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Educazione ed emancipazione, alcune note

Educazione ed emancipazione, alcune note

Enrico Voccia sul numero del 22 aprile di Umanità Nova ha affrontato nell’articolo “Educazione ed emancipazione” affronta una riflessione a mio avviso importante sul questo tema (articolo che in una conversazione privata con me, scherzando come è suo costume, ha sostenuto trattare dell’argomento educazione dai Sumeri ad oggi in diecimila battute). Enrico conclude l’articolo con questo brano:

Per terminare. Quest’articolo intende aprire un momento di riflessione sul presente del rapporto tra educazione ed emancipazione, nel tentativo di dare una risposta analitica a queste domande:

  • Se in generale, gli “stakeholder”, i “portatori di interesse verso l’ottenimento del risultato dell’ignoranza e della scarsa intelligenza delle masse in generale sono le classi dominanti, nello specifico quali strutture se ne fanno carico direttamente e, soprattutto, con quali concrete strategie operative?

  • Dato per scontato che qualunque fregatura viene propinata alle classi dominate funziona meglio se viene infiocchettata con un inganno ideologico, quali sono le “maschere ideali” dietro cui si nascondono le politiche volte alla ignoranza/imbecillità di massa (che ovviamente non possono essere presentate in quanto tali)?

  • Quali sono le conseguenze sulla vita materiale e sulla percezione di sé del mondo della scuola in generale?

  • Quali strategie si possono adottare per contrastare questo processo?

Ammetto che, letti, ed anzi riletti per sicurezza un paio di volte, i suoi propositi mi è venuta alla mente l’esclamazione burlesca “Alla faccia del bicarbonato di sodio!” di fronte a proposte tanto ambiziose. Celie a parte, si tratta di domande di grande rilievo e che meritano una riflessione collettiva. Proverò quindi non tanto a rispondere alle domande proposte o a svolgere una critica all’articolo – visto che, per l’essenziale, ne condivido l’impianto – quanto a proporre una linea di riflessione che ritengo possa utilmente integrare quella proposta da Enrico nel suo articolo al quale rimando http://www.umanitanova.org/2018/04/22/educazione-ed-emancipazione/.

Propongo di prendere in considerazione un arco temporale limitato e cioè quello che va dalla metà del diciannovesimo secolo ad oggi e l’impetuosa diffusione del modo di produzione capitalistico e, contemporaneamente, della civiltà capitalistica. Pongo questa divisione perché ritengo che, mentre definiamo come modo di produzione una relazione sociale definita in maniera necessariamente astratta, quando parliamo di capitalismo o, più propriamente, di civiltà capitalistica ci riferiamo ad una serie di formazioni sociali assunte nella loro complessità che vede un intreccio di struttura economica, culture, quadro politico e giuridico, strutture portanti della società ecc.. Tutto ciò può sembrare molto lontano dall’oggetto dell’articolo di Enrico ma, se si ha un po’ di pazienza, si comprenderà come parliamo del medesimo problema affrontandolo da un altro punto di vista.

Ora, in questo arco di tempo si afferma una specifica relazione produttiva ed uno specifico sistema economico che prevede il lavoro salariato, la produzione di merci ecc.. La civiltà capitalistica o il capitalismo storico modificano la società nelle quali giungono ad inserirsi e che pervengono a dominare in maniera veloce e radicale dissolvendo o comunque mettendo in crisi le relazioni sociali precedenti e le formazioni che le caratterizzavano. In particolare viene messo in crisi radicale tutto il settore della riproduzione sociale, si dissolve o quantomeno si ridimensiona la tradizionale famiglia allargata che si assumeva la cura degli anziani, dei malati, degli invalidi e che garantiva l’educazione dei figli; questa massa di attività viene assunta in gran parte dal mercato o dallo stato o, di regola, da una combinazione fra mercato e stato. Di conseguenza, nell’area a capitalismo maturo, crescono sino a divenire predominanti numericamente i lavoratori e le lavoratrici addetti alla cura, all’istruzione, alla tutela dell’”ordine” e così via.

Basta, per fare un caso sin banale, guardare al numero delle badanti in società che invecchiano e nelle quali i figli, se appena possono, non si assumono la cura dei genitori. Questo per non parlare delle case di cura o, se si preferisce, di riposo. D’altro canto, non si tratta di un semplice trasferimento di funzioni, non si tratta di sostituire nonni e genitori con gli insegnanti e figli e nipoti con badanti ma di rispondere ad una massa imponente di nuove esigenze prodotte dallo sviluppo stesso della formazione sociale capitalistica.

Ci si trova quindi di fronte ad un apparente paradosso: nelle società nelle quali il capitalismo ha prodotto una radicale proletarizzazione della società il costo dei lavoratori, appunto, proletarizzati che devono pagarsi cure, assistenza, istruzione, ecc. o direttamente o mediante la pressione fiscale cresce in maniera enorme, mentre costano di meno i lavoratori semiproletarizzati e cioè quelli che vivono in società dove i costi della riproduzione sono ancora in capo a strutture precapitalistiche, con l’effetto, per certi versi paradossale, che questo genere di lavoratori che lavorano nei paesi a netto predominio capitalistico usano parte del reddito ottenuto con il loro lavoro per sostenere l’economia familiare nel paese di origine giovandosi proprio della differenza di reddito.

Lo sviluppo dei costi e del numero degli addetti all’istruzione, alla sanità, alla cura ecc., per non parlare delle professioni affini a queste attività qualsiasi sia lo forma giuridica nella quale si svolgono, risponde, almeno, a due funzioni:

  • Garantire le condizioni di funzionamento delle attività direttamente e indirettamente produttive garantendo la produzione e la manutenzione di una forza lavoro in grado di farle funzionare;

  • Garantire quel controllo sociale non più affidato alla famiglia allargato, alle comunità locali, alla chiesa, ecc..

Venendo all’istruzione, quindi, ci troviamo di fronte alla scolarizzazione di massa che fornisce alle classi inferiori un’istruzione, di regola, di modesta qualità ma che comunque cerca di garantirne l’inquadramento, la preparazione al lavoro, lo stesso controllo nella prima fase della loro vita mediante il semplice espediente di tenerli in edifici appositamente approntati e singolarmente simili a carceri e/o a caserme.

Tutto ciò funziona perfettamente, o quasi, nella cosiddetta età dell’oro del capitalismo, più o meno dal 1945 al 1975 – stiamo parlando ovviamente nei paesi capitalistici dell’area centrale. Già, però, negli anni ’60 dello scorso secolo è evidente che la scolarizzazione di massa ha prodotto, appunto, una massa di persone che rivendicano, contemporaneamente, maggior libertà negli stili di vita ed un accesso alla ricchezza sociale più robusto, decisamente più robusto. Ci si trova, a questo punto, in una situazione complessa per le classi dominanti: da una parte il tasso di crescita delle economie dei paesi centrali si riduce seccamente, dall’altra le richieste delle classi subalterne sono difficili da contenere.

Non è questa la sede per esaminare l’assieme delle misure che le classi dominanti hanno preso, per tentativi ed approssimazioni, in quegli anni. Quello che è però evidente è che si è operato in due direzioni convergenti:

  • L’individuazione, nell’ambito dell’economia mista pubblico/privato, del settore pubblico come una sorta di frontiera interna da forzare per riportare alla proprietà privata a costi ridottissimi ampia parte delle proprietà, delle imprese, dei servizi sino a quel momento monopolio o quasi del settore pubblico/statale dalle scuole alle ferrovie, ecc..

  • Lo spostamento su base planetaria dei luoghi della decisione sia economica sia politica in tutte le loro articolazioni ed il conseguente svuotamento del ruolo degli stati nazionali, i tradizionali avversari ma allo stesso tempo gli interlocutori dei movimenti sociali inevitabilmente strutturati su base nazionale.

È a questo punto possibile abbozzare delle parziali risposte – insisto, solo abbozzare – ad alcune delle domande di Enrico. Molto schematicamente:

  • Quando Enrico chiede” Se in generale, gli “stakeholder”, i “portatori di interesse verso l’ottenimento del risultato dell’ignoranza e della scarsa intelligenza delle masse in generale sono le classi dominanti, nello specifico quali strutture se ne fanno carico direttamente e, soprattutto, con quali concrete strategie operative?” , la prima provvisoria risposta è: gli stati nazionali, in realtà coordinati e dominati da precise agenzie internazionali che hanno occupato l’accademia, godono di una incontrovertibile egemonia sul piano “scientifico” e, nel contempo, banalmente, hanno la forza di imporre le loro scelte.

  • Alla domanda “Dato per scontato che qualunque fregatura viene propinata alle classi dominate funziona meglio se viene infiocchettata con un inganno ideologico, quali sono le “maschere ideali” dietro cui si nascondono le politiche volte alla ignoranza/imbecillità di massa (che ovviamente non possono essere presentate in quanto tali)?” si può rispondere: mediante una campagna – basata sull’utilizzo strumentale anche di alcuni dati di realtà – contro l’inefficienza della scuola pubblica e per una sua integrazione nel più vitale sistema delle imprese private dalle quali si sostiene debba trarre insegnamento anche per il suo funzionamento interno.

  • Se si chiede “Quali sono le conseguenze sulla vita materiale e sulla percezione di sé del mondo della scuola in generale?”, la risposta è, a questo punto, quasi automatica: una struttura – e di conseguenza chi vi lavora – impoverita economicamente e screditata socialmente, finisce per cercare il suo “riscatto” proprio nell’asservirsi volenterosamente e volontariamente proprio ai poteri che l’hanno impoverita e screditata.

  • Infine alla domanda “Quali strategie si possono adottare per contrastare questo processo?” rispondo per ora chiedendo la cortesia di lasciarmi qualche piccolo segreto. Lo so, scherzo troppo: diciamo che si tratta di argomento che merita un discorso a parte.

    Cosimo Scarinzi


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