Quelli che non si arrendono

C’è la folla di altri tempi al Polivalente di Bussoleno. Scorrono le immagini dello sgombero della Libera Repubblica della Maddalena del 27 giugno 2011, poi quelle del 3 luglio, il giorno dell’assedio.
Sembra di tornare a quelle giornate. L’odore acre dei lacrimogeni, il respiro che si mozza, il tempo sospeso dell’attesa di quella breve notte estiva. Il trascolorare delle stelle nell’alba e i primi mezzi che arrivano sull’autostrada e sostano a lungo prima di entrare in azione.
Marco Imarisio in un editoriale del Corriere della sera del 28 gennaio, il giorno successivo alla sentenza che ha condannato 47 No Tav ad oltre 140 anni di carcere, irrideva il mito della Libera Repubblica della Maddalena, come una sorta di “zona rossa all’incontrario”, dentro i No Tav, fuori le forze dell’ordine. Imarisio dovrebbe visitare – ai giornalisti il permesso lo danno – il fortino/cantiere di Chiomonte tre anni e mezzo dopo. Chi scattasse una foto e la facesse girare lontano da questo scampolo di Piemonte difficilmente potrebbe convincere qualcuno che quello che vede è un cantiere e non un avamposto militare in zona di guerra. Dentro, oltre gli infiniti strati di cemento e acciaio e filo spinato ci sono soldati, carabinieri, poliziotti, blindati Lince, depositi per i lacrimogeni e le altre armi. Una barriera (quasi) impenetrabile.
Se Imarisio fosse venuto alla Libera Repubblica sarebbe stato accompagnato a farsi un giro per gli accampamenti, alla baita, alle barricate inventate da decine di ingegneri e carpentieri No Tav, alla tenda dove arrivavano in continuazione cibo e bevande. Per tutti c’era sempre qualcosa da mangiare e da bere. Durante lo sgombero le pentole vennero riempite d’acqua per soffocarci i lacrimogeni. Alla Libera Repubblica c’erano docenti universitari che le avevano trasformate in aule, incontri, feste, musica, lunghe assemblee, turni giorno e notte alle barricate che, non ne dubiti Imarisio, sapevamo bene che sarebbero state buttate giù da chi ha il monopolio della violenza. Lo spirito di fratellanza e condivisione di quelle giornate, irriso da Imarisio, era quello di chi non si era chiuso in un fortino, ma aveva liberato per tutti uno spazio. Fuori stavano solo le forze di occupazione e gli emissari delle ditte. Le porte, tra qualche più che comprensibile malumore, erano aperte anche per i giornalisti. Quasi tutti quelli che hanno bussato sono entrati. Sapevamo che la polizia avrebbe preso la Maddalena, sapevamo che il 3 luglio l’assedio non si sarebbe concluso con la capitolazione della cittadella fortificata che stavano cominciando a costruire. Siamo rimasti lì lo stesso. Siamo rimasti lì perché non intendevamo arrenderci. Non l’abbiamo mai fatto in questi tre anni e mezzo di lotta sempre più dura. Imarisio suggerisce ai No Tav il realismo, gli fa eco Tropeano dalle pagine della Stampa, suggerendo di ri-consegnare ai giochi della politica istituzionale la partita, allontanando i “cattivi”. Imarisio fa sua la tesi dell’ex procuratore capo di Torino Giancarlo Caselli. Caselli in più occasioni ha sostenuto che nel mirino erano le condotte individuali violente, non il movimento di opinione. Quello che fingono di non sapere è che il movimento No Tav, tutto il movimento nelle sue molteplici sfaccettature, non è mai stato e non intende diventare un movimento di opinione. Nessuno vuole essere mero testimone del disastro ma ognuno, come sa, come può e come ritiene si mette di mezzo per impedire la realizzazione del Tav. Dietro a quelle barricate c’eravamo tutti. Qualcuno in prima fila, qualcun altro più indietro, ma tutti insieme. Lo dimostra, paradossalmente, la sentenza stessa del tribunale, che fa leva sul “concorso”, sul fatto che chi era lì rafforzava l’intento degli altri con la sua stessa presenza. Sul piano squisitamente giuridico, una vera aberrazione, sul piano politico l’essenza stessa del movimento. Lo si respirava nell’aria del Polivalente, fredda per la caldaia rotta, ma intensa nella solidarietà ai condannati, nell’intenso, lungo applauso agli avvocati che hanno analizzato il processo e la sentenza. I filmati proiettati nell’incipit dell’assemblea, gli stessi mostrati ad un tribunale sordo e cieco, mostrano poliziotti, carabinieri e finanzieri raccogliere pietre e lanciarle verso i No Tav nei boschi sopra Chiomonte. E’ il tre luglio. Tra i condannati c’è un No Tav che vediamo trascinato per tutto il piazzale e pestato con bastoni nodosi. Secondo la Procura le ferite che gli hanno inciso il corpo erano dovute ad una caduta. Anche lui è stato condannato alla galera e a pagare i danni ai poliziotti e ai loro sindacati. Secondo Cesare Martinetti, autore dell’editoriale del quotidiano La Stampa, la sentenza dovrebbe aiutare il movimento a capire la necessità di “espellere gli infiltrati”, quelli che hanno trasformato il “cantiere di Chiomonte nel simulacro di tutti gli orrori contemporanei”. Un lungo applauso ha salutato i condannati, uno altrettanto intenso quelli che hanno fatto sabotaggi.
La carta della divisione esce ancora una volta dalla cassetta degli attrezzi dei gazzettieri che provano a seminare la paura, a suggerire la rassegnazione, ad indicare un comodo rifugio al sicuro dalle aule di tribunale, dalle sentenze di anni di reclusione e decine di migliaia di euro di “risarcimenti”. Ancora una volta il movimento ha risposto di slancio. Il giorno stesso della sentenza dopo un breve blocco della tangenziale nei pressi dell’aula bunker, la merenda sinoira solidale alla bottega di Mario, il barbiere di Bussoleno che ha preso tre anni e mezzo, si è trasformata in corteo cittadino sino alla statale 24, dove un imponente schieramento di polizia bloccava il passaggio verso l’autostrada del Frejus. Nonostante ciò qualche decina di ragazzi di oggi e di ieri sono passati per i prati raggiungendo la A32. La polizia ha risposto con lacrimogeni e caccia all’uomo, tre fermi con corollario di denunce pesanti. Così vanno le cose ai tempi del Tav. Il treno su cui si gioca una partita che va ben al di là della valle, perché qui si gioca un’idea di tempo e di luogo che non è quello dove siamo forzati a vivere. Il sabato successivo l’appuntamento è a Giaglione. Il 31 gennaio è l’ultimo dei “giorni della merla”, che per i piemontesi segnano il picco dell’inverno. Siamo in circa 250 all’appuntamento al campo sportivo, dove la strada delle gorge si dipana verso Chiomonte. Il programma prevede una passeggiata alle reti, che in tutta la loro ingombrante fisicità dimostrano la volontà dello Stato di imporre, costi quel che costi, il Tav. Un’ordinanza fresca fresca ha dichiarato “zona rossa” strade e sentieri per il cantiere/fortino. La polizia è in forze sia nel recinto che lungo i sentieri. La strada delle gorge è stata bloccata da jersey, poco dopo il bivio di uno dei sentieri alti. La recente lieve nevicata ha impiastrato di fango e di ghiaccio mulattiera e sentieri. Qualcuno propone di spiazzare l’avversario, di andare dove non ci aspettano, ma prevale l’inerzia a percorrere strade già note. Un peccato che l’arma della sorpresa, la capacità di muoversi sul territorio, aprendo falle nella macchina di controllo militare, si applichi solo in quest’angolo nascosto, dove, quando va bene, si riesce ad avvicinarsi quel tanto che basta per fuochi e petardi. Si arriva al blocco e lì qualcuno prosegue per il sentiero alto, altri sostano ai jersey, qualcun o accende un fuoco per rompere il freddo e il buio incipiente. Per fortuna l’inverno è mite: è piacevole scambiarsi idee, fare battute, osservare le mosse della polizia. Una parte del gruppo arriva in alto sul cantiere: spettacolo pirotecnico e poi via di corsa. La polizia pare intenzionata a fare bottino ma questa volta resta a mani vuote. Tutti tornano indietro senza problemi a parte qualche scivolata sul ghiaccio. Ed il pensiero è già oltre, verso i prossimi appuntamenti di lotta, una lotta che, sempre più, dovrà trovare spazi e luoghi che sappiano mettere in difficoltà l’avversario. Una scommessa necessaria, un impegno di tutti e di ciascuno. Poche sere prima, nella sala affollata di Bussoleno ogni tanto si sentiva la voce lieve di una neonata. Un bimbo della stessa età reclamava il pasto disturbando la lettura della sentenza in aula bunker. In questi anni tante volte abbiamo dato l’ultimo saluto a qualcuno di noi che se ne andava, facendo l’ultimo viaggio con la bandiera No Tav sulla bara. Chi crede di averci sconfitti, spaventati, non ci conosce. Non ci siamo arresi alla Maddalena, non ci arrenderemo mai.
m. m.
Sabato 21 febbraio manifestazione No Tav a Torino
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