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La guerra è permanente?

La guerra è permanente?

Da diversi anni ormai si sente parlare di “terza guerra mondiale a pezzi”, di “guerra per procura” ecc. Ognuna di queste definizioni nasconde certo una parte di verità. Per cercare di capire meglio cosa sta alla base di queste affermazioni può essere utile un articolo di Paul Mattick dal titolo “La guerra è permanente”.[1] L’articolo fu pubblicato sulla rivista “Living Marxism” nella primavera del 1940, in un momento molto particolare. La Germania aveva già invaso la Polonia nel settembre del 1939; i sette mesi che seguirono videro una preparazione da ambo le parti per l’inizio di una offensiva tedesca sul fronte occidentale, preparazione che fu tuttavia priva di significative operazioni, tanto da passare alla storia come la “strana guerra”. Poi il 10 maggio 1940 i tedeschi scatenarono la guerra lampo (blitzkrieg) e le truppe tedesche un mese dopo entrarono a Parigi.

Tuttavia può essere significativo per capire meglio il periodo l’episodio di Dunkerque, che è stato recentemente rievocato in un pregevole film. Dal 26 maggio al 4 giugno 1940 circa 380.000 soldati inglesi e francesi in fuga si ammassarono sulla costa e nel porto di Dunkerque, dove nel frattempo si era radunata una numerosa flotta di navi militari, mercantili e di naviglio privato civile per l’evacuazione dei soldati. La situazione era molto compromessa, ma il 24 maggio un improvviso ordine di Hitler impose di fermare l’avanzata dei panzer e di proseguire solo con la fanteria. La decisione del Fuhrer venne interpretata come un favore fatto a Hermann Goring, che così poteva mostrare la potenza della sua Luftwaffe a cui sarebbe stato lasciato il compito di impedire l’evacuazione; ma forse vi era anche la segreta intenzione del dittatore di risparmiare un’umiliante disfatta agli inglesi, anche per favorire future trattative di pace anglo-tedesche.

In un suo commento al film Michele Basso scrive: “Sulla battaglia di Dunkerque si è detto e scritto moltissimo, chi pensa ad un errore di Hitler, chi a un miracolo a favore degli inglesi. La leggenda si è sostituita alla storia. Per questo è importante riscoprire uno scritto pubblicato su “Prometeo”, sicuramente di Bordiga. “Gli Stati dell’Asse, e soprattutto la Germania, lanciati sulla via del successo, che concepivano soltanto come un compromesso imposto al nemico sulla comune base degli schemi dell’imperialismo fascista mondiale, non tentarono neppure di sommergere almeno uno dei fortilizi avversari, quello inglese, come avrebbero potuto forse conseguire se, invece di irradiare puntate centrifughe per tutta l’Europa, nell’Africa e poi verso l’Oriente russo (al fine di assicurarsi pegni per il ricatto storico), lo avessero colpito a fondo dopo Dunkerque nella secolare metropoli con tutte le loro risorse. Il crollo di questa, come sentiva la borghesia ultra-industriale governante il paese di Hitler, avrebbe sommerso il capitalismo mondiale, o per lo meno lo avrebbe travolto in una crisi spaventosa, mettendo in moto le forze di tutte le classi e di tutti i popoli straziati dall’imperialismo e dalla guerra, e forse invertendo tremendamente le direttive sociali e politiche del colosso russo ancora inattivo.”[2]
Hitler, prima ancora che un nazista, era un borghese e, in quanto tale, temeva più di ogni cosa la ripresa delle rivoluzioni proletarie e anticoloniali. In seguito rifiutò ancora di dare il colpo di grazia a Londra, perché questo significava l’insurrezione delle colonie”.[3]
 Dunkerque quindi come metafora del passaggio da una potenza egemone a un’altra. Che non era la Germania bensì gli Stati Uniti d’America, espressione del Nuovo Mondo. Qualche analogia con la situazione odierna? Penso di sì.

Comunque Mattick scrive il suo articolo in questa fase di stallo, di sospensione. Successivamente l’aggressione nazista all’Unione Sovietica e l’entrata in guerra degli Stati Uniti muteranno i destini della guerra, dando origine al periodo della trentennale golden age del capitalismo ed al mondo bipolare che abbiamo conosciuto. Tuttavia il testo di Mattick mantiene la sua validità, anzi oggi ritorna di attualità nella situazione di crisi del capitale che stiamo vivendo.

Mattick comincia dunque col dire che “Ci sono già state guerre prima che esistesse il capitalismo, ma solo la guerra capitalistica è direttamente causata dal sistema socioeconomico esistente. Nellandamento ciclico del modo di produzione capitalistico una rapida accumulazione di capitale porta di conseguenza alla depressione e alla crisi, mentre il meccanismo stesso di risoluzione della crisi porta a una nuova fase di accumulazione e sviluppo. In maniera direttamente conseguente un periodo di pace capitalistica porta alla guerra e la guerra riapre a un nuovo periodo di pace. Ma cosa succede se la depressione economica diviene permanente? Anche la guerra seguirà lo stesso andamento e quindi la guerra permanente è figlia della depressione economica permanente. Mattick porta poi alle estreme conseguenze la sua analisi quando afferma: Oggigiorno, si tratta solo di vedere se, nella misura in cui la depressione non sembra più poter ricostituire le basi di una nuova prosperità, la guerra stessa non abbia perduto la sua funzione classica di distruzione-ricostruzione indispensabile per innescare un processo di rapida accumulazione capitalistica e di pacifica prosperità postbellica.

Naturalmente il ragionamento di Mattick poggia su una analisi classica della guerra intesa come risoluzione della crisi capitalistica, come ben dimostrato dalle due guerre mondiali del Novecento. Il meccanismo di risoluzione della crisi attraverso la guerra si basa schematicamente su due effetti esplosivi dello scontro bellico: 1) una distruzione ingente di forze produttive, quindi di capitale sovraccumulato che aveva dato origine alla crisi, e di forza lavoro in eccesso; 2) l’emergere nel conflitto di uno stato/nazione (o imperialismo) egemone nella ricostruzione postbellica e nella nuova fase di accumulazione capitalistica. Questa ultima affermazione non va intesa però in un senso puramente militare. Infatti in proposito Mattick aggiunge: “Analogamente, la guerra che sarebbe necessaria alla riorganizzazione richiesta dal capitalismo per continuare ad esistere, può pretendere energie che il capitalismo non è più in grado di fornire”. Mattick non parla quindi di stato o nazione o imperialismo, ma del capitalismo nel suo complesso, se abbia o no la forza di riavviare un nuovo ciclo di rapida accumulazione, come poi vedremo.

In subordine possiamo qui sottolineare che paradossalmente la ricetta keynesiana, basata sulla creazione di domanda aggiuntiva statale in una visione sottoconsumista della crisi, funziona al massimo nell’economia di guerra, quando praticamente tutta la produzione è comprata dallo stato, il risparmio privato è ridotto ai minimi termini, i salari si mantengono bassi e vi è un uso intensivo del capitale fisso (del macchinario) per la produzione bellica, praticamente senza investimenti aggiuntivi. Questa situazione ha favorito indubbiamente il successivo boom del dopoguerra, nel quale la ripresa dell’accumulazione vede comunque una riduzione al minimo del deficit pubblico, ma non è questo il meccanismo principale di risoluzione della crisi, come abbiamo già visto.

Ma torniamo a noi e vediamo che Mattick continua la sua analisi così: “Il mantenimento di enormi eserciti in costante stato di preallarme, l’incremento continuo della produzione per fini puramente distruttivi, il bisogno di portare avanti la guerra e la necessità di provvedere al sostentamento degli operai che lavorano ad un ritmo spaventosamente alto, tutto ciò divora il plusvalore ad una velocità senza precedenti e porta ad una crescente pauperizzazione di tutti i paesi, senza che nessuna delle potenze belligeranti abbia la possibilità di bloccare questo processo per mezzo di un improvviso sforzo gigantesco. Per un tale sforzo non ci sono energie sufficienti. Sorge così una situazione che richiede la permanenza di una guerra derivante dalla permanenza della depressione”. Naturalmente Mattick condivide la tesi che la produzione di armi, anche se garantisce profitti a qualche capitalista, costituisce un consumo improduttivo di plusvalore per il capitale nel suo complesso, tanto più per il fatto che questa produzione viene comprata quasi per intero dallo stato. Nel termine “pauperizzazione”, quindi, bisogna comprendere anche, e soprattutto, i tagli alla spesa pubblica per il welfare (pensioni, sanità, istruzione ecc.), che sono comunque salario indiretto dei lavoratori.

Nell’ultima parte dell’articolo Mattick affronta un tema di grande attualità: la contraddizione fra mercato mondiale e stati nazionali. Nella sua visione la “riorganizzazione internazionale delle sfere di sfruttamento supera i confini nazionali… Ma le classi dirigenti degli stati nazionali si sono storicamente sviluppate in una maniera che esclude la possibilità di una spartizione pacifica dello sfruttamento mondiale… Eppure la vittoria dei monopoli non potrà mai essere completa e la questione nazionale non scomparirà mai… Proprio questo processo, anzi, non fa altro che illustrare una volta di più la completa incapacità del capitalismo di portare a compimento un riassetto davvero razionale dell’economia mondiale… Il capitalismo, dopo aver creato il mercato mondiale, è incapace di garantire per sé stesso una spartizione pacifica dello sfruttamento mondiale e di controllare i reali bisogni della produzione mondiale, rappresentando quindi un vincolo per l’ulteriore sviluppo delle forze produttive umane… I giorni dell’economia capitalistica di mercato sono inesorabilmente contati, così come quelli del nazionalismo capitalistico, a meno che non venga creato un organo socio-economico per la regolamentazione cosciente dell’economia mondiale”. Però, sostiene Mattick, questa opera può essere portata a termine soltanto dal proletariato mondiale, essendo questa l’unica classe sociale i cui interessi non sono antagonistici nei confronti di una reale e cosciente collaborazione mondiale.

Credo però che bisogna operare una distinzione fra creazione del mercato mondiale, che è una caratteristica permanente e ineliminabile del modo di produzione capitalistico, pur con le sue diverse fasi, e la cosiddetta “globalizzazione”, intesa come la risposta data dal capitale alla crisi degli anni ’70 e alla relativa caduta del saggio di profitto, con le sue caratteristiche specifiche che oggi sono entrate in una fase di crisi. Il tutto in un quadro generale di declino storico del modo di produzione capitalistico. I vecchi stati nazionali arrancano dietro al capitale mondializzato: nati o cresciuti nell’epoca del capitalismo industriale e della formazione del mercato nazionale, hanno assistito poi la formazione dei monopoli e fatto da trampolino di lancio delle multinazionali nate nel paese. Oggi sono ridotti ad eseguire gli ordini del capitale finanziario e delle multinazionali senza patria, anche se poi sono costretti ad assumere un atteggiamento “protezionistico” nei confronti della piccola e media impresa e degli strati sociali impoveriti.

Come si vede le multinazionali hanno tutte le possibilità di condizionare gli stati nazionali rendendo ormai obsoleto ogni forma di nazionalismo, anche se il nazionalismo tende sempre a riproporsi in forme reazionarie

Arrivati a questo punto però è d’obbligo porsi una domanda: ma siamo veramente oggi in una fase di depressione economica permanente, come ipotizzato da Mattick? La risposta a questa domanda richiede una riflessione approfondita sulla crisi in corso. Nelle crisi cicliche del capitale, in una situazione di caduta del saggio di profitto, la massa dello stesso non viene più reinvestita nella riproduzione allargata, che è quello, come sottolineava Mattick, che determina la crisi economica. In una prospettiva storica di lungo periodo però proprio l’esperienza insegnava che l’evoluzione stessa della crisi poneva le condizioni per la sua soluzione, per la ripresa dell’accumulazione e dello sviluppo. La distruzione di forze produttive, la concentrazione dei capitali, la ristrutturazione, la conseguente disoccupazione e svalorizzazione della forza lavoro erano la premessa per un nuovo slancio dei profitti e degli investimenti. Ora non più. Contrariamente alle tesi correnti che considerano il capitale in salute guardando all’andamento crescente dei profitti, per lo meno sul breve periodo, una analisi più approfondita coglie il punto fondamentale dell’analisi del declino storico del capitale sul lungo periodo: la dissociazione fra l’andamento del saggio del profitto e l’andamento del saggio di accumulazione. Il passaggio fondamentale è “che il saggio di accumulazione ha in pratica cessato di rispondere agli incrementi del saggio di profitto, mentre ha cominciato a rispondergli benissimo la quota di profitti (e di reddito nazionale) impiegata speculativamente”.[4]

Tutto questo ragionamento poggia naturalmente su un dato di fatto che sembra andare controcorrente rispetto alla normale percezione delle cose: il saggio di profitto tende a scendere nei periodi di prosperità capitalistica mentre tende ad aumentare nei periodi di crisi. Ma è proprio così e i dati empirici lo dimostrano: ”Dopo un calo tendenziale nel dopoguerra fino al 1983 di circa il 55%, il saggio complessivo del profitto delle corporations americane è tendenzialmente aumentato dal 7% circa del 1983 all’11% circa del 2005”, anche se “di tale incremento la responsabilità va per quasi l’80% all’aumento del saggio del profitto del settore finanziario”. Nell’interpretazione di alcuni economisti naturalmente “il capitale speculativo può espandersi solo a spese di quello produttivo”, quindi “è un grossolano errore farsi abbagliare dall’andamento dei profitti tout court e considerare questo come un segno di vitalità del capitale”. Occorre poi considerare “pure l’altra metà del processo, la riconversione dei profitti in capitale”.[5] Per non parlare, poi, del fatto che il calcolo dei profitti e della produttività è soggetto a mistificazioni di ogni genere da parte delle istituzioni nazionali e internazionali, che riducono fortemente la sua attendibilità. Ad ogni modo, qualunque ne sia la causa, il dato empirico della dissociazione rimane e risulta essere uno dei tratti distintivi del declino storico del modo di produzione capitalistico.

Se il declino storico di cui abbiamo parlato corrisponde alla depressione economica permanente di Mattick è arrivato il momento di trarne alcune prime schematiche conclusioni:

1) La possibilità di una terza guerra mondiale fra “grandi potenze” sembra essere alquanto lontana. Il livello di distruzione/costruzione necessario per la risoluzione della crisi capitalistica sarebbe realizzabile solo con il coinvolgimento diretto di queste “grandi potenze”. La soluzione però non può essere solo militare. In questo caso gli Stati Uniti avrebbero gioco relativamente facile ma gli Stati Uniti, nella condizione in cui sono attualmente, sarebbero capaci di mettere in campo la mobilitazione economico-sociale necessaria? Credo di no. Lo stesso vale per la Cina, la Russia o l’Unione Europea. Ma, più in generale, il capitalismo nel suo complesso è in grado di proporre una nuova fase di sviluppo e di rapida accumulazione? Certo, nessuno può escludere una guerra esclusivamente distruttiva ma, con il livello attuale delle armi di distruzione di massa, entreremmo in una fase del tutto imprevedibile della storia dell’umanità.

2) La guerra permanente sembra quindi destinata a svilupparsi in aree semiperiferiche del mondo capitalistico, come oggi in Medio Oriente o, domani, forse in Africa. In queste aree giocano le loro carte imperialismi di secondo o terzo livello, Israele, Turchia, Iran, Arabia Saudita, per i propri interessi o per interessi altrui. Neanche i punti di attrito più sensibili come Ucraina o Corea del Nord sono usciti da un ambito locale. Difficile pensare che dietro l’atteggiamento distensivo della Corea del Nord non ci sia la diplomazia cinese ma anche la Corea del Sud e il Giappone non gradirebbero una guerra nel cortile di casa. Del resto il mondo bipolare è finito da un pezzo e anche l’impero. Tuttavia non posso fare a meno di pensare anche che la guerra, nonostante il suo carico di distruzione e di morte e la sua grande potenza mediatica, mantiene, nella situazione mondiale attuale, un carattere periferico e che la sua influenza sulle dinamiche economiche e sociali delle società capitalisticamente avanzate sia, tutto sommato, abbastanza marginale.

3) Pensare a una riedizione del movimento contro la guerra in chiave “antimperialista” mi sembra lontano dalla realtà. Tutto ciò era possibile fino alla prima guerra del Golfo o, al massimo, fino all’invasione dell’Iraq “contro l’imperialismo americano”. Ma oggi gli Stati Uniti, pur essendo la prima potenza militare, hanno troppi problemi interni per poter esportare qualcosa sia in termini sociali che politici. La crisi ha poi sconvolto gli scenari e i vari paesi capitalistici si muovono nella logica day by day. Piuttosto si potrebbe attualizzare la formula leninista: combattere contro la propria borghesia. Il problema è che oggi nessun Paese capitalista è in grado di sostenere una guerra di lunga durata. Da 20 anni assistiamo a una guerra diffusa (la c.d. guerra permanente) che si sfilaccia in piccoli interventi non risolutivi che peggiorano il quadro generale.

4) La produzione di armi continuerà comunque a crescere a dismisura. Il complesso militare-industriale non rinuncerà facilmente a una sua particolare “riproduzione allargata”, anche perché al suo interno si svolge il grosso della ricerca scientifica e tecnologica, con le sue crescenti propaggini nelle università private e pubbliche. Basti, a questo proposito un solo esempio: “la guerra segreta dei droni, svelati 550 raid USA in Libia quasi tutti da Sigonella”. Una notizia apparsa sulla prima pagina di la Repubblica del 21/6. La prima reazione naturalmente è: il solito imperialismo americano che vuole imporre il dominio sul mondo. Anche se l’articolo si conclude con una frase rivelatrice: “le missioni dei droni non contribuiscono a stabilizzare la situazione, né a sconfiggere il terrorismo: anche in Libia… il caos continua a crescere e nuove cellule fondamentaliste prendono le armi.” Allora? Leggiamo però fino in fondo l’articolo. Nel 2011 gli attacchi per eliminare Gheddafi furono 145 secondo fonti ufficiali, 241 secondo altre fonti in sei mesi. Nel 2016 per polverizzare le milizie dell’Isis nella città di Sirte furono impiegati 300 attacchi, anche se le milizie Isis non erano un granché: “alla fine, fra le macerie di Sirte sarebbero stati contati i cadaveri di 900 miliziani.” Uno spreco enorme di forze. Anche dopo la caduta di Sirte continuano gli attacchi dei droni. Contro chi? Contro qualche gruppo di miliziani isolati? Ma per questo basterebbe qualche sicario ben pagato, non dovrebbe essere difficile trovarne qualcuno. Contro qualche tribù o banda armata? Possibile ma questo non fa che aumentare il caos. Contro la popolazione civile? Si sa che qualche effetto collaterale c’è sempre. Ma forse la causa di questo spreco va ricercata a livello economico. I droni e i missili, una volta fabbricati devono essere impiegati per poterli poi di nuovo fabbricare, qualche capitalista deve realizzare i suoi profitti, anche se la produzione di armi in generale costituisce un consumo improduttivo di plusvalore per il capitale sociale. Ecco perché credo che una posizione antimilitarista secca sia più corretta di una genericamente “antimperialista”.

5) La militarizzazione del territorio è un dato di fatto in continuo aumento. Quale sarà il suo sbocco? Il 2020 è ormai dietro l’angolo[6] e non si dovrà aspettare molto per verificarne gli esiti. Premetto però che bisogna operare una distinzione fra un moto insurrezionale e i vari riots di strada di cui sono piene le cronache degli ultimi anni. A questo proposito non mi pare di poter rintracciare una differenza sostanziale fra guerra interna e guerra civile: al massimo fra le due “guerre” ci può essere una differenza di intensità, dove nella “guerra interna” prevale una più bassa intensità ed una maggiore capillarità dello scontro. Inoltre non vedo all’orizzonte, almeno a breve, il formarsi di avanguardie rivoluzionarie (suppongo di classe) da eliminare. Esistono invece diverse “guerre civili” striscianti, come quella fra soggetti o gruppi radicalizzati o islamizzati contro la “civiltà occidentale”, o quella degli afroamericani contro la polizia, o quella degli immigrati contro i gruppi razzisti, espressioni della disgregazione sociale di un capitalismo che emargina sempre più fasce consistenti di popolazione anche al centro del sistema.

Visconte Grisi

NOTE

[1] L’articolo si può trovare su http://www.leftcom.org/it/articles/1940-01-01/la-guerra-è-permanente

[2] “Il corso storico del movimento di classe del proletariato. Guerre e crisi opportunistiche”, Le tesi della sinistra, Da “Prometeo” n. 6 del 1947.

[3] Michele Basso: Quando Hitler salvò l’impero inglese – Il Pane e le rose – 28 Agosto 2017.

[4] Richard Jones: Le parole sono più forti dei fenomeni? Nel mondo dove vive la sinistra, sicuramente sì – Milano, Maggio 2007.

[5] ivi.

[6] Il riferimento è al documento della NATO dal titolo “Urban Operations in the Year 2020” in cui si prevede che le guerre future saranno all’interno delle città, il che ovviamente prelude alla militarizzazione totale del territorio.

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