Ho trovato l’articolo di Grisi dedicato alla crisi della Grande Distribuzione Organizzata molto interessante a livello descrittivo, ma debole dal punto di vista dell’analisi teoretica volta alla spiegazione scientifica del fenomeno e, talvolta, anche con errori fattuali in alcuni dati che vengono offerti a supporto della tesi esplicativa. Il problema, ad essere sinceri, non è di Grisi in particolare, ma di tutti coloro che per analizzare il fenomeno della crisi adottano le teorie economiche classiche – com’è il caso di Grisi che si rifà esplicitamente alle analisi di Marx – o neoclassiche – com’è il caso della dominante visione “neo”liberista corrente. Non fosse altro per un fatto banale: una crisi economica generale è un oggetto tipicamente macroeconomico, mentre le teorie classiche e neoclassiche sono nate e si sono stabilizzate nella loro forma definitiva (nella migliore delle ipotesi) svariati decenni prima della nascita della Macroeconomia, dunque i loro strumenti concettuali sono tipici di quella che oggi è la Microeconomia, che si cerca – ieri come oggi – di applicare agli oggetti economici intesi come totalità interagente.[1]
Non è certamente detto che Keynes e seguaci o Sraffa o anche altri debbano essere sempre presi per oro colato, ma è altrettanto certo che essi hanno sviluppato strumenti specifici per l’analisi del fenomeno della crisi economica generale mancanti del tutto negli approcci classici e neoclassici. Di conseguenza, se si ritiene che questi strumenti siano errati, la cosa non può essere data per scontata ma andrebbe dimostrata esplicitamente: non si può come fa Grisi semplicemente riproporre una teoria classica come critica ad una lettura macroeconomica della crisi – non fosse altro perché tali impostazioni postclassiche e postmarginaliste sono nate proprio come critica alle precedenti formulazioni dell’Economia Politica e, nella fattispecie, alla loro lettura del fenomeno generale della crisi. Occorrerebbe, in altre parole, una preventiva “critica alla critica” ai tipici strumenti concettuali della Macroeconomia (domanda aggregata, principio del moltiplicatore/demoltiplicatore, propensione al risparmio/consumo, ecc.) e/o alla loro applicazione alla teoria della crisi che, invece, manca del tutto.
Ad esempio Grisi afferma che “Baran e Sweezy sostengono che gli oligopoli eliminano la concorrenza sui prezzi. Con la fine della concorrenza sui prezzi, e con l’enorme produttività degli oligopoli, il plusvalore tenderebbe a crescere al di sopra delle possibilità di investimento causando un eccesso cronico della capacità produttiva. A questi autori sono state rivolte delle critiche relative al vizio dei sottoconsumisti di postulare uno squilibrio permanente tra l’aumento della capacità produttiva e quindi dell’offerta e l’aumento della domanda, squilibrio che è in totale contrasto con l’analisi della riproduzione allargata trattata da Marx.” Ebbene, Grisi sostiene qui ed in altri punti del suo articolo che una teoria è falsa perché è in contrasto con un’altra (quella classica di Marx) – ma, in mancanza della “critica alla critica” di cui sopra, si tratta di un atteggiamento puramente fideistico e, in quanto tale, soggettivistico e non scientifico.
C’è poi che Grisi non solo dice che “la crisi generale del sistema capitalistico, nel settore della circolazione delle merci, si manifesta come crisi di sovrapproduzione” e, di conseguenza, svaluta le teorie “sottoconsumistiche” con i limiti teoretici che abbiamo evidenziato sopra, ma giunge anche a citare come oro colato alcune mitologie – per non dire bufale – del “neo”liberismo contemporaneo. Ad esempio, “Queste politiche [keynesiane] furono già applicate da Roosevelt negli anni ’30, all’epoca della grande recessione americana, senza tuttavia arrivare a una risoluzione definitiva della crisi (…). Inoltre già negli anni ’70 le politiche keynesiane hanno fatto fallimento portando, specialmente in Italia, a un aumento stratosferico del debito pubblico ed alla successiva svalutazione della lira. (…) Oggi comunque in Europa queste politiche sarebbero non applicabili, in quanto l’euro è una moneta emessa da una banca privata, i cui crediti vanno comunque restituiti e senza avere dietro uno stato che possa stampare banconote senza copertura. (…) E comunque non è il caso di disperarsi più di tanto, visto che l’aumento incontrollato del debito pubblico negli USA e, soprattutto, in Giappone non ha ottenuto risultati molto migliori.”
Nell’ordine. 1. Non è per nulla una critica dire che le politiche keynesiane prebelliche “non giunsero ad una risoluzione definitiva della crisi”, dal momento che così si dice implicitamente che qualche effetto ebbero, mentre nel resto del pianeta che applicava le politiche “anticrisi” del nostro presente, la crisi non si risolse né poco né tanto.[2] 2. L’“aumento stratosferico del debito pubblico” e la “crisi fiscale dello Stato” negli anni ’70, nonostante il loro sbandieramento dell’epoca e dell’oggi, oggi sappiamo essere state pure “fake news” propagandistiche volte a creare l’accettazione delle varie “politiche dei sacrifici” che hanno portato al graduale smantellamento dello “stato sociale” ed alla restaurazione del tradizionale liberismo. Basta un semplice sguardo ad una banale infografica di una qualunque ricerca sul debito pubblico italiano per scoprire come un elevato rapporto debito/pil abbia sia stata una costante della storia economica della nazione italiana… eccetto proprio nei trent’anni gloriosi (con una media intorno al 30% – nel 2017 siamo arrivati, di politiche antideficit in politiche antideficit al 133%). 3. Determinate politiche non sarebbero più praticabili perché “l’euro è una moneta emessa da una banca privata”? Beh, era il caso di gran parte delle nazioni durante i “trent’anni d’oro” – Italia inclusa: la Banca d’Italia era ed è un ente di diritto pubblico, non una Banca di Stato – per cui le politiche di stato sociale volte al controllo delle crisi economiche sono una scelta politica e non economica. 4. La “stampa di moneta senza copertura”: da quando nel 1971 è stato abolita ogni minimo rapporto della cartamoneta con oro o altre forme di valori oggettivi, ogni singolo centesimo stampato da un qualunque governo è per definizione “senza copertura”. 5. Nel finale poi da un lato si confondono le politiche keynesiane con “l’aumento incontrollato del debito pubblico” (come abbiamo visto invece tipico delle politiche liberiste di austerità), dall’altro si ignora in maniera plateale il fatto che determinate politiche vagamente keynesiane, tipo l’Obamacare, che il liberista Obama si è visto costretto ad applicare sull’onda di un enorme movimento di massa hanno fatto velocemente uscire il paese dalla crisi, caso pressoché unico nel pianeta.
È notorio che del pensiero di Marx – ivi compresa la sua teoria economica – ho una concezione che lo vede come un meccanismo ideologico del capitale, volto al nascondimento della realtà effettuale delle cose ed allo sviamento delle classi subalterne da un’azione autenticamente volta al superamento dello stato di cose presenti: in questa mia concezione, non è certo secondaria la constatazione che, spesso e volentieri, le analisi di stampo marxista e quelle di stampo “neo”liberista giungono a conclusioni simili sulla realtà effettuale del capitale e condividono una medesima mitologia. Il che non significa che io sia un fan acefalo di Keynes, Sraffa, ecc., ma, prima di perdere fiducia nelle loro maggiori capacità concettuali in campo economico rispetto al marxismo od al liberismo, gradirei una seria ed oggettiva operazione di critica.
Enrico Voccia
NOTE
[1] Tagliando con l’accetta. Con macroeconomia si intende quella parte dell’Economia Politica che analizza gli oggetti economici (moneta, mercato, reddito, consumo, risparmio, investimento, occupazione, spesa pubblica, ecc.) relativi a una regione geografica ma anche all’intero pianeta nel suo complesso. Con microeconomia, invece, si intende lo studio degli stessi oggetti nel comportamento economico di singoli individui, famiglie, aziende o di singoli segmenti di mercato, analizzando in quest’ottica come vengono impiegate e spese le risorse. La differenza è, inoltre, nel metodo di analisi: la microeconomia analizza il comportamento economico di singole unità (lavoro, beni, imprese, mercati), mentre la macroeconomia analizza il comportamento di queste stesse unità sotto forma di insieme e di aggregato – nel caso dell’analisi del fenomeno generale della crisi, il comportamento di tutte le imprese nel contesto di questa specifica congiuntura economica.
[2] Fatta esclusione per l’Unione Sovietica che è un discorso a parte.