizzare il nostro oggi: dagli smartphone ai droni, all’automazione di molti settori della produzione, dove le intelligenze artificiali minacciano di mettere sotto controllo ed a profitto le intere nostre esistenze.

Dalla Fiat alle Ferrovie, spezzatini societari, esternalizzazioni, appalti e subappalti, cooperative e società in accomandita sono stati il cemento materiale con cui sono stati divisi e isolati i lavoratori. I governi hanno fornito il quadro normativo che ha liberato le mani di imprenditori e manager. In questi anni è stato ri-legalizzato il caporalato, con la nascita di una miriade di agenzie di intermediazione, sono stati cancellati diritti e tutele, rendendo sempre più ricattabili e precarie le vite degli sfruttati.

Sin dalla scuola, tramite l’alternanza si viene portati a credere che il lavoro sia un obbligo sociale, che non prevede remunerazione. Il primo atto di una lunga teoria di lavori gratuiti in cambio di curricula che caratterizzano il discutibile e, spesso, improbabile miraggio del lavoro salariato.

La continua crescita di infortuni sul lavoro è il segno dello sbilanciarsi dei rapporti di forza delle classi subalterne nei confronti di chi si fa ricco sul loro lavoro. Le tante figure disegnate dalla complessa mappa dello sfruttamento non riescono a pieno ad agire come classe in grado di produrre una profonda trasformazione sociale.


L’avanzamento tecnologico aumenta la velocità di trasferimento dei servizi, delle risorse e del capitale, fino al punto in cui i flussi di investimento e i trasferimenti di denaro sono praticamente istantanei e virtualmente senza confini, mentre la velocità di trasferimento della forza lavoro è limitata dai confini istituzionali. Quindi da un lato i servizi e le merci non conoscono (o quasi) barriere, mentre il lavoro è bloccato e territorialmente circoscritto. L’innovazione tecnologica quindi contribuisce a creare le condizioni sulle quali si costruiscono nuovi scenari e sulle quali si impostano le istanze di cambiamento della struttura socio economica mondiale.

Miriadi di esseri umani si spostano dai luoghi devastati dal capitale, emigrano sperando in migliori condizioni di vita, incontrano le frontiere e i muri eretti dagli Stati che li respingono indietro. La violenza securitaria e razzista ha fatto migliaia di morti lungo i confini chiusi dei paesi più ricchi: annegati nel mar Mediterraneo, uccisi lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti, soffocati nelle intercapedini dei camion, assiderati lungo le rotte alpine, sulla via dei Balcani come nel deserto del Sinai. Tantissimi vengono sequestrati, torturati, stuprati, venduti nelle prigioni per migranti in Libia, foraggiate dall’Italia.

La legislazione sull’immigrazione nel nostro paese ha delineato una rottura dell’ordine liberale, perché il mancato accesso ai diritti di cittadinanza finisce con il declinarsi in negazione dei diritti umani. Nel nostro paese dal 1998 ci sono persone che possono essere private della libertà e deportate per un illecito di carattere amministrativo. Si è così aperta una frattura materiale e simbolica tra “noi” e gli “altri”, tra “cittadini” e “non cittadini”. Questa frattura si è progressivamente allargata assumendo le forme della guerra, della separazione tra chi può ritenere di avere “diritti umani” e chi no.

La nozione di “diritto penale del nemico” fornisce la base teorica che consente scenari da guerra interna contro immigrati, poveri, oppositori sociali, destinatari di linee normative e repressive diverse da quelle ordinarie. Il reticolo normativo che ingabbia le vite dei lavoratori immigrati, con il legame tra permesso di soggiorno e contratto di lavoro ha offerto un’arma potente di ricatto e divisione ai padroni. La retorica sovranista ha offerto il cemento culturale ad un’operazione che sta dando oggi tutti i suoi frutti avvelenati.

La guerra ai poveri viene fatta senza esclusione di colpi. La paura domina ed il futuro è sempre più incerto, precario, instabile. L’estrema destra populista è più forte: riesce a catalizzare un malcontento sociale diffuso, perché promette di cancellare il timore che non vi sia scampo, perché afferma che sia possibile tracciare un confine invalicabile a protezione di comunità che si costituiscono nella negazione, nell’esclusione dell’altr*.

Siamo di fronte ad un fenomeno di portata planetaria, che attraversa con violenza l’Europa, il Sud America, gli Stati Uniti, l’Asia. Anche nel nord del pianeta il trionfo del capitalismo suscita paura tra i proletari e negli strati bassi delle fasce sociali intermedie. É una paura che genera mostri: la ricomparsa di processi identitari escludenti, violenti, autoritari ne è il tratto saliente.

Tanta parte degli sfruttati, nonostante l’acuirsi della guerra di classe, si pongono lungo la faglia dell’identità separata, della nazione, della religione. L’asse dello scontro sociale si sposta sulla linea immaginaria che divide i poveri dai più poveri, i nati qui dai nati altrove, chi crede di avere diritti di nascita da quelli cui gli stessi diritti sono negati. Se l’altro è altrove, la nazione diventa il luogo caldo, sicuro, tranquillo, l’angolo in cui il presente eternizzato si riproduce all’infinito. I governi erigono muri, piazzano uomini armati sui confini, sul mare, giù sino nel cuore dell’Africa. Ma non basta mai. Il nemico interno resta sempre all’orizzonte: finché gli sfruttati crederanno che i loro guai dipendono dall’immigrato povero, dal profugo di guerra, dal contadino in fuga dalla desertificazione, sarà difficile scalfire un immaginario sociale colonizzato sempre più stabilmente dall’estrema destra, nella sue diverse articolazioni.

Il populismo fascista, leghista, pentastellato alimenta di fatto la povertà e la divisione sociale facendo leva su provvedimenti come il reddito di cittadinanza, l’aumento delle pensioni minime, la possibilità di pensione anticipata, l’esclusione degli immigrati dalle misure destinate agli italiani.
Tanta retorica per una grossa truffa.

La legge Fornero non è stata abolita. Chi rientra nella quota 100 prenderà una pensione molto più bassa di chi ci andrà a 67 anni, perché il sistema di calcolo della pensione resterà quello fissato dalla legge Fornero. Il reddito di cittadinanza è un dispositivo disciplinare, non un mero ammortizzatore preventivo del conflitto sociale. Lo stigma della colpa investe i poveri, infantilizzati ed obbligati al lavoro gratuito, a qualsiasi condizione ed a qualsiasi distanza, per ottenere un sussidio il cui utilizzo è deciso ed imposto dal governo.

Il ministro dell’Interno si presenta come padre della Patria. Dio, patria e famiglia sono i cardini antichi della narrazione governativa. La sacralità della proprietà privata è sancita dalle leggi che danno il potere di uccidere a chi la difende.

Potenti raggruppamenti identitari e sovranisti danno voce alle paure di chi sa che anche nel nord ricco del pianeta ci sono persone senza futuro né prospettive. I movimenti che rimettono al centro la patria, la bandiera, la famiglia, la frontiera offrono un salvagente simbolico fatto di identità escludenti, si fanno forti nella negazione dell’altro, che diviene nemico. Stranieri, migranti, profughi sono i nemici che vengono da fuori, i poveri il cui presente potrebbe divenire il nostro futuro. Le donne sono il nemico interno, il loro asservimento è indispensabile alla riaffermazione della famiglia, nucleo politico ed etico del patriarcato alle nostre latitudini.

Il carattere reazionario e autoritario del governo riveste anche le caratteristiche sovraniste. A queste guardano comunque ambiguamente anche settori di sinistra in una convergenza di intenti con la vulgata fascio leghista che fa lega su alcuni cardini comuni. La presenza di figure forti capaci di sussumere lo “spirito” della nazione, la riproposizione di una narrazione patriottica, l’illusione della sovranità monetaria, che farebbe da ombrello alla ferocia liberista e da perno di regolazione sociale.


Il quadro sin qui sommariamente delineato rende la guerra un orizzonte normale e quotidiano, in una sostanziale osmosi tra guerra interna e guerra esterna. I respingimenti in mare, i porti chiusi, il tentativo di aprire campi di concentramento in Nord Africa o in Niger, le prigioni per senza documenti, la militarizzazione del territorio, i militari nelle strade, nei CPR, nei luoghi delle lotte ambientali, nelle stazioni e sulle frontiere, la legislazione che impedisce la libera circolazione, il vincolo del lavoro per ottenere il permesso, i limiti alla possibilità di fare richiesta di asilo, sono tasselli di un mosaico di guerra interna. Mosaico che si compone a pieno anche attraverso le innumeri azioni repressive nei confronti dell’opposizione politica e sociale e delle lotte in cui sono spesso impegnati gli anarchici.

Vi incrociano gli elementi che definiscono lo stesso paradigma bellico che si applica alle guerre “esterne”: l’approccio “umanitario”, l’operazione di polizia, la guerra totale. L’operazione “strade sicure”, è arrivata al suo decimo anno. I militari, che in precedenza venivano impiegati in operazioni di polizia solo in circostanze “eccezionali” sono “normalmente” impiegati nelle nostre città.

In un contesto sociale sempre più duro, nonostante la repressione poliziesca, la pressione disciplinare, l’imposizione della povertà come orizzonte intrascendibile per miliardi di esseri umani, segnali importanti di conflitto non riducibile alle logiche istituzionali, a macchia di leopardo, emergono nei più diversi contesti.

Nel settore nevralgico della logistica, lavoratrici e lavoratori immigrati autorganizzati da anni stanno lottando per salario e diritti, facendo significativi passi avanti, che riescono a catalizzare anche altri settori lavorativi. I movimenti contro le grandi opere, le speculazioni e le devastazioni ambientali hanno un ruolo importante nel praticare una critica radicale al capitalismo. I movimenti per la casa, per i trasporti gratuiti, per la tutela dell’ambiente sono una risposta concreta alle emergenze sociali che segnano la quotidianità.

Le politiche securitarie e di esclusione sociale contro gli immigrati trovano argine nella solidarietà diffusa e concreta con chi prova a bucare le frontiere chiuse, chi è reso clandestino, buttato in strada, sfruttato. Le lotte contro i cpr e le frontiere, per la libertà di circolazione hanno segnato gli ultimi anni.


L’attacco clerico-fascista contro le donne e tutte le soggettività non conformi si è intensificato con il governo giallo verde, le cui connessioni con la chiesa cattolica sono molto strette. Nel mirino finisce chiunque si oppone al modello familistico patriarcale e a condotte di genere etero-binarie.

La risposta femminista, che si è espressa con forza nelle piazze di tutto il mondo, anche in Italia ha conosciuto importanti momenti di lotta, espressione di una significativa crescita di un nuovo movimento. Il transfemminismo intersezionale, che in questi anni è dilagato in ogni dove, nasce dall’acuta consapevolezza dell’estrema violenza della reazione patriarcale ai percorsi di libertà delle donne e di tutte le soggettività non conformi. Il risorgere degli integralismi religiosi, cristiani, islamici o indù ne è il segno.

Il femminismo intersezionale, cogliendo l’intreccio tra il patriarcato e le altre forme di dominio, si pone come uno degli snodi di una critica e di una lotta radicali alle relazioni politiche e sociali in cui siamo forzati a vivere.


L’orizzonte libertario è oggi divenuto patrimonio comune di tanta parte dei movimenti di lotta che spesso si danno forme organizzative e contenuti che incrociano significativamente l’approccio anarchico. L’anarchismo si trova di fronte ad una vittoria del proprio orizzonte culturale e, insieme, ad una sfida ai propri percorsi.

Vincere questa sfida significa rimettere al centro la questione della rivoluzione. Rivoluzione intesa sia come processo di sottrazione conflittuale dall’esistente sia come rottura dell’ordine vigente. Prescindere dalla rivoluzione significa adattarsi alla rassegnazione che l’orizzonte in cui siamo forzati a vivere non sia trascendibile. La radicalità dello scontro che talora i movimenti del post-Novecento mettono in campo diventa mera rappresentazione di una rivolta anomica, figlia della stessa rassegnazione di chi vorrebbe una riedizione della socialdemocrazia.

Una prospettiva rivoluzionaria non può non porsi il problema della durata, della costruzione di relazioni politiche stabili, della prospettiva federalista, in altre parole dell’organizzazione anarchica. Si tratta semmai di raccogliere la sfida che ci viene posta dai movimenti di questo secolo, costruendo percorsi che sappiano mostrare l’importanza della sperimentazione organizzativa anarchica in una prospettiva di liberazione individuale e collettiva.

Commissione per la sintesi del dibattito incaricata dal XXX Congresso della Federazione Anarchica Italiana Massenzatico (Reggio Emilia) 19-22 aprile 2019

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