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Lo stupro come arma di guerra

Lo stupro come arma di guerra

Durante le guerre sono stati commessi stupri per seminare il terrore tra la popolazione, per disgregare famiglie, per distruggere intere comunità e, in alcuni casi, per modificare la composizione etnica della generazione successiva nonché contagiare deliberatamente le donne con il virus dell’HIV o rendere le donne appartenenti alla comunità, presa di mira, incapaci di procreare.

In Ruanda, durante il genocidio, protrattosi per tre mesi nel 1994, furono stuprate tra le 100.000 e le 250.000 donne e più di 60.000 sono state stuprate durante la Guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), più di 40.000 in Liberia (1989-2003), fino a 60.000 nella ex Yugoslavia (1992-1995) e almeno 200.000 nella Repubblica Democratica del Congo durante gli ultimi 12 anni di guerra.

Gli effetti della violenza sessuale sono continuate anche in seguito con le gravidanze indesiderate, le infezioni trasmesse per via sessuale, l’emarginazione per infamia, che hanno dimostrato che la violenza sessuale, su vaste proporzioni, è continuata o addirittura aumentata anche dopo il conflitto, poiché provvedere ai bisogni dei superstiti, l’assistenza sanitaria, la cura contro il virus dell’HIV, il sostegno psicologico, gli aiuti economici, richiedevano risorse di cui la maggior parte dei paesi, nel dopo conflitto, non disponevano.

La schiavitù sessuale, la prostituzione forzata, la gravidanza e la sterilizzazione forzata, le donne stuprate marchiate di infamia e bandite dalla comunità, sono state altre armi usate e per secoli: la violenza sessuale in situazioni di conflitto è stata tacitamente accettata in quanto inevitabile e, storicamente, i militari hanno considerato lo stupro un legittimo bottino di guerra.

Nel conflitto in Ruanda e Burundi, culminato in genocidi e stupri di massa, la strategia dell’annientamento e della violenza carnale sistematica sono stati usati come arma bellica, per contaminare le donne “altrui” col proprio seme-essenza etnica, a costringerle a procreare figli “bastardi”, oltre che a umiliare, disonorare, piegare gli uomini della parte avversa.

Il 3 agosto 2014 lo stato islamico ha sequestrato 7000 donne Ezide dalla città di Shengal, nella regione autonoma del kurdistan iracheno. Molte le donne che hanno subito violenza, più di mille quelle vendute al mercato delle schiave, 500 sono riuscite a fuggire e molte di loro hanno scelto la via del suicidio.

Nell’agosto del 1914, nel corso dell’invasione del Belgio da parte dell’esercito tedesco, le truppe germaniche hanno stuprato le donne belghe, suscitando clamore nell’opinione pubblica.
Anche nel nord della Francia vennero denunciati casi di violenza carnale commessi dai reparti tedeschi, puntualmente registrati da una commissione d’inchiesta alleata.

Durante la Seconda Guerra Mondiale tutte le parti del conflitto furono accusate di aver commesso stupri di massa, tuttavia nessuno dei due tribunali, istituiti a Tokyo e a Norimberga dai paesi alleati risultati vittoriosi per perseguire i presunti crimini di guerra, hanno riconosciuto il reato di violenza sessuale.

Nel massacro di Nanchino, commesso dall’esercito giapponese del 1937, circa 20.000 furono le donne ed i bambini stuprati, impalati, mutilati i loro cadaveri negli organi genitali, ridotti a schiavi sessuali; l’esercito australiano ne ha commessi altri nel 1946, quello francese nel 1945 in Italia. L’esercito italiano ha commesso stupri in Etiopia e Libia durante la seconda guerra mondiale, negli anni novanta in Bosnia Erzegovina, nel 2010 durante le missioni di pace in Congo, Somalia dai soldati della Folgore; l’esercito americano nella seconda guerra in Iraq nella prigione di Abu Ghraid, lo stato islamico nell’ultima guerra in kurdistan e l’esercito turco nella recente invasione di Afrin in Rojava del 20 gennaio scorso. Questi sono stati solo alcuni degli accadimenti che sono giunti a conoscenza dell’opinione pubblica.

La cultura dello stupro, la tortura e la violenza sessuale sono perpetuate anche nelle presunte “zone di pace”. Gli stupri di massa e altre violenze sessuali contro le donne, bambini e bambine, avvengono che siano o meno guerre convenzionali: durante le guerre di invasione o le guerre civili sono utilizzate come una vera e propria tattica di guerra poiché la guerra è il luogo dove l’autoritarismo e l’uso indiscriminato del potere e della sopraffazione viene usato ed abusato, legittimato contro il presunto nemico, il bersaglio e l’oggetto da abbattere.

Il corpo/oggetto, sessualmente discriminato, è esposto al rischio di sevizie, abusi e torture sia dall’esercito dei vincitori ma anche degli sconfitti e della collettività tutta. L’esplosione periodica di odio tra gruppi definiti etnici sono utilizzati per nascondere o minimizzare il peso dei fattori economico-sociali, il gioco degli opposti nazionalismi, il riemergere del disegno egemonico di una nazione sull’altra e le strategie degli stati nelle sciagurate imprese nazionaliste col solo scopo di mantenersi al potere e di riuscire a gestire le transizioni al capitalismo.

La menzogna della guerra “a zero morti”, chirurgica e incruenta, propagandata secondo la falsa infallibilità dei droni, nasconde la realtà dei conflitti e degli eserciti che usano e abusano dei corpi, anche e soprattutto delle donne. Lo stato permanente di guerra asimmetrica e non-dichiarata ha affermato una indistinzione tra guerra e pace, spazio interno e spazio esterno, funzioni civili e funzioni militari e, in tale situazione determinata, lo stupro non soloha continuato ad essere un’arma di guerra ma è diventato anche arma di pace e le violenze sessiste, fino allo stupro ed al femminicidio, sono un dato strutturale dell’ordine patriarcale.

Attualmente le forze di pace internazionali, le cosiddette peacekeeping, si stanno caratterizzando per una ricorsività allarmante di violenze, stupri, prostituzione forzata, sfruttamento e ricatti sessuali, esercitati dai “portatori di pace” contro le popolazioni civili, soprattutto donne, ma anche bambine e bambini.

Il caso di Ibis, operazione condotta dai parà della Folgore nell’ambito di Restore Hope (1992-95), intervento dei Caschi blu nella Somalia devastata dalla guerra civile, è solo una manifestazione tra le più note dove i parà italiani si sono macchiati di violenze atroci, anche sessuali: tra gli episodi più orrendi e più noti vi sono quelli di una giovane somala stuprata con un razzo illuminante e di un prigioniero torturato con elettrodi applicati ai genitali.

Episodi analoghi o ben peggiori si sono susseguiti con una regolarità allarmante nei più vari contesti: per limitarci agli anni Duemila, in Eritrea, Burundi, Liberia, Guinea, Sierra Leone, Haiti, Repubblica Democratica del Congo, Costa d’Avorio, Benin, Sud Sudan e più recentemente di nuovo in Somalia, come è documentato nel rapporto del 2014 di Human Rights Watch; nonché, secondo notizie trapelate nel 2015, nella Repubblica Centroafricana e ancora ad Haiti.

Secondo un’indagine dell’Internal Oversight Services, organismo delle stesse Nazioni Unite, nel solo periodo tra il 2008 e il 2013 i Caschi blu si sarebbero resi responsabili di ben quattrocentottanta casi di sfruttamento e violenze sessuali, un terzo dei quali ai danni di minori.

Lo sfruttamento e la violenza sessuale, tra la sfera dei crimini di guerra e quella dei crimini di pace, de-umanizzando e reificando particolari categorie di persone, intendendo cancellarne la dignità personale e politica ci costringono ad aprire lo sguardo ed analizzare più a fondo la continuità e la dialettica fra tempo detto di pace e tempo di guerra.

Lo stupro o la violenza sessuale, definita anche di genere, è dunque sempre stata utilizzata come crimine politico ed arma di guerra perpetuato da coloro che, con la forza fisica, con il proprio potere e con l’autorità, la prevaricazione o la minaccia (esplicita o implicita), usati come mezzo di sopraffazione contro la volontà ed il consenso di una persona, l’hanno costretta a compiere e a subire atti sessuali.

Nazionalizzazione e nazionalismo, centralismo, globalizzazione e razzializzazione secondo il “fardello dell’uomo bianco” sono le politiche che gli stati hanno adottato ed usato per garantire la costruzione e la diffusione del capitalismo attraverso la sopraffazione delle guerre o il “consenso” dei paesi. Ciò che però gli stati ed il capitalismo hanno mantenuto intatta è la struttura della diseguaglianza, del profitto, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, della discriminazione sessuale patriarcale e l’ingiustizia sociale, dello sfruttamento dell’uomo sulla natura, della guerra per l’annientamento della popolazione.

Nel corso dei secoli è stato dimostrato che, quando questo sistema ha incontrato ostacoli, opposizione e resistenze, nella sua diffusione locale e globale, da parte di coloro che hanno voluto costruire una struttura alternativa autogestionaria, di piccole o più grandi dimensioni, locali o distribuite sul territorio (centri sociali, le comuni, eccetera), lo stato nazione, il capitalismo ed i loro apparati hanno usato ogni mezzo, legale e illegale (determinando esso stesso cosa lo fosse o non lo fosse di volta in volta), per sopraffare, cancellare e controllare le esperienze che hanno cercato soluzioni alternative basandosi sul mutuo appoggio e sull’autodifesa.

Il capitale ed il profitto da sempre hanno cercato di creare disgregazione, competizione e controllo nei territori e, usando il razzismo, nel corso della storia, hanno cavalcato il populismo ed il nazionalismo per diffondere la competizione e l’odio tra poveri, verso lo straniero, la discriminazione e la violenza di genere. È nelle epoche come la nostra che, diffondendo scelte e idee razziste, nazionaliste ed autarchiche che si sta investendo nell’industria delle armi, degli eserciti e delle guerre tra stati, nelle guerre civili, nella militarizzazione dei territori unicamente per creare liquidità, denaro e ricchezza accumulata nelle mani di una manciata di ricchi.

Durante le dittature la sottomissione e la subordinazione al potere risulta più evidente, ma il patriarcalismo è lo stesso e ben mascherato nei sistemi cosiddetti “progressisti”, come nelle epoche di cosiddetta “rivoluzione sessuale”, dove all’ipocrisia spesso è stata associata l’indifferenza nel cercare soluzioni pratiche per emanciparsi ed uscire dalla struttura del patriarcato.

La guerra e gli eserciti sono sopraffazione e solo la loro negazione può fermare tale strumento di potere. Disertare gli eserciti al servizio degli stati e del capitale, boicottare l’industria e le fabbriche di armi al servizio delle nazioni e delle corporazioni multinazionali autorganizzando gli strumenti necessari a coordinare l’azione diretta con l’autogestione e l’autodifesa degli spazi di libertà per tutte e tutti è uno dei mezzi per uscire dalla cultura del dominio e dalla struttura del potere patriarcale.

La guerra di invasione, civile, interna ed esterna, dichiarata e non dichiarata non ha cambiato né la sua forma né la sua sostanza: gli eserciti degli stati nazione non hanno cambiato i loro obiettivi di offensiva nei confronti della popolazione civile e lo stupro, usato come arma di guerra, è il sintomo criminale di una patologia del patriarcato, necessario e fisiologico allo stato nazione ed al capitalismo. Tale patologia sarebbe reversibile se la discriminazione sessuale e di genere fosse considerato un atto politico, fosse affrontato nella sua struttura, dal micro al macro livello, nell’analisi e misura del potere, dell’egemonia e del dominio e non solo dal punto di vista formale del linguaggio.

Solo le società che, uscendo dalla retorica, dalla spettacolarizzazione e strumentalizzazione, vivendo realmente tale progetto di emancipazione dalla struttura patriarcale, dallo stato nazione e dal capitalismo, per intraprendere il cammino dell’abolizione della sopraffazione e del potere, della gerarchia e del leaderismo, potranno vivere nella dignità di autodefinirsi antiautoritarie e libertarie.

La struttura autoritaria dello stupro coltivata e diffusa nella cultura populista di massa patriarcale e nazionalista va contrastata e abbattuta sempre di più nei quartieri e nel privato, nella coppia e nella famiglia, eteronormata e non, e solo lasciando libero spazio all’autorganizzazione delle donne ed al rifiuto della delega, all’autogestione, all’autodifesa, promuovendo e vivendo la costruzione di una cultura libertaria alternativa orizzontale e concreta degli spazi personali e politici partecipati, che potrà esserci la libertà sessuale, politica, sociale ed economica per tutte e tutti.

Gruppo Anarchico C. Cafiero – FAI Roma

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