Passato un po’ di tempo, la velocità di digestione delle notizie consente di poter parlare più tranquillamente di quel che per giorni non s’è potuto discutere; ossia di quel che accade ogni qual volta va in scena la mobilitazione di piazza. Va constatato che da almeno una decina d’anni (le letture sono molteplici ma prendiamo due lustri per andare sul sicuro) lo strumento della così detta “forma corteo” ha assunto sempre più i connotati di un atto utile a definire la momentanea egemonia all’interno dei movimenti, non che prima non avesse tale funzione, ma non era l’unico scopo rimasto. Se quindi il corteo serve a misurarsi “internamente” e non riesce più a definire momenti di accumulazione di consenso, rimane da chiedersi il corteo a cosa serva?
Ebbene rimane uno strumento politico, con una sua dignità e una sua utilità, probabilmente la volontà che lo intenziona ha qualche difetto, oppure , cosa assai più probabile ma nel contempo assai più deteriore, negli anni si è confuso lo strumento con lo scopo, arrivando ad una sovrapposizione tanto netta che spesso taluni percorsi giunti alla prova di piazza esauriscono la loro carica, e il tutto si conclude con il balletto delle cifre tra organizzatori e questurini.
Non mancano condanne e lodi per le medesime azioni e negli ultimi anni si è aggiunto l’invito alla delazione per consegnare alla giustizia chi si è macchiato di atti di “vandalismo”(Vendola immediatamente dopo il “riot” del 15 Ottobre 2011). Ad ogni modo a corteo finito, dopo una settimana di tam tam mediatico con analisi, approfondimenti, interviste ad improbabili black bloc (si è partiti da una ragazza-madre incappucciata nel 2011 e si è finiti con le dichiarazioni di un fessacchiotto nel 2015) tutto tace sui media e cominciano, fuori dai riflettori, le assemblee di chiarimento e di rottura con chi ha tentato di cavalcare l’onda mediatica o ha mandato all’aria le aspettative o semplicemente ci si lascia sui flop.
Stando all’interno dell’attivismo mediatico, che si è dato come obbiettivo quello di competere ad armi pari con l’informazione di governi industrie e “finanziame” vario, quindi all’interno di una produzione quantitativa di informazione è quasi ovvio che lo strumento dell’assembramento di piazza venga ad essere stravolto proprio dal cambiamento di paradigma che gran parte del movimento si è dato. Partiamo quindi dall’assunto, che è assai improbabile superare deficit qualitativi con meccanismi quantitativi, nel senso che se manca una riflessione profonda sulla fase e sulla concatenazione di eventi che hanno generato il presente -quindi non si innesca una critica storica- è complicato capire come agire e quali sono le leve utilizzabili per scardinare la narrazione neoliberista spacciata come l’unica possibile. Innescare una lotta mediatica per diffondere la verità è stato considerato uno strumento vincente, peccato che ogni realtà abbia la sua verità, peccato che per ogni frangia di movimento il proprio punto di vista sia un “assoluto” non trattabile. Esplode l’informazione in un pulviscolo di input difficilmente raffrontabili in poco tempo, quindi la velocità dello strumento diventa l’elemento stesso che innesca la deflagrazione e diminuisce drammaticamente l’efficacia della comunicazione. In un contesto del genere un corteo fornisce lo spunto più appetibile per la policromia narrativa, per solleticare l’immaginario e per costruirci attorno aspettative che sono smisurate rispetto a ciò con cui un singolo corteo si misura, in primis la sua composizione.
Ed è quasi una conseguenza logica che si debba accumulare quantitativamente in chiave di “resa mediatica” dell’evento, quindi dal sottobosco spontaneista escono creature strane che inseriscono un discorso condivisibile, come quello del boicottaggio e del sabotaggio dei protagonisti dell’aggressione capitalista, all’interno di azioni che ben poco disturbano e sabotano quei soggetti, ma che finiscono col danneggiarne altri. Il problema che gli “altri” sono da un lato chi ha scommesso la propria tenuta egemonica di movimento,
dall’altro una massa brulicante di soggetti dalle letture stridenti e contrastanti che annichiliscono le loro differenze dietro ad uno striscione comune. Nel conteggio manca l’alterità più autorevole, quella cui dovrebbe essere destinata tutta la retorica “mobilitazionista” ossia la sempre più strana società civile, che dovrebbe, nella mente di qualcuno, ritrovare forza e sicurezza per scendere in piazza ed addivenire parte attiva nelle mobilitazioni a venire. Quindi abbiamo a che fare con una enorme giustapposizione di individualità che non crea organicità, ma si limita ad aggregare momentaneamente, a fornire numeri utili ad accumulare attenzione che ognuno tenta di spendere come meglio crede o può. Andiamo dalle più eclatanti azioni parassitarie dei gruppi spontanei, che vegetano in rete per mesi fintanto che non trovano sul territorio europeo un corteo nel quale andare a mettere la firma.. vien da pensare che se mettessero tutta questa enfasi in azioni di boicottaggio organizzato avrebbero molta più fortuna, ma evidentemente il concetto di organizzazione li infastidisce così tanto che attendono che qualcuno organizzi il palcoscenico al posto loro..
Poi abbiamo il movimento in tutte le sue sfumature che organizza l’evento e che cerca ti tenere a galla il tutto
nel tentativo di creare l’evento su cui poi poter quantificare la tenuta delle relazioni. La domanda che si poneva in apertura del discorso torna quindi a riproporsi, ossia ha ancora senso il corteo?
La risposta è sempre si, il corteo è uno strumento non una risposta, o un fine fintanto che lo si pensa come mezzo per raggiungere dei risultati, inserito in una percorso che prevede vari momenti e che si sostanzia in una pluralità di pratiche e azioni, allora il corteo recupera la sua dignità di strumento politico per manifestare il dissenso. Abbandonare certe pratiche è rischioso poiché si lascia terreno (fisico) a disposizione dei soliti sciacalli, è pericoloso anche in quanto certe derive che fanno capolino ultimamente subirebbero un’accelerazione eccezionale, ossia certo contadinismo che invita all’isolazionismo vernacolare senza momenti di confronto di piazza, fornirebbe delle appetibili alternative individualiste. Ma continuando sarebbe un assist pazzesco all’isolazionismo verso cui stiamo andando, la narrazione unica e totalizzante del neoliberismo scandisce i ritmi della solitudine e dell’isolamento, definendo la socialità solo come alternativa a pagamento ad una solitudine gratuita…
Non si può e non si deve cadere nella condanna dello strumento politico solo perché usato male, tale atteggiamento fa il verso a chi confonde strumento e scopo, è invece decostruendo talune pratiche per snidare la contraddizione che le ha rese inutili, che ci mette sulla strada che conduce ad una comprensione ampia del problema nel quale siamo immersi. Nelle lotte locali di difesa del territorio, il corteo sfodera tutte le sue potenzialità, in quanto diviene punto di accumulazione di istanze comprensibili e condivisibili da una popolazione che, pur nella sua eterogeneità vive sulla pelle un disagio e una contraddizione. Quello che dovrebbe essere ripensato è, a questo punto, il significato dei grandi assembramenti nazionali, che dovrebbero tornare ad essere momenti di raccordo di percorsi territorializzati, che rilancino in avanti istanze che, pur provenienti da zone diverse, denunciano un legame strutturale tra le contraddizioni disseminate in lungo e in largo per il paese (e oltre). È un gioco arduo scansare le derive e ricollocare al posto giusto pratiche e analisi, vorrebbe dire prendersi del tempo e non stare sul pezzo, vorrebbe dire, non dare seguito alle scadenze governative, non celebrare la ritualità autunnale ecc ecc. si perde in spettacolarità e si è costretti a tralasciare una prassi consolidata (ma che ripaga sempre meno). Il guadagno starebbe nell’acquisizione di incompatibilità reale con lo status quo e nell’assunzione di una conflittualità introiettata nel quotidiano e non più delegata a pochi momenti topici. E’ un cambiamento di lettura, paradigma e prospettiva che deve essere preso in considerazione onde evitare da un lato di spettacolarizzare il nulla, e dall’altro cadere nella trappola dell’ isolazionismo vernacolare, che ci vede tutti intenti a coltivare il nostro orticello.
J.R.